CAPITOLO 8
Shifty si passò una mano sulla faccia, deformandola. «Alec non me l’ha voluta vendere. Questioni di karma negativo, ha detto».
Aprii la busta. Era piena di banconote spiegazzate da dieci e da venti sterline. Dovevano essere almeno tremila, forse quattromila. Niente male. Sentii la spalla di Shifty ballonzolare, quando vi battei sopra una pacca. «È un sacco di contante. Sei…».
«Non fare l’idiota. È per la pistola. Alec non l’ha venduta a me, ma a te la venderà. È diventato maledettamente strano, da quando s’è convertito al Buddismo». Una mano grassoccia tornò nella tasca della giacca e ne uscì con un post-it giallo. Me lo appuntò sul petto. C’era il numero di un cellulare, in inchiostro rosso. «Ma dovrai farlo domani. Ora, me lo offri da bere o no?»
«Domani? Ma volevo…».
«Lo so. Ma non è facile trovare qualcuno che venda una pistola a un poliziotto. Alec è una spina nel fianco, ma perlomeno è discreto». Shifty alzò le spalle fino alle orecchie e le lasciò ricadere. «L’ammazziamo domani. Promesso».
Be’, dopo due anni, in fondo, che differenza avrebbe potuto fare una notte in più? Aveva altre ventiquattro ore da vivere, e allora? Sarebbe comunque morta.
Mi stava bene.
Accennai all’interno dell’appartamento. «Tè?»
«Stai scherzando? Tè? Ma non sei appena uscito?». Ammiccò. Poi infilò una mano in una delle buste ai suoi piedi e ne trasse due bottiglie. «Champagne!».
Mi seguì nell’appartamento, attendendomi in corridoio mentre io richiudevo tutte le serrature, prima di accompagnarlo in soggiorno.
Alice si era alzata, dritta e tesa come un fuso. Sorrise. «David, che bello rivederti. Andrew sta bene?»
«So che avevamo detto domani, ma non sono riuscito ad aspettare». Le torreggiò sopra, piegandosi a darle un bacio sulla guancia. Poi posò una delle bottiglie di champagne vicino al portatile e iniziò a togliere la carta d’alluminio dal tappo dell’altra. «Non hai qualche bicchiere decente, vero?»
«Ah, sì, certo. Vedo cosa riesco a tirare fuori, ci sarà pur qualcosa che si nasconde negli armadietti…». Indicò la cucina e poi uscì, sparendo oltre la porta del soggiorno.
Shifty tolse il filo di ferro dal tappo, continuando nel frattempo a camminare avanti e indietro. Sembrava non riuscisse a stare fermo. Le assi del pavimento cigolavano e si lamentavano sotto i suoi piedi.
Silenzio.
Fissò lo schermo del portatile, dove Laura Strachan era bloccata a metà di una rampa di scalini di pietra, con il tasto di pausa sopra i piedi. «Io… sono andato a trovare Michelle».
«Davvero?». Due anni e neanche una visita. Neppure una lettera.
«Mi ha aperto la porta ed era…». Agitò una mano davanti alla faccia. «Sai, no? I capelli tutti davanti al viso, spettinati. Pallida e magra, con le borse sotto agli occhi. Doveva aver bevuto».
Mi lasciai ricadere sulla sedia da campeggio. Poi incrociai le braccia sul petto. «E allora?»
«Ha messo in vendita la casa. C’era un grosso cartello in giardino. Ha deciso di trasferirsi a sud dalla sorella».
Ecco. Be’… era una donna adulta. E non era più mia moglie, giusto? Poteva fare quello che voleva. E non doveva chiedere il permesso a me. «Perché me ne parli?»
«Ho solo pensato che volessi… non lo so». Fissò la bottiglia che teneva tra le mani. «Andrew mi ha cacciato. A quanto pare, non è colpa sua, ma mia. Dice che sono diventato soffocante». Le dita grassocce si serrarono intorno al collo della bottiglia fino a far sbiancare le nocche. «Cazzo se vorrei soffocarlo…».
Alice ricomparve sulla porta, con tre bicchieri da vino. «Chi sta soffocando?»
«Il fidanzato di Shifty l’ha cacciato».
Shifty sporse appena il labbro inferiore, poi scosse la testa.
«Oh, David, mi dispiace tanto». Lei batté una mano su una delle sedie. «Vieni, siediti e raccontami tutto».
Oh, Dio, avrei dovuto aspettarmelo.
«Magari più tardi». Shifty girò il tappo della bottiglia tra le dita grassocce, lo tirò e… con un sonoro schioppo, lo fece saltare, portandosi dietro una pallida scia di gas. Riempì due bicchieri, poi pescò dalla busta di plastica una lattina di Irn-Bru.
D’accordo, era giusto così. La aprii e riempii il mio bicchiere con del succo frizzante di un arancione fluorescente.
Shifty sollevò il bicchiere. «Un brindisi: ad Ash, all’amicizia e alla libertà».
E alla vendetta…
Facemmo tintinnare i bicchieri.
Lui vuotò il suo in un sorso solo, per poi risucchiare aria tra i denti. Un piccolo brivido e si lasciò cadere sulla sedia, afflosciandosi. «Che stronzo. Due anni. Due anni del cazzo. Ed è solo per lui che ho fatto sapere a tutti d’essere gay».
«No… no, va tttt… tutto bene». Shifty sbatté una palpebra per volta, poi si accasciò lentamente, finendo in avanti carponi. Con il sedere in aria. E con addosso soltanto un paio di mutande Calvin Klein. Ondeggiò ancora un po’, poi in parte si abbassò e in parte crollò su un fianco. C’era solo un lenzuolo sul tappeto nuovo, ma gli sarebbe dovuto bastare. Almeno, aveva un cuscino. Due teli da bagno come lenzuola e…
Be’, non era un granché, ma con tutto l’alcol che quei due avevano buttato giù, probabilmente non se ne sarebbe accorto.
L’inconfondibile suono di una serie di conati di vomiti si udì dal bagno, amplificato dalla tazza del gabinetto.
Shifty sussultò un paio di volte, poi emise un lungo e basso mugolio. Seguito da una pausa. E poi uno sbuffo.
Gli misi addosso un altro telo e recuperai le due bottiglie vuote di champagne e quella con ciò che restava del whisky a buon mercato che aveva portato. Le portai in cucina e le lasciai vicino al bollitore. Poi recuperai una bacinella dal lavandino.
Quando tornai in soggiorno, Shifty si era girato sulla schiena e stava russando così forte da far tremare l’aria. Le lenzuola improvvisate erano accartocciate al suo fianco, mostrando il ventre pallido e peloso. Smise di russare per un paio di secondi… E poi borbottò qualcosa che suonava come un nome e ricominciò peggio di prima.
«Stupido idiota». Gli rimboccai addosso i teli da bagno. «Vedi di non soffocare nel tuo stesso vomito nel bel mezzo della notte, okay?». Spensi la luce. Chiusi la porta. E lo lasciai a smaltire la sbronza.
Sentii lo scarico del bagno. E poi gorgogliare e sputare. Infine, Alice uscì in corridoio.
Si era infilata il pigiama di tartan tutto storto, con i bottoni sfalsati. I capelli scombinati e annodati. «Urgh…».
«Avanti: andiamo a letto».
Si portò una mano al viso. «Non mi sento tanto bene…».
«Be’, e di chi è la colpa?».
La porta della camera da letto si aprì su una stanzetta con un letto singolo, un armadio pieno da scoppiare e un piccolo comodino. Un poster di Monet dominava la stanza, tutto toni di verde, blu e viola.
Alice si infilò faticosamente a letto, tirandosi la trapunta fino al mento. «Urrgh…».
«Hai bevuto un bel bicchiere d’acqua?». Le posai la bacinella sul pavimento, dalla parte della testa. Con un po’ di fortuna, il pavimento non sarebbe stato pieno di vomito, la mattina dopo.
«Ash…». Schioccò le labbra un paio di volte, come se avesse un sapore amaro in bocca. «Raccontami una storia».
«Stai scherzando, vero?»
«Voglio una storia».
«Sei una donna adulta, non mi metterò a leggere…»
«Ti preeego…».
Ma sul serio?
Mi guardò sbattendo le palpebre, borse grigie sotto agli occhi arrossati.
Un sospiro. «D’accordo». Mi sedetti sul bordo del letto, spostando il peso dal piede destro. «C’era una volta un serial killer chiamato Inside Man, e gli piaceva cucire bambole nella pancia delle infermiere. Ma quello che non sapeva era che un poliziotto coraggioso era sulle sue tracce».
Lei sorrise. «E si chiamava Ash, vero?»
«Chi sta raccontando la storia, tu o io?».