LA PRIGIONIERA

È troppo tardi. Ha aspettato troppo. Se solo avesse preso la decisione ieri, avrebbe potuto avere una possibilità di uscire di qui. Ha continuato a ripetersi «solo un giorno ancora» finché non è arrivata a dieci giorni fa. Non sono le ore, o la città, o il lavoro, o la solitudine. È il bambino. Quel maledetto bambino del cazzo. Si morde la carne già martoriata attorno all’unghia del pollice fino a farsi uscire il sangue, un’abitudine di cui credeva di essersi liberata da anni, e continua a passare da un sito all’altro.

Sui forum di Reddit e Zoop sembrano tutti impazziti, non ha fatto che saltare da un link all’altro, con l’assurda speranza di trovare conferma che l’aereo aveva solo avuto qualche problema tecnico, atterrando magari in qualche aeroporto fuori mano. O addirittura che si era schiantato. Sempre meglio di niente. Invece non c’è nessun rapporto di disastri aerei. È successo in un attimo. Il momento prima era sul radar; il momento dopo, sparito. Puf. Il secondo in un mese, solo che questo non era un volo interno della China Airlines, è un Airbus che trasporta passeggeri, per la maggior parte inglesi e americani, da Heathrow al JFK.

Fa scorrere i titoli, controllando di tanto in tanto anche l’audio. Impossibile star dietro a tutte le ipotesi: terrorismo, il Triangolo delle Bermude, l’inizio del Rapimento in cielo, ambientalisti che facevano saltare gli aerei in volo. Cani e porci inventavano teorie, proprio come quand’era sparita tutta quella gente da una nave da crociera, quattro anni fa; e tutti quei pazzoidi non avevano ancora smesso di ricamarci sopra. Per un po’ persino il suo ragazzo dell’epoca aveva abboccato a quella storia assurda sui sopravvissuti.

Prova ancora a cercare dei voli per Londra. Poi per l’Europa. Niente. Secondo la CNN il traffico aereo è sospeso «fino a data da stabilire». E se provasse a tornare a casa via mare? Già si vede a chiedere un passaggio su un motopeschereccio, il mozzo di bordo. Su Google cerca le navi di linea in partenza da New York per l’Europa, ma anche le più economiche sono ben oltre le sue possibilità, e non ci sono posti liberi per almeno un mese. Non ha soldi per un albergo o un appartamento. Ha mandato un’e-mail ai genitori, ma al massimo potranno darle qualche centone, nemmeno lontanamente sufficiente per pagare un affitto o versare un anticipo nell’attesa di trovarsi un altro lavoro.

Per adesso è bloccata.

Si alza, si stira. Struscia i piedi coperti dai calzini sul pavimento di legno lucido. Sul caminetto c’è un’unica foto di Joshua da piccolo, la stessa che le hanno mandato quando ha fatto domanda per quel lavoro. Ha l’aria tenera, avvolto in una copertina azzurra, gli occhi che sbirciano tra le pieghe della stoffa. Nessuna foto di lui dopo i due anni. Non sa dove l’abbiano preso, se l’hanno adottato tramite un’agenzia o da una madre surrogata. Non gliel’hanno detto e lei non si azzarda a chiederlo. Désirée e Marcus. Due stronzi boriosi, li definirebbe sua madre. Marcus è un biochimico e Désirée una psichiatra. Proprio come se li aspettava dopo aver visto un po’ di film su New York: una bella casa di arenaria a Brooklyn Heights, tutti e due in gran forma e senza un capello fuori posto, parlavano veloci come macchinette e non erano mai in casa. E lei non è certo la prima ragazza alla pari. Una sera li aveva sentiti che chiacchieravano tra loro. Quella che l’aveva preceduta – Clara, una sudafricana – aveva resistito tre giorni in tutto.

La suoneria del telefono le segnala che è quasi ora della lezione di piano. Sospira e poi si avvia su per le scale. Désirée e Marcus si sono assicurati che non abbia mai il tempo per tirare il fiato: lezioni private per giovani geni, nuoto, francese. Désirée aveva accennato che prima veniva anche una donna a insegnargli il tagalog, una volta alla settimana, «per non perdere il contatto con la sua cultura»; non aveva però spiegato come mai le lezioni si fossero interrotte. L’insegnante di piano, una tizia brusca che viene dall’Europa dell’Est e che riesce a intimidire Tracey almeno quanto Joshua, è l’unica persona che abbia conosciuto finora a non lasciarsi influenzare dalla stranezza del bambino.

«Ciao, Joshua! È quasi ora della lezione di pianoforte.» Detesta la vocetta falsamente allegra che si ritrova a usare quando parla con lui. «Sei pronto?»

Le lancia una di quelle sue occhiate alla Sei scema o cosa? È già vestito e la stava aspettando seduto sul letto. Qualche volta ha cercato d’individuare cosa ci sia in lui che glielo fa risultare così repellente. Non è solo perché non sorride mai; è come se avesse un peso addosso, come se la stesse perennemente giudicando, in silenzio. Anche gli altri bambini del vicinato lo tengono a distanza. Ha cercato di attaccare bottone con le altre tate e ragazze alla pari, il gruppetto che tutti i giorni si ritrova sulle panchine del parco, ma non l’hanno accettata tra loro. Sa che non dovrebbe prenderla sul personale. Non è per lei, hanno paura che i loro bambini si ritrovino a giocare con Joshua. Ogni volta che vanno al parco lui finisce per giocare da solo. Anche se in effetti non gioca mai: si limita a guardare, con quella sua aria vagamente sardonica.

Al suo terzo giorno lì, d’un tratto era diventato troppo da sopportare, e Marcus l’aveva trovata che piangeva in cucina. Le aveva confidato che fino a tre anni Joshua non aveva fatto altro che strillare. Poi aveva smesso di colpo, come se fosse scattato un interruttore. Marcus aveva riso senza allegria e aveva detto che non sapeva nemmeno lui se erano peggio quegli strilli incessanti o com’era adesso. Tracey ha la sensazione che da quella volta cerchi sempre di evitarla.

Spinge alla porta Joshua, e comincia a piovigginare appena mettono piede fuori. «Che tempo orribile!» cinguetta lei. Lui rimane completamente immobile mentre gli infila i guanti. «Sei abbastanza coperto, Joshua?»

«Sì.»

«Andiamo, allora?»

«Sì.»

«Bene.»

La pioggia rinforza già a metà marciapiede. Autunno a New York. Il cielo è basso e coperto. Non ha ancora avuto occasione di attraversare il ponte verso Manhattan; il profilo della città la tenta da lontano. La mano del bambino è un piccolo e ripugnante blocchetto di legno nella sua. Quando ancora scambiava la sua reticenza per timidezza, ogni volta che uscivano di casa cercava di chiacchierare con lui. «Guarda, un cane!» Oppure: «Uno di questi giorni andiamo al museo». Ma adesso non si sforza nemmeno più. Percorrono in silenzio i cinque isolati fino alla Fulton, le foglie viscide e fangose sotto le sue scarpe da quattro soldi.

All’incrocio aspettano il verde e poi attraversano in fretta con le altre persone ansiose di sottrarsi alla pioggia. Passano davanti a una boutique in cui i vestiti costano più di un mese di stipendio, e a una gastronomia piena di forme di formaggio.

«Ci siamo quasi!» cantilena rimpiangendo di non potere infilarsi gli auricolari e ascoltare la musica scordandosi di lui. Tracey di solito lo aspetta nello Starbucks sulla strada principale, mentre lui è a lezione, e quell’attesa si sta trasformando nel momento migliore della sua settimana. Girano l’angolo. Una donna in stivali neri alti e con un enorme berretto di lana fatto a mano passa loro accanto, lanciando a Joshua un’occhiata come a dire oh, ma quant’è carino. E in effetti lo è, carino, con le scarpe Baby Gap e l’impermeabile da orsetto Paddington. La donna fa per attraversare la strada, solleva una mano altera per fermare un camion in arrivo. Tracey avverte una fitta d’invidia, vorrebbe averla lei quella sicurezza che permette di fermare il traffico. Il camion frena di colpo per farla attraversare, ma la donna non ha considerato la moto che c’era dietro. Si sente una sgassata mentre la moto accelera per sorpassare il camion. Succede, come sempre succedono gli incidenti, al rallentatore. La moto frena bruscamente, cerca di scansare la donna, sbanda, poi si rovescia e scivola in avanti, travolgendola. Per un secondo gli occhi della donna fissano quelli di Tracey – Non può succedere davvero – e poi vuump.

Tracey afferra la mano di Joshua e lo trascina indietro. «Non guardare», urla. «Non guardare.»

Cerca di non farlo nemmeno lei, ma non si trattiene dal fissare la massa informe nel punto in cui dovrebbe esserci la testa della donna e... e... c’è qualcosa sparpagliato in terra. Spinge in fretta Joshua verso lo Starbucks e s’inginocchia davanti a lui, i jeans che s’inzuppano sul marciapiede bagnato. La vetrina del caffè si affolla di curiosi; molti si stanno precipitando fuori e osservano la scena attraverso gli schermi dei cellulari, filmando il macello.

Spazzola via la pioggia dall’impermeabile di Joshua. La faccia del bambino rimane inespressiva. «Joshua, stai bene?»

Lui annuisce. Gli prende la mano guantata tra le sue, annaspa alla ricerca di qualcosa da dirgli e finisce per balbettare: «Quella donna che è caduta sta solo dormendo. Adesso viene a prenderla l’ambulanza e poi starà bene, vedrai».

Lui la squadra con un tale disprezzo che gli lascia andare di scatto la mano, e si sorprende a pulirsi le sue sui jeans. Solo un bambino, è solo un bambino.

«Non sta dormendo. È morta», le dice.

«Non possiamo essere sicuri, Joshua.»

«Sì che lo siamo. Ma non temere», le dice con un sorriso pigro. «Sappi questo: la morte non esiste.» E poi ride.