L’ANGELO DELLA MISERICORDIA
La porta del magazzino si aprì, lasciando filtrare dal corridoio la fioca luce verdognola dell’uscita di sicurezza.
Oh-oh, pensò Jesse. Sono arrivati gli extraterrestri.
La sagoma di un uomo si stagliava sulla soglia: Jesse lo vide entrare trascinando i piedi e guardarsi attorno. Aveva qualcosa di familiare. Jesse non avrebbe potuto giurarlo, ma, a giudicare dalla corporatura, somigliava molto al suo paziente scomparso. Quello disperso. Quello che secondo Devi poteva essere responsabile della morte della ragazza.
Jesse non parlò e l’uomo non sembrò accorgersi della sua presenza. Era proprio da ridere, che qualcuno andasse a invadere il suo nascondiglio. Il motivo che l’aveva spinto lì era poter riflettere con calma e avere un po’ di tempo per sé dopo che si erano spente le luci di emergenza. E la sua idea di «riflettere con calma» era spararsi in vena una bella dose di Demerol, per non parlare della morfina come ammazzacaffè. Jesse si era fatto una cuccia accanto a un mucchio di scatoloni vuoti che avevano contenuto lattine di pelati. Il suo piano era restarci finché la tempesta non fosse passata, o fino all’affondamento della nave. E per sua fortuna la petidina sembrava riuscire a tenere a bada il mal di mare, dopotutto.
L’uomo disse qualche parola a qualcuno e afferrò il chiavistello dell’obitorio.
«È pieno», venne da dire a Jesse. «Già occupato.» Era stato insolente, cercando di fare lo spiritoso, ma, in effetti, che altro avrebbe potuto dire? Il tizio sembrava sapere quello che faceva. E Jesse ricordava bene come si era comportato dopo aver aggredito la steward. Pazzo. Befok. Meglio lasciarlo stare. Jesse non era in condizioni di potersi difendere, se l’altro lo avesse attaccato.
Il paziente continuò la sua conversazione immaginaria, aprì il chiavistello dell’obitorio – Jesse trasalì alla zaffata di putrefazione che ne uscì – e poi, senza neanche un attimo di esitazione, s’infilò dentro, montando sopra la passeggera deceduta. Allungò un braccio cercando di richiudere la porta, ma non ci arrivava.
La nave beccheggiò abbassandosi vistosamente, rimase immobile per un attimo e poi s’impennò, lasciando lo stomaco di Jesse da qualche parte sul pavimento del magazzino. Il movimento brusco sganciò la porta dal fermo magnetico e la fece chiudere di schianto.
Jesse sbatté le palpebre. Cazzo. E adesso? Era stato il passeggero a infilarsi volontariamente là dentro. Il posto migliore, in effetti. Era pericoloso, meglio non averlo in circolazione per la nave. Erano già abbastanza nella merda anche senza di lui.
Annaspò alla ricerca di un’altra fialetta, ma le aveva finite. Che gli fossero cadute mentre attraversava le viscere buie della nave? Doveva essere andata così: se le avesse usate tutte ormai sarebbe già morto.
La nave si drizzò di nuovo, poi sembrò ripensarci e ricadde di lato.
Era ora di tornare in infermeria. Meglio un pugno in faccia, piuttosto che rischiare di annegare in quel magazzino accanto a un pazzo furioso. Si frugò in tasca alla ricerca della sua penna luminosa e, a quattro zampe, gattonò fino alla porta. Gli ci vollero diversi tentativi per aprirla. Nell’attimo in cui si tirò in piedi, la nave lo scaraventò contro la parete, ma poco male, tanto non sentì assolutamente nulla. Illuminandosi la strada con la minuscola torcia, risalì le scale fino all’I-95.
Cammina, forza, ce la puoi fare. E poi all’improvviso (la testa doveva avergli fatto qualche brutto scherzo) si ritrovò davanti alla porta dell’infermeria. Coraggio, entra, è facile, vai all’armadietto dei medicinali. Luce negli occhi. Sbatté le palpebre. Una torcia. Non era solo.
Una mano gli afferrò il braccio. «Oh, grazie al cielo. Jesse, Jesse, dobbiamo andare.»
Martha. Con un giubbotto di salvataggio addosso.
Le puntò la minuscola torcia in faccia. Vide che stava piangendo, la faccia chiazzata di rosso.
«Si può sapere cos’hai combinato?»
«Ho ucciso una ragazza, Martha.» E quella da dove gli usciva? Gli era venuta fuori da sola.
«Jesse, dobbiamo andarcene subito. Ho preso tempo finora, ma non ci aspetteranno ancora per molto.»
«Dove andiamo?» Cadde contro di lei quando la nave beccheggiò di nuovo.
«Abbandoniamo la nave.» L’infermiera rischiò di lasciar cadere la torcia e imprecò sottovoce. «Non ce la faccio a reggerti, Jesse.»
«E Bin?»
«Bin sta male.»
«Non possiamo abbandonarlo.»
«Non abbiamo scelta.» Adesso lo stava trascinando via. «Credi che io voglia farlo? Non lo faranno salire, se è malato.»
«Sono malato anch’io.»
«Tu sei solo fatto.» Singhiozzava, adesso. «Ti prego, Jesse, vieni.»
«Vado a prendere Bin. Poi ti raggiungo.» Era contento di non poterla vedere in faccia.
«No, Jesse.»
«Davvero... vado a prenderlo. Li convincerò a farlo salire.»
«Sei sicuro?»
«Sono sicuro.»
Gli mollò il braccio, la luce danzò verso la porta, si fermò, e poi di colpo era sparita.
Adesso a noi. Tornò all’armadietto dei medicinali, un altro rollio lo colse di sorpresa. Il tempo rallentò, gli mancarono le gambe di sotto e finì a terra battendo l’osso sacro. Un colpo sordo, nessun dolore.
Jesse sentì dei vetri che andavano in frantumi e qualcosa che scivolava sul pavimento. La porta sbatté. Cercò la penna luminosa, a tentoni. C’era qualcuno in piedi davanti all’armadietto. Puntò la luce in alto. L’uomo si portò un dito alle labbra.
Jesse si rese conto che sapeva chi era.
L’uomo nero. L’uomo nero di Alfonso era venuto a trovarlo. E Jesse si mise a ridere.