LE SORELLE SUICIDE

Helen doveva ammettere che c’era qualche vantaggio nell’essere una delle poche ultrasessantenni a bordo: a lei ed Elise erano state offerte due sedie a sdraio, mentre tutti gli altri passeggeri del punto di raccolta dovevano accontentarsi del pavimento. Era abbastanza comoda, ma sarebbe stata meglio senza tutto quel baccano. A poca distanza da dov’erano sedute loro due, un gruppetto di uomini e donne flirtava animatamente, e ciascuno di loro faceva di tutto per essere al centro dell’attenzione. Il più rumoroso del branco, un tizio sulla trentina con la corporatura di un rugbista e un paio di ali d’angelo appiccicate alla schiena pelosa, si lagnava per la sospensione del servizio bar. «Non è per quello che ci s’imbarca per una cazzo di crociera?» continuava a borbottare. «Per bere e farsi quattro risate. E, se la nave sta per diventare una specie di Titanic, allora voglio essere ubriaco fradicio.» Vicino a lui due americani, che somigliavano a due grossi rospi indispettiti, ripetevano rumorosamente a chiunque volesse ascoltarli che non avrebbero mai più navigato con la Foveros. Helen li aveva visti una volta o due in sala da pranzo, che ordinavano qualsiasi piatto ci fosse sul menu, e mai una volta che avessero ringraziato il loro cameriere.

Poi c’era Jaco, la «one man band» di marimba/rock/reggae (e qualsiasi altro genere a richiesta) della nave, occupato a improvvisare una versione acustica stonata di By the Rivers of Babylon. Era arrivato da una ventina di minuti, presumibilmente mandato da Damien per distrarre i passeggeri da eventuali propositi di ammutinamento mentre aspettavano di essere congedati dal punto di raccolta. Non sembrava neppure accorgersi che nessuno lo degnava di attenzione. In effetti, essere universalmente ignorato sembrava far parte del suo lavoro, a quanto poteva giudicare Helen. Lo aveva visto in giro per tutta la nave, a presentare la serata tributo a Michael Jackson o appostato sullo sfondo durante le esibizioni di karaoke. Helen incrociò lo sguardo di Elise, e tutt’e due gli indirizzarono un piccolo applauso. Come per punirle di quella generosità, lui si lanciò in una goffa interpretazione di Jailhouse Rock.

«Peccato che i musicisti non debbano più affondare con la propria nave», disse Helen, asciutta, ed Elise scoppiò a ridere.

I membri dell’equipaggio assegnati al loro punto di raccolta – un’australiana paffuta dallo sguardo cattivo e un filippino con gli zigomi da fotomodello – avevano smesso da tempo di chiedere ai passeggeri di non filmare quello che succedeva coi loro cellulari, e si erano messi a chiacchierare tra loro, offrendo di tanto in tanto qualche blanda rassicurazione ai passeggeri che li tormentavano per avere notizie. Senza dubbio tutti coloro che agitavano gli iPhone speravano di rivendere i filmati a qualche network televisivo se davvero la nave avesse fatto la fine del Titanic. Il che era improbabile. Se la Beautiful Dreamer doveva affondare, Helen supponeva che a quel punto l’avrebbe già fatto. Lei ed Elise erano in sala da pranzo a scegliere quali primi ordinare quando la nave si era fermata di colpo e le luci si erano spente. C’erano stati alcuni secondi di silenzio sospeso, un unico strillo acuto e poi, in un clangore di posate lasciate cadere e di voci agitate, i loro compagni di pranzo si erano precipitati, come un sol uomo, verso le uscite. Lei ed Elise erano rimaste tranquillamente sedute a terminare i loro costosissimi cocktail a base di champagne, mentre gli altri passeggeri sfilavano lì accanto spintonando senza scrupoli gli altrettanto frastornati camerieri. Ben pochi ascoltavano gli inviti del direttore di crociera a tornare nelle loro cabine; per la maggior parte erano corsi dritti e filati sul ponte Lido, dove si trovavano le scialuppe di salvataggio. Però adesso, un paio d’ore dopo aver ricevuto istruzioni di raggiungere i punti di raccolta designati, il panico iniziale si era trasformato in noia e irritazione.

«Che ora è?» chiese Elise.

«Le undici e dieci.»

«Così tardi, eh?»

Sospirarono insieme.

«Non possiamo farlo adesso che la nave si è fermata», disse Helen sottolineando l’ovvio. «Ci ripescherebbero subito.»

«Credi che se ne darebbero la pena?»

«Se qualcuno ci vedesse, è probabile.» Avevano stabilito dove farlo fin dal primo giorno di crociera: il ponte Tranquillity, a poppa. La festa principale si sarebbe tenuta sul ponte Lido, e ritenevano entrambe che nessuno avrebbe notato due vecchie signore che scavalcavano la ringhiera a mezzanotte. Ora, però, pareva che non ci sarebbe stata nessuna festa.

«Ci sono sempre i sonniferi», disse Elise.

«Troppo rischioso.» Ma non era solo quello. Helen desiderava ardentemente farlo come avevano stabilito. Una tomba d’acqua. Aveva fatto le sue ricerche e sapeva che l’annegamento non era indolore – tutt’altro – ma i sonniferi sarebbero stati di aiuto e, se non altro, nessuno avrebbe dovuto convivere col ricordo di aver trovato i loro cadaveri. Se lo avessero fatto nel modo giusto, sarebbero semplicemente scomparse senza lasciare traccia.

«Be’, non è finita finché non è finita», disse Elise.

Helen chiuse gli occhi e cercò di annullare il rumore di fondo. Adesso che il loro piano era andato all’aria doveva fare il punto della situazione. Aveva immaginato che, col trascorrere delle ore, l’enormità di quello che stavano per compiere si sarebbe imposto in tutta la sua evidenza. Non era successo. Si rendeva perfettamente conto che il suo desiderio di porre fine alla propria esistenza era psicologicamente anormale, e avvertiva ancora una traccia di quell’ebbrezza – non proprio felicità, ma ci andava vicino – che l’aveva infettata da quando aveva preso la decisione, cinque mesi prima.

Era stata un’idea di Elise quella di farlo in crociera. Helen non ne aveva mai fatta una, ed era rimasta affascinata dalla prospettiva di trascorrere i suoi ultimi giorni su una nave di lusso, tra lenzuola di cotone egiziano e pasti a cinque stelle. Sarebbe stata la sua versione di Blanche DuBois, che sognava di morire per aver mangiato uva avvelenata con un bel medico di bordo a tenerle la mano. Ma non doveva andare così. Elise aveva prenotato per loro una crociera Foveros – le restavano bei ricordi dopo aver navigato con loro negli anni ’80 – ed era strano che a un’esperta di internet come Elise fossero passate inosservate le numerose recensioni con una sola stella della Beautiful Dreamer su CandidCruiser.com. Helen era rimasta inorridita leggendone alcune: un passeggero aveva scoperto che dal rubinetto del bagno filtrava urina. Però aveva pensato: Che importa. Non poteva essere poi così terribile.

Pessimo sì, ma in effetti non terribile. A essere sincera, i primi tre giorni della crociera erano stati meno odiosi di quanto si fosse aspettata, a parte alcune ore spiacevoli quando, il secondo giorno, avevano fatto tappa sull’isola privata Foveros. «Non è bellissima?» aveva sospirato una coppia seduta di fronte a loro mentre i rimorchiatori li trainavano in porto, mentre Helen aveva visto solo un gran casino sgargiante e pacchiano, un’isola forse un tempo bella ma ora infestata di negozietti che smerciavano cianfrusaglie dozzinali. Altre due navi da crociera Foveros erano ormeggiate accanto alla Beautiful Dreamer, e Helen era rimasta sbigottita di fronte alla quantità di gente vomitata dalle loro viscere direttamente nel duty-free. Lei ed Elise avevano trovato un posticino all’ombra vicino al bar sulla spiaggia a tema piratesco e, pur cercando di prenderla con filosofia, si era annoiata per tutto il giorno. Tornata a bordo, era più consapevole che mai di tutta quella gente attorno a lei che si rimpinzava di schifezze, ingollava cocktail iridescenti e lasciava i tavoli ingombri di pasti consumati a metà che chi arrivava dopo di loro doveva ripulire.

Poi, sul palcoscenico allestito sul ponte Lido, aveva visto una donna che ballava da sola, canticchiando tra sé una canzonetta pop. Un amico le aveva portato un piatto di cibo, e lei aveva continuato a ballare infilandosi di tanto in tanto una patatina in bocca, senza perdere un passo. Helen aveva colto l’occhiata di Elise e insieme erano scoppiate a ridere. Ancora non sapeva bene come mai quella scena l’avesse strappata dalla sua crisi esistenziale o da qualunque cosa fosse, ma d’un tratto non era più stata così piena di disperazione. Era una contraddizione, stava per morire – per sua decisione – però non voleva morire così. Non voleva essere l’ennesima vecchia signora che s’imbarcava in una crociera a metà prezzo solo per uccidersi.

Sì, in effetti era stato l’unico momento in cui si era sentita davvero giù. La gita del giorno prima a Cozumel se l’era goduta dall’inizio alla fine. Avevano noleggiato un fuoristrada malconcio da un’agenzia locale decisamente male in arnese e si era messa lei al volante per un giro dell’isola, con una sosta su una striscia di spiaggia deserta per fare il bagno tra le onde. Dopo due Margarita a testa al Fat Tuesdays, avevano attraversato ridacchiando l’immancabile duty-free che costituiva l’unica via di ritorno alla nave, istigandosi a vicenda a scovare le curiosità più orripilanti. Dopo cena si erano divertite a posare per i fotografi nella galleria. Si poteva scegliere tra lo scatto accanto a una ballerina con un’acconciatura di frutta in testa, o davanti al pianoforte a coda. Solleticava entrambe l’idea che quelle ridicole foto sarebbero state l’ultima traccia della loro esistenza terrena, la prova che erano state allegre e felici sino alla fine.

A strapparla dai suoi pensieri fu il berciare dell’altoparlante: «Salve, gente, qui parla Damien, il vostro direttore di crociera. Desideriamo ringraziarvi per la vostra pazienza. Come avrete probabilmente immaginato, stiamo ancora lavorando per sistemare il problema tecnico, ma dovrebbe risolversi a breve. Il comandante ha deciso di far riprendere il servizio bar e ci prepariamo al conto alla rovescia...»

La voce di Damien fu coperta da un’acclamazione assordante, e tutti si dileguarono per precipitarsi verso il bar.

«Vuoi qualcosa da bere?» chiese Helen.

«No, grazie», sbadigliò Elise. «Ops, mi sta venendo sonno. L’ultima cosa che vorrei, stanotte.»

Helen ricontrollò l’orologio. Undici e mezzo. Era quasi certa che ci fosse ancora troppa gente in circolazione attorno al ponte Tranquillity per correre il rischio, e comunque non avrebbero potuto farlo finché non avessero preso i sonniferi e aspettato almeno una mezz’ora perché facessero effetto. Lo zopiclone era ancora in cabina, Elise si era dimenticata d’infilarsi in borsa la scatola delle pillole quando avevano ricevuto le istruzioni di raggiungere il punto di raccolta.

L’angelo con la schiena pelosa tornò a unirsi al suo gruppo con una decina di birre, tutto trionfante, tallonato da una donna con un impalpabile vestitino rosso che portava un vassoio di bicchierini colmi di un liquido scuro. Schiena Pelosa scolò subito due bicchierini, agguantò la donna in rosso e cominciò a sbavarle addosso. Lei ridacchiò e gli si premette contro. Lui appiccicò la bocca sulla sua e le fece risalire la mano sotto il vestito, rivelando una coscia bruciata dal sole e un tatuaggio sbiadito che somigliava a Taddeo di Bugs Bunny.

«Ti sarebbe mai passato per la testa di comportarti a quel modo in pubblico?» commentò Elise disgustata.

Gli amici di Schiena Pelosa adesso lo stavano incitando, e la vista della sua grossa lingua in movimento cominciava a dare la nausea a Helen. «Torniamo in cabina e decidiamo cosa fare.»

«Non ci hanno ancora detto che possiamo lasciare il punto di raccolta», disse Elise.

«Da quando in qua seguiamo le regole?»

Elise rise. «Giustissimo. Andiamo. Se non altro potremo berci qualcosa. E non m’importa di dirlo così, ma avrei anche bisogno di usare il bagno.»

Helen si alzò, sussultando per il dolore che le saettava lungo la gamba. Problemi di circolazione. Erano anni che ne soffriva (ma non per molto, si sperava). Tese la mano per aiutare l’altra.

«Grazie», sbuffò Elise. Il suo peso era l’unico problema sul quale tendevano a sorvolare, e la principale preoccupazione di Helen a proposito del loro piano era proprio la meccanica della messa in atto: non era sicura che, al momento stabilito, Elise sarebbe riuscita a scavalcare la ringhiera. «Guarda», le disse Elise. Una bruna snella stava fendendo la folla, diretta verso uno dei membri dell’equipaggio. «Non è quella donna che stava prima con la sensitiva? Con quella Celine qualcosa?»

«Celine del Ray.» Uno dei nomi più falsi che Helen avesse mai sentito. Avevano visto le foto di una Celine senza un capello fuori posto in giro per tutta la nave, a pubblicizzare i suoi eventi RISERVATI AGLI AMICI. E Celine era stata scortese, molto scortese, quando l’avevano incrociata nel corridoio mentre andavano in sala da pranzo.

Helen tentò di origliare, ma le parole della donna si perdevano tra le urla della gente sempre più ubriaca che le attorniava. Il marinaio filippino al quale si era rivolta staccò la radio dalla cintura e ci parlò. Aggrottò la fronte, batté sull’apparecchio, e poi scosse la testa con aria di scusa. Dopo uno scambio animato, la donna levò le braccia al cielo e passò in rassegna la folla, incrociando lo sguardo di Helen.

«Oh-oh», mormorò Helen a Elise. «Pare venga verso di noi.»

Infatti la donna si fece largo tra i capannelli di festaioli puntando su loro due. Le salutò con un sorrisetto teso. «Mi spiace disturbarvi, ma ci siamo più o meno incrociate prima. Siete sullo stesso ponte del mio capo.» C’era una traccia di accento regionale, forse delle Midlands, inquinato dalle strane vocali americane.

«Ah, sì», disse Elise. «La veggente.»

«In realtà è una medium.»

«C’è differenza?»

«Ma certo», s’intromise Helen. «I medium parlano coi morti, i veggenti vedono il futuro.»

La donna indirizzò un altro sorrisetto teso a Helen. «Infatti.» Sbuffò via qualche filo di capelli dalla fronte. Helen riusciva a distinguere ogni singolo muscolo del suo braccio: era decisamente troppo magra, quasi anoressica, e crepitava di energia nervosa. «Sentite... So che Celine è stata scortese con voi prima, e me ne scuso. A volte è fatta così. Solo che... adesso sta male.»

«Mi dispiace, mia cara», disse Elise.

«Mi stavo chiedendo... Insomma, devo andare a cercare un medico che venga a vederla. Hanno mandato un infermiere, ma si è fermato solo cinque minuti e io sono ancora preoccupata. Vi dispiacerebbe tenerle compagnia mentre vado a cercarlo?»

«Cos’ha che non va?» chiese Helen.

«Non saprei. Non è in lei, dice cose davvero strane. Ormai sono tre ore che aspetto. Se ha per caso avuto un ictus o roba del genere, non voglio lasciarla da sola.»

«Se vuole vado io a cercarle il dottore», disse Helen.

«Forse è meglio che ci vada io. Non ci metterò molto, lo prometto.»

Helen incrociò lo sguardo di Elise. «Non abbiamo altro da fare, no?»

«Non per il momento», rispose Elise.

L’espressione della donna si rilassò, le rughe di preoccupazione si spianarono. «Non sapete quanto lo apprezzi. A proposito, io sono Maddie.»

«Io sono Helen, e lei è Elise.»

Attraversarono il ponte seguendo Maddie, e poi giù per le scale fino al livello Verandah dove oltrepassarono le sudicie porte a vetri che davano accesso alle scale e agli ascensori. «Sei sicura di volerlo fare, Helen?» mormorò Elise, già senza fiato.

Helen la prese a braccetto. «Potremmo sempre chiedere a Celine cosa ci riserva il futuro.»

Elise ridacchiò e Maddie, che le precedeva, si voltò a guardarle.

«Non badi a noi, mia cara», disse Elise.

Maddie si affrettò lungo il corridoio VIP, aprì una cabina un paio di porte più avanti alla loro, e le fece entrare. Puzzava come una birreria ma, a parte quello, era la copia perfetta di quella di Helen ed Elise, fino alle tonalità sul turchese e agli acquerelli a tema angelico. Celine era sulla sua sedia a rotelle, la testa rovesciata all’indietro e la bocca semiaperta. Ma a Helen non sfuggì che gli occhi socchiusi seguivano i loro movimenti.

Maddie sfiorò la mano del suo capo. «Celine. Questa è Helen, e questa è Elise. Staranno qui con te mentre io vado a chiamare il dottore, d’accordo?»

Celine grugnì. A Helen, più che una sensitiva Celine sembrava una vecchia estetista. Una torre di capelli ossigenati, artigli rosso vivo e una pelle che parlava di decenni di lifting e peeling chimici.

«Sa dove andare?» chiese Elise a Maddie.

«Sì, ho lo schema dei ponti. Lo apprezzo davvero.» Con un’ultima occhiata di gratitudine, Maddie corse alla porta. «Farò più in fretta che posso.»

Elise sedette sul letto e mimò: E adesso?

Helen si avvicinò alla sedia a rotelle di Celine. «Buonasera, Celine, come si sente?»

Lo sguardo di Celine scivolò via, e la medium mosse la bocca come se masticasse una gomma o roba del genere.

«Credi che abbia avuto un ictus?» chiese Helen a Elise.

Elise si strinse nelle spalle e fece il gesto di versare qualcosa in un bicchiere e bere.

Helen prese il polso di Celine e controllò le pulsazioni, che sembravano forti e regolari. Da vicino si vedevano bene lo spesso strato di trucco sulle rughe di Celine, le pieghe di pelle sotto il mento, mani e collo che tradivano la vera età, come sempre. Le balzò alla mente il brano di una poesia che aveva sempre odiato: Oh, grassa donna bianca che nessuno ama...

Celine sollevò la testa, si leccò le labbra, e la fissò.

«Celine? Mi sente?» Helen era certa di aver colto un guizzo di qualcosa negli acquosi occhi azzurri della donna.

«Credi che possa usare il bagno, Helen?» chiese Elise.

«Ma certo», le sorrise Helen. Elise era una di quelle persone che annunciava sempre quando stava per andare in bagno. Lo trovava più tenero che fastidioso.

«Helen?» disse Elise esitando davanti alla porta del bagno. «Helen? Credo che ci sia qualcuno, qui dentro.»

«Non può essere.»

Elise bussò alla porta. «Ehi?» Poi premette l’orecchio contro il battente, e fece cenno a Helen di avvicinarsi. «Ascolta.»

Aveva ragione. Dall’interno proveniva un suono lieve. Una voce di donna che mugolava un motivetto jazz. Al Jolson, o qualcosa di simile. Helen avvertì una fitta di rimpianto che subito cercò di controllare: Graham avrebbe saputo riconoscerlo. Bussò alla porta. «Ehi? C’è qualcuno, lì dentro?» Il mugolio s’interruppe di colpo. «Potrebbe venire dalla cabina accanto.»

«Tu dici?»

«Che altro, sennò? Forza, prova la maniglia.»

«Fallo tu», disse Elise.

Helen esitò, poi aprì la porta. Ne uscì un profumo di lavanda, ma il bagno era vuoto.

Elise rabbrividì. «Accidenti. Mi ha fatto venire la pelle d’oca.»

Scomparve all’interno, mentre Helen tornò da Celine. Nella cabina si soffocava, perciò andò verso il balcone per aprire un po’ la portafinestra, trattenendo il fiato quando vide un movimento con la coda dell’occhio. C’era qualcuno dietro di lei, un uomo, vedeva il suo riflesso nel vetro. Alto, con le spalle larghe, il viso una macchia indistinta. Lentamente, col cuore in gola, si voltò.

La stanza era deserta.

Quasi urlò quando si sentì lo sciacquone in bagno. Elise riemerse, scuotendo le mani per asciugarle. «Helen? Tutto a posto?»

Helen si costrinse a sorridere. «Sto bene.»

«Io te lo dico, spero che Maddie faccia in fretta. Adesso preparo qualcosa da bere per tutt’e due.»

Mentre Elise versava due whisky abbondanti, Helen lanciò un’altra occhiata verso la portafinestra del balcone. Stress, ecco cos’era. La stanchezza le stava giocando brutti scherzi.

«Alla salute», le strizzò l’occhio Elise, porgendole un bicchiere. Helen non era una gran bevitrice di whisky, ma lo ingollò grata, il bruciore che le scendeva in gola servì a riportarla alla realtà. Si sedettero sul bordo del letto.

Il rumore dei festeggiamenti scendeva fino a loro dal ponte Lido, ed Elise fece tintinnare il bicchiere contro quello di Helen. «Buon anno, cara.»

«Buon anno.»

«Buon anno, Celine», disse Elise.

Celine sollevò lentamente la testa, poi scoccò loro un sorriso pieno d’intelligenza e di – sembrò a Helen – qualcosa di molto simile alla cattiveria. «Lo sarà», disse. «Vedrete.»