L’ANGELO DELLA MISERICORDIA

Quando tornò faticosamente in infermeria Martha lo stava aspettando. Aveva i capelli raccolti in una crocchia sommaria e si stava tormentando una pellicina secca sul labbro inferiore.

«Che altro c’è?» Non ce l’avrebbe fatta ad affrontare altro. Oltre ai casi di noro, c’erano stati due colpi di calore abbastanza gravi, e la sospetta frattura di un alluce. Aveva bisogno di un’iniezione di caffeina. Aveva bisogno di una doccia. Aveva bisogno di dormire per più di due ore di fila.

«Ah, Jesse. Abbiamo un problemino. È il nuovo paziente, il tizio arrivato ieri.»

«Che ha fatto?»

«Se n’è andato, Jesse.»

Faticava a capire cosa gli stesse dicendo. «L’hai dimesso?»

«No, sono tornata dopo essere andata a prendermi qualcosa da mangiare. Non sono stata via molto. E lui non era più nel suo letto.»

«Ma se l’avevo imbottito di sedativi!» Jesse aveva deciso di aumentargli il midazolam la sera prima, dopo che l’uomo si era svegliato e aveva cominciato a comportarsi in maniera strana. A parte rinchiuderlo nella sua cabina, dove avrebbe rischiato di farsi del male, Jesse non sapeva come altro contenerlo. Cavolo, quella era una nave, mica un reparto psichiatrico.

«Lo so. Non me lo spiego.»

«Dov’è Bin?»

«L’ho mandato a dormire un paio d’ore. È rimasto di servizio tutta la notte, poveraccio. Lo sai com’è fatto, bisogna trascinarlo via dal lavoro a forza.» Si tormentò di nuovo il labbro. «E non è tutto, Jesse.»

Una stretta al cuore. «Va’ avanti.»

«Anche Alfonso se l’è filata.»

«Davvero? E dove diavolo è andato?»

«Non lo so. Ho controllato nella sua cabina e sono anche scesa nella sala generatori e in sala macchine, ma nessuno l’ha visto.»

«E così ci siamo persi due pazienti?»

«Pare di sì. Scusami, Jesse.»

«Non è colpa tua. Come cazzo si aspettano che riusciamo a stare dietro a tutto?» Non erano preparati. A rigor di termini, a bordo era prevista la presenza di due medici, però Martha diceva che sulle crociere più brevi tendevano a ignorare quella regola.

«Hai un aspetto orrendo, Jesse. Sicuro che non ti stia ammalando?»

Scosse la testa. Era stanco morto, ecco tutto. Certo, lo stomaco gli dava fastidio, ma era andato avanti a forza di Pringles e Coca light per gli ultimi tre giorni. E già doveva ringraziare il cielo che il virus non si fosse diffuso per tutta la nave. Tendeva a propagarsi velocemente e, considerate le condizioni in cui si trovavano, era un miracolo che non se lo fossero preso tutti. Aveva usato un sacchetto di plastica rossa, nascosto nella sua cabina, la sera precedente. Non volendolo lasciare a Paulo, l’aveva portato lui stesso nella stanza dell’inceneritore. Perché si sentiva così in imbarazzo per una cosa del genere, non ne aveva idea. Sei un medico, si ripeteva. «Sono preoccupato per la paziente più anziana, Elise Mayberry», disse Jesse. «Ha il polso irregolare. Risultano precedenti di disturbi cardiaci?»

«Non che io sappia.»

Avrebbe dovuto chiederlo alla sua amica, quella che aveva crudelmente sopranominato Zia Stecco, ma il paziente che aveva visitato subito prima di lei, un tizio di mezza età su quello stesso ponte, era stato sgradevole e aggressivo, e l’aveva irritato più di quanto volesse ammettere.

«Vuoi farla portare qui?» chiese Martha.

«Può darsi. Ci sono altri tre casi, solo su quel ponte. Quanto personale hanno a disposizione?»

«Sette in tutto. Forse di più. Il problema è che la maggior parte dei passeggeri non vuole rimanere in cabina.»

«Se non lo fanno si propagherà come un incendio nella boscaglia.»

Furono interrotti da un messaggio di Damien, che informava di un nuovo spettacolo (o qualunque cosa facesse) di Celine del Ray presso il Dare to Dream Theatre.

Follia. Incoraggiare la gente a raccogliersi in massa mentre il norovirus imperversava sulla nave era incredibilmente stupido. Sospirò. «Ecco fatto. Dovrò insistere per l’allarme rosso. Hai sentito dire niente su quando possiamo aspettarci l’arrivo di quella cazzo di cavalleria?»

«No, Jesse. Ancora niente wifi. Stamattina hanno messo in mare una barca, ma non so altro.»

Lui non riusciva a capire come si potesse pensare che far uscire una barca in cerca di soccorsi fosse un buon segno. Non aveva senso. Come minimo la Foveros avrebbe dovuto mandare una delle navi sorelle della Beautiful Dreamer a cercarli. «Gesù», mormorò.

«Sì, ci farebbe comodo, ora come ora.»

«’Fanculo. Devo vedere il comandante. E non accetto rifiuti.»

«Cosa vuoi che faccia, io?»

«Meglio che resti qui. Torno subito.»

«Buona fortuna.»

Jesse si spruzzò la camicia con una dose abbondante di deodorante (doccia in lattina, il massimo che poteva concedersi al momento) e si mise in marcia. A un certo punto si perse – non stava pensando a dove andava – e dovette tornare sui propri passi, tagliando attraverso il bar del personale. Era pieno di gente, di odore di birra e voci irose. Un altro bel modo di diffondere l’infezione per tutta la nave. Bisognava chiudere quel bar. I banchi di distribuzione del cibo dovevano essere disinfettati da cima a fondo, chiunque mostrasse segni della malattia andava isolato. Jesse sapeva delle condizioni da incubo in cui lavoravano equipaggio e staff, sommersi dai turni straordinari, ma il fatto era che non esistevano alternative.

Ram era davanti alla porta che conduceva al ponte di comando, la maschera implacabile al suo posto, come sempre. «Posso aiutarla, dottore?»

«Devo vedere immediatamente il comandante.» Solo una lievissima incrinatura nella sua voce. Bene.

L’espressione di Ram rimase imperturbabile. «È in riunione.»

«Si tratta di un’emergenza.»

Ram lo fissò per diversi secondi, poi annuì impercettibilmente. «Aspetti qui.»

«Va bene, ma...»

Ram era già sparito, sbattendogli in faccia la pesante porta del ponte prima che ci si potesse infilare anche lui. Jesse si asciugò le mani sudate sui pantaloni.

Pochi minuti dopo la porta si riaprì rumorosamente, e Ram gli fece segno di entrare. Jesse era stato sul ponte solo un paio di volte da quando si era imbarcato. Un’area enorme delimitata da vetrate che andavano dal pavimento al soffitto. L’aria sembrava quasi più fresca, anche se lui era praticamente sicuro che fosse solo la sua immaginazione. Il comandante, un tizio basso e tarchiato con una zazzera di capelli bianchi, sulla soglia dei settanta, gli dava le spalle, davanti alla console di navigazione, e gesticolava rivolto a un gruppo di ufficiali in divisa bianca. Jesse riconobbe la testa calda – il direttore dell’hotel –, un greco altezzoso che sembrava incapace di sorridere, uno degli informatici (con uno spettacolare occhio nero e un taglio sulla guancia destra che mostrava segni d’infezione) e Damien. Piccolo e piantagrane, tutte le volte che entrava nel bar dell’equipaggio, Damien pareva aspettarsi un applauso generale. Per sua scelta Jesse non aveva avuto molto a che fare con lui, e Martha lo descriveva come «un perfetto idiota».

Gli altri ufficiali del ponte, tra cui Baci, il visitatore di Alfonso che lo salutò con un cenno del capo, erano discretamente raccolti vicino alla vetrata. Per un secondo Jesse si godette la vista. Nient’altro che oceano infinito. Nessuna nave. Nessuna piattaforma di trivellazione. Nemmeno la più lieve scia di un aereo nel cielo.

Alla fine il comandante sembrò accorgersi di lui. «Come sta Alfonso, dottore? Può riprendere il lavoro?»

Colto in contropiede, Jesse sbatté le palpebre. «Ha lasciato l’infermeria questa mattina.»

Il comandante gridò qualcosa in italiano a Baci, che fece segno di no. Quindi fissò Jesse con aria accusatoria. «Non è in sala di controllo.»

Jesse inspirò a fondo. Non poteva permettersi di farsi mettere alle strette. Non era per Alfonso che si trovava lì. «È dal primo giorno di questo casino che ho chiesto di vederla, comandante. Dev’essere consapevole della situazione. Ogni giorno ci sono nuovi casi di norovirus.»

«Quanti?» Quello era il piantagrane.

«Almeno una ventina, forse di più.»

Damien sibilò tra i denti.

Jesse lasciò passare un secondo prima di riprendere a parlare: «Devo chiederle di mettere la nave in allarme rosso».

«No. Questo non è possibile», disse il comandante.

«Signore, con tutto il rispetto, se non lo fa ci troveremo a fronteggiare un’epi...»

«Il personale è al limite delle sue capacità», intervenne il piantagrane. «Non possiamo assegnare loro ulteriori incarichi.»

«Allora volete che l’intera nave venga infettata? Che effetto farà, questo, quando rientreremo in porto?»

«Non alzi la voce col comandante», lo interruppe Damien.

Jesse sapeva che Ram lo teneva d’occhio con molta attenzione. Cazzo. Non si era aspettato una reazione del genere. «Non sto alzando la voce, sto dicendo che dobbiamo...»

Il piantagrane lo interruppe di nuovo: «Il morale è bassissimo, se assegnate altri incarichi ai miei ragazzi e li confinate nelle loro cabine, finirà...»

Era il turno di Jesse d’interrompere: «Si può sapere per quanto vi aspettate che continui questa situazione?»

Il comandante arricciò il naso. «Non per molto.»

«Un giorno? Due? Una settimana? Quanto? Qualcuno sa almeno che siamo bloccati qui?»

«La situazione è sotto controllo, dottore.»

Stronzate. La Coca con cui Jesse era sopravvissuto gli si stava trasformando in acido nello stomaco. «Ci siamo persi? È questo?»

Lo sguardo del comandante s’indurì. «Non ci siamo persi.»

«E allora perché non è ancora venuto nessuno a cercarci?»
Doveva esserci un modo per localizzare la nave, anche se non funzionavano macchine e comunicazioni. D’accordo, la Beautiful Dreamer non era certo l’ultimo gioiello dell’ingegneria navale, ma doveva almeno disporre di transponder e radiofaro.

«C’è brutto tempo in porto. Arriveranno presto.»

«Allora siete in contatto col soccorso a terra?»

«Non ci vorrà molto prima che arrivino gli aiuti.»

Cristo. Jesse deglutì a vuoto. Non riusciva a stabilire se il comandante lo stesse prendendo in giro o cosa. «Senta, sto solo chiedendo d’informare i passeggeri a proposito del virus, di dare istruzioni di eliminare i rifiuti organici in maniera igienica e di controllare e monitorare la preparazione dei cibi. E chiunque mostri i primi sintomi della malattia dovrebbe essere confinato nella propria cabina. È essenziale.»

«E dove suggerisce di metterli, dottore?» ribatté il piantagrane. «Le cabine più in basso sono inabitabili.»

L’informatico sbuffò. «Già, e quelli dell’equipaggio vedono fantasmi in giro per tutta la nave.»

Ram gli lanciò un’occhiata di avvertimento.

«Molti membri dell’equipaggio sono superstiziosi. C’era da aspettarselo. Anche se non c’è nessun fondamento per questi... strani fenomeni», disse il comandante.

Tipo ragazze morte che battono sulle paratie dall’interno dell’obitorio? O vittime di ictus che leggono nel pensiero?

«Potremmo almeno chiedere ai passeggeri di non raccogliersi in gruppi numerosi?» Jesse si rivolse a Damien. «L’evento nel teatro bisognerebbe cancellarlo subito.»

Il direttore di crociera scosse la testa. «No, no, no. Serve a tenere occupata la gente. Non si può mandare tutto all’aria.»

«Quando si ritroveranno a vomitare anche l’anima saranno fin troppo occupati.»

Damien scosse di nuovo la testa. Una capra. Una capretta nana. Ja. Ecco cosa gli ricordava. Zoccoli e occhietti maligni e sporgenti.

«Assolutamente fuori questione. Non possiamo cancellare nessuno degli spettacoli di Celine del Ray. Né gli altri eventi. I passeggeri dipendono da quelli.»

Il comandante alzò la mano. «Adesso basta, dottore. Naturalmente prendiamo atto delle sue preoccupazioni. Diremo allo staff di cucina di fare molta attenzione. Aumenteremo i livelli di cloro nei... liquidi per le pulizie. Distribuiremo disinfettanti per le mani.»

La faccia di Jesse avvampava sempre più. Un rivolo di sudore gli stava colando dietro l’orecchio. «Comandante, devo insistere...»

«È tutto quello che possiamo fare per il momento. Grazie per il tempo che ci ha dedicato.»

Il comandante si voltò, e Jesse si ritrovò a fissarne la schiena. Ram fece un passo verso di lui e allora, non sapendo che altro fare, lasciò il ponte di comando, sbattendosi la porta alle spalle.

Era appena entrato nell’I-95, quando si sentì un bip e la voce di Damien colò dagli altoparlanti.

«Salve, gente. È Damien, il vostro direttore di crociera, che vi parla. Solo per rassicurarvi che stiamo continuando a fare ogni sforzo per mantenervi quanto più confortevoli e al sicuro possibile nell’attuale situazione, e vi siamo davvero grati per la vostra pazienza. Desideriamo solo ricordarvi di utilizzare ogni volta che potete il disinfettante per le mani che troverete all’ingresso di tutte le aree comuni. E non scordate che Celine del Ray vi aspetta al Dare to Dream Theatre fra cinque minuti. Solo cinque minuti, gente.»

Stronzo. Era come se quel deficiente volesse proprio far ammalare le persone.

Come se non bastasse già il casino che c’era. Se non intendono fare niente, allora lo farò io, pensò Jesse. Perlomeno poteva azzardare un tentativo con Celine del Ray o con chiunque avesse organizzato l’evento, per vedere di far entrare nella loro zucca un po’ di buon senso. Né il comandante né Damien la Capra potevano impedirglielo.

Senza fermarsi ad aggiornare Martha sull’esito del suo incontro col comandante, Jesse sfrecciò lungo l’I-95 e su per le scale verso l’atrio, accelerando il passo ogni volta che un passeggero appariva all’orizzonte e stampandosi in faccia la sua espressione da emergenza medica. Gli accessi al teatro al piano inferiore erano bloccati, così salì ancora di un livello. Era aperta un’unica porta laterale, con diversi anziani che ciondolavano lì davanti. Due donne e un uomo, abbigliato con uno splendido completo di tweed e cravatta viola, lo salutarono calorosamente.

«Buongiorno, dottore», gli sorrise l’elegantone. «Viene per lo spettacolo?»

«No.» Jesse spiegò le proprie preoccupazioni sulla diffusione del virus nel teatro.

E l’uomo rispose: «Oh, non deve preoccuparsi per noi, dottore. Nessuno del gruppo di Celine è malato. Stiamo molto attenti. I bagni che utilizziamo vengono puliti con la candeggina due volte al giorno, e tutti noi usiamo i disinfettanti per le mani».

«Sappiamo cosa bisogna fare», intervenne un’ispanica sulla cinquantina. «Ho già partecipato a una crociera durante la quale è scoppiata un’epidemia, dottore. Abbiamo persino dei cesti della spazzatura apposta per i sacchetti rossi.»

Aveva avuto diversi pazienti dello stesso stampo. Quelli che sapevano tutto. Convinti di conoscere il suo lavoro meglio di lui.

«È tutto magnifico, ma avrei proprio bisogno di parlare con Mrs del Ray.»

«In questo momento sta comunicando con lo spirito.»

«Entro solo a dare un’occhiata, posso?» Jesse sorrise e le sgusciò davanti.

Ci mise un attimo per abituare gli occhi alle profondità buie del teatro. L’atmosfera era così cupa e pesante che pareva di entrare in una cattedrale. Lentamente si fece strada lungo il corridoio centrale. La sala era quasi piena, passeggeri e membri del personale riempivano sedie e tavoli, bisbigliando tra loro, mentre fissavano il palcoscenico, in attesa. Chissà con quanta velocità poteva incubarsi il virus, là dentro. Qualcosa di familiare colpì il suo sguardo e Jesse si fermò. Alfonso era stravaccato su una sedia verso la metà della fila. La donna anziana accanto a lui lo teneva per un polso e gli sussurrava all’orecchio, ma lui guardava dritto davanti a sé senza rispondere. Jesse pensò di avvicinarsi, ma non era per quello che era venuto. Avrebbe fatto sapere a Baci dove poteva trovare la sua figura paterna appena avesse parlato con quella del Ray. Alfonso non era prigioniero: non poteva mica costringerlo a tornare al lavoro per aggiustare quella maledetta nave, no? Diverse persone sedute all’esterno delle file lo accolsero con sorrisi di benvenuto e Paulo, il suo steward, seduto accanto a una cassa di bottiglie di acqua e una scatola di banane, lo salutò agitando la mano.

Santo cielo. Erano anche ben forniti.

Si sentì lo scatto di un interruttore e poi le luci si accesero sul palco. Avvicinandosi, Jesse vide quella che sembrava una complicata composizione di batterie da auto, provenienti forse dai carrelli elevatori della stiva bagagli, collegate a un proiettore alogeno autonomo. Geniale.

Senza fanfare, Celine del Ray avanzò al centro del palco sulla sua sedia a rotelle. Si schiarì la gola, sorrise al pubblico e disse: «Solo un po’ di convenevoli. Vorrei dare il benvenuto a tutti i nostri nuovi Amici, soprattutto quelli che hanno lavorato duramente per mantenere confortevole e pulito questo nostro spazio. Aiutiamoli facendo ognuno la propria parte». Jesse era ammirato per come riusciva a far arrivare la sua voce ovunque anche senza microfono. «E adesso a noi. Anche se siamo tutti alle prese con questa situazione stressante voglio chiedervi, vecchi e nuovi Amici, vi ho mai delusi?»

All’unisono il pubblico mormorò un lungo e prolungato «Nooooo».

Timidamente, Jesse si avvicinò a un lato del palcoscenico.

«Vi ho mai mentito?»

«No.»

«No, non l’ho fatto. Qualcuno di voi sostiene di aver visto strane cose sulla nave, e siete spaventati. Non è il caso di avere paura. Sappiate che quello che state sperimentando è solo lo spirito che vi porta verso di me, affinché io possa farvi incontrare per superare tutto questo insieme. Alcuni di voi vogliono sapere da dove viene il mio dono e perché sono in grado di entrare in contatto con lo spirito. Sappiate questo: non faccio niente di male. Sono in armonia con Dio proprio come lo siete voi, qualunque sia il concetto che avete di Lui, o di Lei. Siete di religioni e fedi diverse, e invito ciascuno di voi a fare affidamento sulla propria. Scrutate nel vostro cuore, chiedete sostegno alle vostre guide e ai vostri cari che se ne sono andati.»

Celine si fermò a prendere fiato, inclinò la testa di lato e Jesse ebbe la spiacevole sensazione, da pelle d’oca, che guardasse dritto verso di lui. «Aspettate... devo interrompermi perché si sta facendo avanti Archie e mi dice che c’è un messaggio per qualcuno che si trova qui. Sento... sì, è una ragazzina che si sta facendo avanti. Piange.» Celine si toccò la gola. «Oooh. ’Mi fa male la pancia’, dice. ’Tanto male.’ Sento... Porta una specie di divisa. Una divisa scolastica. Azzurra. A qualcuno di voi ricorda qualcosa?»

Adesso era assolutamente certo che guardasse verso di lui.

«Dice... Sta dicendo com’è morta, si poteva evitare. Dice che non è stato un incidente.»

Il brivido che gli serpeggiava sulla pelle diventava sempre più forte. E per un secondo, solo un secondo, gli apparve nella mente un’immagine del viso della ragazzina. Era venuta da lui direttamente dalla scuola. Aveva giurato di essere ancora vergine, ma lui come avrebbe potuto sapere che mentiva? Avrebbe dovuto chiedere alla madre di restare con lui nella sala visite, o farci rimanere l’infermiera. Non pensava con chiarezza, in quel periodo era in piena dipendenza da petidina.

Jesse risalì in fretta il corridoio, andando quasi a sbattere contro un tizio robusto che adesso presidiava la porta a braccia conserte.

«Ehi, sta’ attento!»

Rosso in faccia, Jesse tornò verso le scale senza neppure vedere ciò che aveva attorno, scrollandosi di dosso i passeggeri che cercavano di avvicinarlo. Raggiunto l’atrio, si aggrappò al corrimano e respirò profondamente dal naso.

Datti una calmata, cazzo. Ma c’era solo una cosa che poteva calmarlo, no?

No.

Gli stava solo piombando addosso tutto il peso di quella giornata di merda, nient’altro. Celine poteva aver trovato quella storia su internet. Peccato che non ci fosse accesso a internet. Forse aveva googlato il suo nome ancora prima di salire a bordo, fatto ricerche su quanti più passeggeri e membri dell’equipaggio poteva. Scavato nel loro passato.

Poco probabile, ma doveva pure aggrapparsi a qualcosa. Più plausibile che si fosse limitata a pescare qualche informazione qua e là per poi tentare colpi a casaccio, finché non centrava qualche bersaglio. Ja. Doveva essere andata così. Qualsiasi medico aveva qualcosa di poco chiaro nel proprio passato: una diagnosi sbagliata, un paziente deceduto inaspettatamente. E quanto era stata precisa, in fin dei conti? Mica poi tanto. Una divisa scolastica, capirai.

Era tutto lì.

O forse era lui che stava cercando una scusa per arrendersi e rifugiarsi tra le braccia del Demerol. No. Si era semplicemente spaventato e aveva abboccato al trucco di una vecchia imbrogliona.

Quando tornò in infermeria Martha era uscita, però sulla scrivania della sala d’attesa c’erano una lattina di Coca e un panino, e un biglietto: Un altro.

Fantastico.

Aprì la lattina e allungò i piedi sulla scrivania. Doveva proprio tornare in quel teatro e tirare fuori Alfonso. L’intera scena gli aveva fatto pensare all’attività di una setta. Come minimo era il caso di avvisare Baci. Se Alfonso stava così bene da lasciare l’infermeria e farsi strada fino alle grinfie di quella vecchiaccia spaventosa e dei suoi accoliti, allora era abbastanza in forze da riportare il culo nella sala generatori e aggiustare quella nave del cazzo. E tirarli fuori da quella situazione.

«Dottore?»

Jesse si voltò e vide Bin sulla soglia. Aveva la faccia tirata, lo sguardo vacuo. Cristo, Jesse sperava che non si stesse prendendo il noro anche lui.

«Abbiamo un problema, dottore.»

Quante volte l’aveva già sentito, quel giorno? «E adesso che c’è?»

«La ragazza in obitorio. Hanno...»

Oh, cazzo. «Non di nuovo. Era solo il metallo che si dilatava per il caldo.»

«Dottore... Jesse, vogliono buttare il cadavere in mare.»