CAPITOLO 32

Il freddo della parete del corridoio dietro la schiena mi penetrava attraverso la giacca umida, raggiungendo la pelle al di sotto. «No, Mackay. M.A.C.K.A.Y. Jimmy Mackay, ultimo indirizzo noto: Appartamento 50, Willcox Towers, Cowskillin».

Rhona me lo ripeté, lentamente, come se lo stesse scrivendo allo stesso tempo. «Okay, ricevuto. Non si preoccupi, quando avremo finito, Jimmy non proverà neanche a stare a un milione di miglia dalla sua ex».

«Grazie, Rhona».

«Ash?». Tossicchiò. «Senta, mi dispiace davvero di aver detto alla Ness che lei ritiene che l’Inside Man sia un poliziotto. Non sapevo che doveva restare un segreto. Sul serio».

«Be’… assicurati che Jimmy Mackay si prenda un bello spavento, allora».

«Ci può contare».

La porta in fondo al corridoio si aprì e Alice ne uscì camminando all’indietro, parlando troppo piano per permettermi di carpire più di un paio di parole, da dove mi trovavo. Poi si sporse oltre la porta e abbracciò chiunque ci fosse dall’altra parte.

Arretrò di nuovo, e la porta si chiuse. Restò lì per un attimo, poi sembrò afflosciarsi, fece un paio di respiri profondi, inarcando la schiena, e si girò, regalandomi un debole sorriso. Mi salutò con la mano.

Io mi avvicinai zoppicando. «Be’?».

Lei si passò una mano sul viso. «Le coinquiline di Claire Young sono bloccate al terzo stadio del modello di Kübler-Ross. Quell’appartamento è diventato un mausoleo». Si scosse. «Mi spiace che tu sia dovuto andare via, è…».

«Va tutto bene. Lo capisco. Non hanno bisogno di un poliziotto che venga a disturbare il loro dolore».

«Pfff…». Lei si avvicinò e mi premette la fronte contro il petto. «Abbiamo cercato di fare insieme un po’ di terapia cognitiva e di programmazione neurolinguistica, e mi sento come se avessi corso una maratona tenendo sulle spalle una lavatrice…».

Le accarezzai una spalla. «Andiamo?».

Un cenno di assenso. «Possiamo prendere prima qualcosa da mangiare?».

Mi girai e la guidai verso le scale. «La mensa dell’ospedale è uno schifo, ma di solito c’è un furgone che vende panini, qui fuori».

La scala della palazzina A aveva delle vetrate intorno, invece che pareti di cemento, che davano sul bosco scuro di Camburn Woods da una parte e sul parcheggio dall’altra. Perlomeno, non c’erano più giornalisti in attesa davanti all’ingresso.

Alice scese al mio fianco, mentre io zoppicavo fino al portone per aprirlo. Si fermò sotto il portico, lottando con l’ombrellino pieghevole. «Possiamo andare a piedi da qui all’ospedale?».

All’esterno, il vento si era calmato. Continuava soltanto a piovere forte, le gocce rimbalzavano sul marciapiede e sull’asfalto della strada formando una bassa nebbiolina, colpendo gli alberi e i cespugli fino a sottometterli alla loro violenta forza.

«Ne sei sicura?»

«Per le ultime due ore non abbiamo fatto che bere tè e parlare con persone tristi, e ogni respiro sa di smarrimento e panico. Sì, lo so che sembra melodrammatico, detto così, ma sto cercando di ragionare come lui quando pensa alle infermiere, e sono stanca, e ho soltanto voglia di camminare un po’ sotto la pioggia, senza dover sentire tutto quel terrore e quel dolore».

«Okay…».

Sollevò l’ombrello, in modo che potessi zoppicarvi sotto. Mi prese a braccetto, in modo che coprisse entrambi. Poi lasciò il portico e si avviò sotto la pioggia. «Un coro di potere e dolore».

Seguimmo la strada che dall’ingresso della palazzina girava sul retro, dove si divideva in tre direzioni: indietro verso le masse di mattoni rossi delle palazzine B e C, dritto verso il bosco di Camburn Woods, e a sinistra, seguendo le propaggini del sottobosco, con i lampioni spenti che si sollevavano come ossa contro il cielo di granito.

Un’insegna era stata sistemata all’incrocio, con una freccia che indicava a sinistra. “CASTLE HILL INFIRMARY – A 20 MINUTI”.

Alice mi si strinse contro, mentre avanzavamo sul sentiero inondato dalla pioggia, con l’acqua che arrivava a lambirle le All Star rosse. «Nessuno si fida della sicurezza, non intervengono a meno che non siano costretti. Ho detto loro di scrivere una lamentela formale. Insomma, che senso ha avere degli agenti di sicurezza, se non ti fanno sentire al sicuro?»

«Hai sentito se qualcuno si è fatto vivo per chiedere di Claire?»

«Nessuno di specifico. Be’, in molte hanno parlato dei guardoni, soprattutto quelle che hanno le stanze affacciate sul bosco. Sai come sono gli uomini». Sospirò piano. «Senza offesa».

Le palazzine delle infermiere scomparvero nella pioggia alle nostre spalle. Davanti a noi, alte mura nascondevano i giardini di un isolato di villette di arenaria. I campanili delle chiese di St Stephen’s e St Jasper’s e della cattedrale si sollevavano al di sopra dei loro tetti di tegole. E, appena visibili in lontananza, i camini gemelli dell’inceneritore dell’ospedale, volute bianche di fumo e vapore che creavano cicatrici parallele nel cielo.

Gli unici rumori erano quelli delle foglie che frusciavano e delle gocce di pioggia che picchiettavano sul tessuto nero dell’ombrello.

«Hanno detto niente riguardo a un uomo che scattava foto? O che frugava nell’immondizia?».

Lei scosse la testa.

Due ore a visitare appartamento dopo appartamento dopo appartamento di infermiere spaventate e preoccupate, e l’unica pista che avevamo dipendeva dal detective Sabir Akhtar, e dalla speranza che fosse davvero il genio che diceva a tutti di essere.

Alice mi oltrepassò con lo sguardo, fissando il bosco. «Sembra quasi uscito da una fiaba dei fratelli Grimm».

«Buffo che proprio tu lo dica. C’era una volta una giovane donna di nome Deborah Hill, che…».

«Ti prego». Alice spostò lo sguardo. «Non stavolta. Camminiamo e basta».

L’infermiera singhiozzò, passandosi un fazzoletto spiegazzato sulle narici e strofinandosi il naso a patata da una parte all’altra. «No. Ecco, sa…». Si strinse nelle spalle e sospirò. Era bassa, con evidenti borse violacee sotto agli occhi, il viso tondo nell’ombra del cappuccio della giacca. La cerniera era aperta, nonostante la pioggia, mostrando un camice azzurro e una targhetta con il nome “BETHANY GILLESPIE” stampato sopra.

L’altra coinquilina di Jessica. Quella con l’ex marito stalker.

Si mise in bocca l’ennesima patatina, masticò e si sporse in avanti, abbassando la voce. «Li prendete sempre i pazzi, vero? E non parlo di gente con difficoltà d’apprendimento o problemi mentali, ma di quel genere di pazzi che vorrebbe annusarti le dita dopo che esci dal bagno delle signore. Una volta c’era un tizio, qui dentro, che lamentava terribili dolori addominali, ma appena scostavi le lenzuola ti faceva la pipì addosso». Sospirò di nuovo. «Insomma, pazzi».

La fila per prendere qualcosa da mangiare era ormai ridotta a un’ultima infermiera, prima che fosse il turno di Alice. Tutti e quattro ci tenevamo al riparo della tenda del furgone. L’aria sapeva di fritto, patatine bollenti e aceto.

Gran parte dell’ospedale era nascosta, da quell’angolo del parcheggio, dietro al mausoleo di arenaria vittoriana in cui tenevano persone come Marie Jordan. Sedate fino alle orecchie e chiuse in una stanza con le sbarre alle finestre. La torre dell’ospedale si alzava dietro all’edificio, ma soltanto gli ultimi due piani erano visibili, con le luci accese alle finestre, grigie e fioche di sotto, calde e dorate all’ultimo piano. Dove venivano ospitati i pazienti privati.

Bethany spezzò un boccone di pesce fritto e diede un morso croccante.

Accennai all’ospedale. «E che mi dice dei pazienti, qualcuno si è mai lamentato?».

Lei deglutì. «Riguardo a Jessica? Santo cielo, no? Era bravissima con i papà e le mamme. Una vera professionista, sotto tutti gli aspetti».

Ci fu un rumore di carta spiegazzata, e l’altra infermiera si allontanò, il viso corrucciato mentre si infilava in bocca un paio di patatine fritte. Magra, con i capelli grigi tirati indietro e la bocca piccola e imbronciata piena di piccoli denti aguzzi. Masticava a bocca aperta. Mi fissò da capo a piedi, per poi rivolgersi a Bethany. «Chi è il tuo amico?».

Bethany fece una smorfia, che si sforzò di sostituire velocemente con un sorriso. «Stavo soltanto dicendo a questo gentile poliziotto quanto sia professionale Jessica».

«Jessica? Professionale?». La donna sbuffò. Morse l’estremità di una salsiccia schiacciata, masticando e parlando allo stesso tempo. «Ti ricordi di Mrs Gisbourne?»

«Jean MacGruther, non è questo il modo di parlare di…».

«Dei morti? Non si parla male dei morti. Ma Jessica non è morta». L’infermiera MacGruther mi fissò. «Non è così?».

Aprii la bocca, ma Bethany mi precedette. «Hai letto cosa dicono i giornali stamattina? Sono…».

«Tutte idiozie. La polizia sta cercando di fare il suo lavoro. Pensi che sia d’aiuto se stiamo tutte qui a piangere e a ripetere quanto tutti le volessero bene?». Si ficcò in bocca un’altra manciata di patatine. «Ha già parlato con il ragazzo di Jessica?»

«C’è un motivo in particolare per farlo?».

Bethany sollevò il mento. «È stato tutto un malinteso».

«Darren Wilkinson». Gli occhi dell’infermiera MacGruther scintillarono, mentre masticava. «Al primo turno dopo San Valentino, Jessica arriva al lavoro con un occhio nero. Un livido grosso come un piatto, di sicuro non di quelli che ti procuri con un incidente qualsiasi. Ovviamente, non possono farla lavorare con le puerpere in quelle condizioni, no? Ha dovuto passare una settimana a riordinare gli archivi e a fare telefonate statistiche e simili».

Un profondo, teatrale sospiro. «Ce l’ha spiegato, come è andata. Stavano giocando a tennis con la Wii di Darren ed erano un po’ ubriachi. È stato solo un incidente».

«Sì, e le costole incrinate? Anche quelle erano un incidente?»

«Lo sai che lei…».

«E vogliamo parlare di quando le ha rotto un dente? Un molare, in fondo alla bocca. Ci vuole parecchia forza, per una cosa del genere… è stata fortunata che non le abbia rotto la mascella».

Bethany masticò un altro boccone di pesce fritto. «È stata rapita dall’Inside Man, non dal suo ragazzo. Darren non è un serial killer, lavora nelle Risorse Umane!».

«Qualsiasi uomo che picchia la sua fidanzata…».

«Non voleva creare problemi, è stato…».

«…un vero bastardo. Come si può…».

«D’accordo!». Sollevai le mani e passai alla voce dell’ispettore che aveva terrorizzato quell’idiota di pattuglia, il giorno prima. «Ho capito. La picchiava. E lei non l’ha denunciato».

Entrambe arretrarono, fissandomi.

Bethany tirò su con il naso. «Non c’è bisogno di fare così. Stiamo solo cercando di dare una mano».

Alice si appoggiò contro la parete bicolore – un triste verde istituzionale sotto, un vago color magnolia sopra. «Non avrei dovuto mangiare tutte quelle patatine». Sbuffò gonfiando le guance e abbassò le spalle. «Un’ora a parlare con le ostetriche con un’indigestione in arrivo… Cioè, non le ostetriche, voglio dire, sono io quella con l’indigestione, anche se magari potevano averla anche loro, ma nessuna l’ha specificato. E tu? Come ti senti?».

Grida e imprecazioni risuonarono dal fondo del corridoio, insieme a qualche occasionale urlo. Il miracolo della vita.

«Non c’ero, quando Rebecca è nata. Un ragazzino era stato attaccato e quasi sbranato dal cane di uno spacciatore di droga. Ho passato tutto il giorno a caccia di quel bastardo. Però ce l’ho fatta ad assistere alla nascita di Katie. Era… minuscola. E viola, e urlante, e coperta di muco e sangue». Sentii una risata tentare di nascermi in gola, ma morì prima che fosse in grado di respirare da sola. «Dio, era come una versione porno di Alien». Al tempo in cui tutto sembrava ancora possibile e nessuno doveva morire.

Sentii una ferita aprirsi al centro del petto, far male a ogni respiro. Mi schiarii la voce. «Dunque, la tua ora di indigestione ti ha portato a qualcosa?»

«Tutte le donne con cui ho parlato hanno paura dell’Inside Man. Non tornano a casa se non sono almeno in tre o quattro. Non usano più il parcheggio dell’ospedale, perché ancora non ci hanno messo delle telecamere di sorveglianza». Si strinse il busto con un braccio. «Sta diventando una specie di mostro mitologico… una sorta di incrocio tra Freddy Krueger, Jimmy Savile e Peter Mandelson…». Controllò l’orologio. «Dobbiamo andare a parlare con il ragazzo di Jessica McFee? Perché forse dovremmo farlo, insomma, se l’ha picchiata è chiaro che ha problemi di gestione della rabbia e…».

«Che ore sono?».

Lei ricontrollò. «Le quattro meno venti».

«Okay, finiamo di interrogare le colleghe di Jessica e andiamo pure a trovare quel tipo. Ma voglio essere fuori da qui per le quattro e un quarto al massimo, così non faremo tardi dal nostro amico contabile della mala».

Alice chinò il capo, fissandosi la punta delle scarpe rosse. «Possiamo evitare di chiamarlo “amico”? È…».

«Ne abbiamo già parlato. O lui o Shifty, ricordi?». Le posai una mano sulla spalla. «So che è difficile, ma… Merda». Sentii il telefono squillare in tasca. Era ora che Sabir mi richiamasse per quel nome. Tirai fuori il cellulare e premetti il pulsante di risposta. «Perché ci hai messo tanto?»

«Sei tu, Henderson?». Chiunque fosse, non si trattava di Sabir. Invece del suo tipico accento di Liverpool, sentivo quello di Oldcastle.

Scostai il cellulare dall’orecchio e controllai lo schermo. “NUMERO PRIVATO”.

«Chi è?»

«Certo che sei proprio un detective: sono Micky Slosser. Sei stato nel mio ufficio stamattina, te lo ricordi?». Una pausa. Rumori di sottofondo. Poi riprese: «È appena successo qualcosa che potresti ritenere interessante».

Silenzio.

«Non sono davvero dell’umore giusto per i giochetti, Micky».

«È arrivata una lettera. Un foglio giallo. Ed è firmata dall’Inside Man».