CAPITOLO 37
La sala di osservazione si stava affollando. La Ness e il dottor Docherty erano seduti alla scrivania, intenti a fissare la TV a schermo piatto montata sulla parete. Entrambi avevano gli auricolari, di quelli con il microfono sul davanti, come se lavorassero in un call center, con i cavi attaccati alla postazione. Alle loro spalle, il sovrintendente Knight e Jacobson erano seduti a braccia conserte, lasciando a me e ad Alice soltanto lo spazio necessario a schiacciarci contro il muro.
Eravamo lì dentro da venti minuti e l’odore di aglio, aceto e carne scaduta, esalato da qualcuno che aveva bisogno di un deodorante più forte, appesantiva l’aria,.
Sullo schermo, dei numeri andavano avanti in un angolo, segnando il tempo in cui Martello Robertson continuava a restare in silenzio nel corso del suo interrogatorio.
Il grandangolo della telecamera era ampio abbastanza da inquadrare lui, il suo avvocato e i due agenti, un maschio e una femmina, che conducevano l’interrogatorio.
Un forte accento di Aberdeen si fece sentire dagli altoparlanti del televisore. Era l’ispettore Smith: «Non ti stai dando una mano, così, lo sai? Abbiamo il tuo…».
«Un momento». L’avvocato sollevo una mano tozza con le dita piene di anelli scintillanti. Un bracciale d’oro spariva nella manica della camicia. Imbronciò il volto largo in una smorfia. «Il mio assistito vi ha già detto che non è stato lui a rapire Jessica McFee. Andiamo avanti».
Il dottor Docherty si piegò in avanti sulla sedia, le mani serrate al petto come se stesse pregando: «Millie, chiedigli del rapporto che aveva con sua madre».
La detective sulla sinistra bussò sul tavolo. Si era arrotolata le maniche della camicia fino ai gomiti, mostrando gli avambracci pieni di muscoli e un tatuaggio di Buzz Lightyear appena visibile sul destro. I capelli castani tagliati in un corto caschetto e spinti dietro le orecchie. «Dunque, Alistair, vedevi spesso tua madre, dopo che è finita in carcere?»
«Non vedo cosa abbia a che fare la madre del mio assistito con…».
«Avvocato Bellamy, se potesse evitare di ostacolare la nostra indagine mettendo bocca su ogni domanda, penso che andremmo molto più veloci di così».
«Detective Stephen, devo proprio ricordarle come funziona la legge in Scozia, al momento? Le posso citare la sentenza del 2010 Cadder contro Capo dell’Ufficio Legale della Corona Scozzese. Le consiglio di dare un’occhiata».
Alice mi tirò per la manica. «Dobbiamo controllare eventuali fabbricati abbandonati, o se abbia accesso a delle proprietà di cui non sappiamo, dove potrebbe aver organizzato la sala operatoria e…».
«Che ci creda o no», intervenne la sovrintendente detective Ness, girandosi sulla sedia, «ci abbiamo già pensato. Alcune squadre stanno controllando il catasto e contattando agenzie immobiliari in questo stesso momento. E ora, se non le spiace…».
Alice serrò le labbra di scatto.
«Deve essere stato brutto, crescere con tua madre in prigione, comunque».
«Detective Stephen, non lo ripeterò ancora una volta: andiamo avanti».
«Soprattutto dopo quello che aveva fatto a quella povera donna». Sullo schermo, la detective Stephen mise una mano sotto al tavolo e tirò fuori una busta da lettera. «Ti hanno mai fatto vedere come la tua cara mammina ha ridotto Gina Ashton?». Prese una foto dalla busta. La superficie catturò il riflesso della lampada, cancellando i dettagli dell’immagine mentre la lasciava sul tavolo. «Deve essere stato terribile sapere che fosse capace di cose del genere…».
Robertson fissò la foto e incrociò le braccia. Restò seduto lì, senza dire una parola.
«Detective Stephen, io la avverto. Se continuerà così, sporgerò denuncia e mi assicurerò che il tribunale sappia del suo comportamento inadeguato durante questo interrogatorio. Andiamo… avanti».
Alice tornò a tirarmi la manica, per poi alzarsi sulla punta dei piedi fino a sfiorarmi l’orecchio con le labbra. «Non dirà nulla. Se è l’Inside Man, si è preparato a questo momento per anni. Se ne resterà lì e non dirà una parola finché Jessica McFee non morirà di sete o di fame. Dovranno rilasciarlo e non si avvicinerà minimamente a dove la tiene prigioniera. Il dottor Docherty non riuscirà mai a farlo parlare. Se non la troviamo da soli, è morta».
Rhona indicò le doppie porte. «È lì dietro».
La Centrale di Polizia risuonava del brusio degli agenti del turno di notte che cominciavano a lavorare, bevendo tazze di tè e lamentandosi della pigrizia inaccettabile dei colleghi del turno di giorno. Mi fermai con la mano sulla porta, l’altra che stringeva una busta di carta proveniente dall’ufficio stampa. «Da quanto tempo?».
Mi rispose con un’alzata di spalle. «Un’ora e qualcosa? Io e Brigstock siamo andati alla discarica e gli abbiamo consegnato una copia della nuova lettera dell’Inside Man. E subito dopo, bam. Era qui. Seduto alla reception».
«E non si è mosso da lì?»
«Forse è andato al bagno una volta, ma per il resto no».
Controllai il cellulare: l’app di Sabir scintillava di una luce arancione fissa. Finché io e Alice fossimo rimasti su quel piano, non ci sarebbero stati problemi. Sempre che lei non se ne fosse andata a fare una passeggiata…
Rhona aprì la porta e mi lasciò entrare nell’area della reception. Delle sedie di plastica erano allineate lungo le pareti, inchiodate al pavimento e sistemate di fronte al bancone, in modo che nessuno potesse fare strani scherzi. I muri erano pieni di poster: programmi anticrimine; call-center di supporto contro gli stupri; come riconoscere una coltivazione di cannabis, un terrorista e un bambino sottoposto ad abusi.
Wee Free McFee era seduto sotto a una grossa bacheca di sughero tappezzata di ritagli del «Castle News and Post», tutti con foto di carichi di droga sequestrati e agenti di polizia che facevano irruzioni nelle case dei criminali.
C’era almeno una dozzina di persone, lì dentro, tra ubriachi, barboni, un paio di vecchiette dall’aria inferocita, tutte sedute insieme, ammassate in una parte della stanza. Ma nessuno era seduto vicino a Wee Free. Le tre sedie alla sua sinistra e le tre alla sua destra erano vuote.
Rhona si schiarì la gola, tenendo gli occhi fissi sul corridoio dietro di noi. «Ti… ehm… ti serve una mano? Avrei parecchie scartoffie in arretrato…».
Entrai calcando le piastrelle grigie del pavimento. «William?».
Lui si girò e un lieve sorriso fece prendere vita ai folti baffi grigi. «Di nuovo tu».
«Le va una tazza di tè?».
Lui si alzò dalla sedia e la gente più vicina tentò di spostarsi il più possibile dalla sua traiettoria senza abbandonare il posto che si era scelta. «Perché non l’avete ancora trovata?».
Accennai alla porta anonima su un lato del bancone. «Venga con me».
Mi ci vollero tre tentativi per ricordare il codice d’accesso, ma alla fine la porta si aprì su una piccola stanza: all’interno c’erano quattro sedie, un tavolo grigio, uno schedario con un bollitore in cima e un cestino che straripava di confezioni di spaghetti istantanei, pacchetti vuoti di patatine e contenitori da rosticceria sporchi.
Posai la mia busta sul tavolo e andai a prendere il bollitore. «Ha visto la lettera mandata al “News and Post”».
Wee Free si sistemò su una delle sedie, le gambe larghe e un braccio allungato sullo schienale della sedia accanto. «C’è puzza, qui dentro».
«La pubblicheranno domani mattina. In prima pagina». Accesi il bollitore. Aprii il primo cassetto dello schedario. «Stiamo ancora facendo dei riscontri, ma un grafologo ha affermato che la grafia corrisponde con quella delle lettere di otto anni fa». Una confezione di caffè istantaneo era sistemata accanto a una scatola di bustine di tè, qualche tazza, un sacchetto di zucchero e una bottiglia di latte. Due delle tazze finirono vicino al bollitore che già borbottava. «Sa se qualcuno perseguitava Jessica?».
Il latte non aveva uno strano odore, perciò ne misi un po’ in entrambe le tazze.
Quando mi voltai, Wee Free non si era mosso. La busta da lettera era rimasta sul tavolo, ma lui era rosso in volto. E gli occhi sembravano schegge di granito. «Chi è?»
«Abbiamo arrestato una persona, stasera. La stanno interrogando adesso».
«Ma lei è stata…?»
«No. La stiamo ancora cercando». Un getto di vapore fischiò fuori dal bollitore.
Lui si piegò in avanti, con gli avambracci sul tavolo e le dita contratte come artigli. «Voglio un nome».
«È stato già arrestato per violenze, estorsione e contrabbando». Versai l’acqua bollente nelle due tazze.
«Ho detto…».
«Ha mai conosciuto di persona Martello Robertson? Di solito girava con Jimmy “l’Ascia” Oldman». Mi picchiettai il mento con un indice, tracciando un’invisibile cicatrice. «Be’, perlomeno finché non hanno avuto un diverbio».
Wee Free girò la testa, fissando il soffitto, nella direzione delle sale per gli interrogatori. E quando tornò a guardarmi, abbassò le spalle e chinò il capo. «Siete un branco di coglioni…».
Le tazze tintinnarono sul tavolo. «Sa che abbiamo trovato un piede che galleggiava nell’acqua a Kettle Docks? Il DNA corrispondeva con quello di Jimmy Oldman. Il patologo ha dichiarato che molto probabilmente è stato tagliato via con un’ascia».
Wee Free prese la tazza e vi intrecciò intorno le dita. «Come fate a essere così idioti?»
«Qualcuno pensa che Jimmy l’abbia fatto da solo. Che abbia fatto credere di essere stato ucciso e smembrato. Perché era l’unico modo che aveva per sparire e non farsi inseguire da Robertson. Non ha senso prendersela con un cadavere, no?». Mi sedetti anch’io. «Quanto a me, penso che Martello sia uscito dall’ospedale, abbia cercato Jimmy Oldman e l’abbia fatto a pezzi con la sua stessa ascia».
«Alistair Robertson sta… stava lavorando per me. Non ha rapito Jessica. Avete preso l’uomo sbagliato, imbecilli».
«Sarà meglio che sia importante, cazzo». Jacobson uscì in corridoio, sbattendo la porta della sala d’osservazione dietro di lui e fissandomi con astio. Sembrava che i piselli surgelati non avessero dato il risultato sperato: la contusione sulla guancia si era gonfiata e adesso aveva tutte le tonalità del rosso, del blu e del viola.
Sollevai il bastone e sbattei la punta sul muro all’altezza della sua spalla, bloccandolo in fondo al corridoio. «Non è l’uomo che stiamo cercando».
«Ma è stato visto nei pressi degli appartamenti delle infermiere e aveva…».
«Non è lui. Martello Robertson è un investigatore privato, adesso. Lavora per la Johnston & Gench a Shortstaine. Wee Free lo aveva ingaggiato per tenere d’occhio la figlia». Era bastata una rapida telefonata al cellulare del socio più anziano dell’agenzia investigativa per confermare tutto: non avevamo più un sospetto.
Jacobson chiuse gli occhi, per poi sbattere la nuca contro la parete un paio di volte. «Cazzo…».
«È per questo che girava intorno agli alloggi delle infermiere, controllava l’immondizia e portava via le bollette dalle cassette delle lettere».
Lui aggrottò la fronte, per poi aprire un solo occhio. «Non è che magari McFee ti sta mentendo? Forse ha detto che quell’uomo è a posto per farlo rilasciare, così potrà seguirlo, appenderlo per i pollici e torturarlo con una smerigliatrice».
«Ho appena parlato con uno dei soci dell’agenzia investigativa. Ha detto che Robertson è un loro dipendente da diciotto mesi, ormai. E ha passato gli ultimi sei a controllare Jessica McFee per conto di suo padre. Hanno i suoi rapporti, un regolare contratto, tutto quanto».
«E allora perché se ne sta lì fermo e zitto come un nano da giardino?».
Bella domanda. «Robertson non sarà quello che si dice un bravo ragazzo, ma Wee Free è un pazzo cazzo di psicopatico. Non si pestano i piedi a uno così, a meno che non si abbiano tendenze suicide».
«Stronzi…». Jacobson si girò e cominciò a fare avanti e indietro per il corridoio. «Pensavo che avessi detto che era il nostro uomo».
«No, ho detto che stava addosso a Jessica. E questo era vero. Solo che lo stava facendo per conto di suo padre».
La seguiva. Scopriva dove era stata e con chi. E poi, guarda caso, il suo fidanzato veniva picchiato brutalmente e decideva di non volerla più vedere. Che coincidenza.
Jacobson picchiò la fronte contro il muro un altro paio di volte. «Quindi, siamo di nuovo al maledetto punto di partenza».
Abbassai il bastone. «Non è detto».
«…una totale perdita di tempo». L’ispettore Smith mi fulminò con lo sguardo per un attimo, poi si girò e si allontanò a passi rabbiosi lungo il corridoio, le mani chiuse a pugno.
La detective Stephen lo guardò andarsene e poi sospirò. «Sarà proprio piacevole lavorare per lui, domani». Si passò una mano sulla fronte. Poi accennò alla sala interrogatori. «Vogliamo entrare?».
La stanza aveva lo stesso odore di due anni prima, un fastidioso misto di puzza di piedi e alito cattivo, su un sottofondo di ruggine e sudore.
La detective Stephen tornò a sedersi e si allungò verso il registratore inserito nel muro. Ne estrasse le cassette e le posò sul tavolo.
L’avvocato di Robertson imbronciò le labbra, per poi fissare accigliato la telecamera nell’angolo. La luce rossa era spenta. «State cercando forse di intimidire il mio assistito? Avete spento le telecamere per poterlo minacciare?».
Jacobson si sedette accanto alla detective Stephen. «Sa che far perdere tempo alla polizia è un reato, vero, Mr Robertson?».
L’avvocato gli posò una mano sul braccio. «Non risponda».
Mi posizionai alle spalle di Jacobson, appoggiandomi di schiena alla parete. Incrociai le braccia sul petto. «Sei davvero l’investigatore privato peggiore di tutti i tempi».
Martello Robertson mi fissò con astio. La cicatrice che gli divideva la faccia dal naso alla gola sembrò farsi più profonda, quando serrò le mascelle. «Mi avvalgo della facoltà di non rispondere».
«Non fare l’idiota: c’è Wee Free McFee, al piano di sotto, e ci ha detto tutto. Hai spiato sua figlia per conto suo». Sorrisi ampiamente. «Solo che un buon investigatore privato non si sarebbe fatto notare da mezzo mondo, facendosi inseguire non una sola volta, ma due».
L’avvocato si irrigidì. «A meno che non riaccendiate quel registratore, il mio assistito non risponderà ad altre domande. Questa è una grave violazione del…».
«Un’infermiera ti ha pestato con delle bottiglie vuote. Non proprio una scena da Magnum PI, vero? Sul serio, ma quanto idiota puoi…».
«Io sono un ottimo investigatore privato!». Robertson si alzò in parte dalla sedia, cupo in volto. «Quello era un lavoro per almeno tre persone… quel posto è pieno di potenziali testimoni, c’è gente che va e viene a tutte le ore del giorno e della notte. E io ero solo. Per sei settimane!». Fece un paio di respiri profondi e tornò a sedersi. «Cioè… mi avvalgo della facoltà di non rispondere».
«Non fare lo stupido. Il tuo cliente è al piano di sotto. Abbiamo parlato anche con il tuo datore di lavoro. Sappiamo tutto».
«Il mio assistito ha detto che si avvale della facoltà di non rispondere».
Jacobson si piegò in avanti. «Vede, Alistair… posso chiamarla Alistair, vero? “Martello” fa pensare a un wrestler americano. Insomma, sappiamo che ha sorvegliato Jessica McFee. Deve aver scattato anche delle foto, giusto?».
Lui non si mosse.
«Perché se ha scattato delle foto, magari potrebbe esserci il vero Inside Man, in una di quelle».
Io annuii. «Mr McFee vuole che tu ci consegni tutto quello che hai. E ha detto anche di riferirti che se fai delle sciocchezze, verrà a cercarti. In ogni caso, avremo quelle fotografie. Il resto dipende da te. Se hai voglia di fare visita al pronto soccorso oppure no».
Martello si mordicchiò l’interno di una guancia, deformando la cicatrice. Infine, guardò l’avvocato.
«Oppure», Jacobson sollevò un dito, «potremmo parlare della sua resistenza all’arresto, con annessa aggressione a due poliziotti».
Il sorriso sul volto di Jacobson si trasformò in un ghigno, mentre percorrevamo il corridoio. «Henderson, adesso puoi chiamarmi Bear». Si strofinò le mani. «Molto bene. Prendiamo le foto, le diamo subito a Cooper e Bernard da analizzare, e noialtri ci fiondiamo in un bel ristorante cinese».
«Non posso». Arretrai, alzando le mani. «Alice ha una cosa da fare, e se non vado con lei, le cavigliere si metteranno a urlare e i suoi sgherri arriveranno di corsa».
«Oh». Jacobson si afflosciò. «Sicuro?»
«Mi piacerebbe molto, ma lo sa come sono le donne. Magari facciamo domani?».
Sempre che Mrs Kerrigan non ci uccida prima.
La Jaguar tremò e cigolò mentre il motore si raffreddava sotto al cofano ammaccato. Mi allungai sul sedile posteriore e presi Bob Aggiustatutto dalla testa morbida e sorridente.
All’esterno, la fabbrica era vuota. Soltanto il riflesso freddo dei lampioni e la pioggia che continuava a cadere ci tenevano compagnia.
Alice sfiorò il volante con la punta delle dita. «Forse possiamo ancora chiamare…».
«Non è una di quelle volte in cui puoi chiamare i Ghostbusters. Ma una del tipo “aiutati che Dio t’aiuta”». Il velcro che teneva insieme i pantaloni di Bob si aprì con uno scricchiolio fastidioso.
Tirai fuori la semiautomatica, controllai che la sicura fosse inserita, estrassi il caricatore ancora pieno e tornai a farlo scattare al suo posto. Poi mi piegai avanti e infilai la pistola nei pantaloni, dietro la schiena. «E poi cosa succederebbe se dovesse andare tutto storto?»
«Sei sicuro che io non possa…».
«Sicuro».
Un sospiro, poi Alice serrò le dita sul volante. «Regola numero uno: correre».
«Molto bene. Non aspetti, non fai nulla di eroico, muovi quelle piccole scarpe rosse e corri».
«Ma tu…».
Indicai oltre il finestrino dal lato del guidatore, verso il passaggio che spariva nell’oscurità tra il magazzino della fabbrica di candele e una fila di malandati e arrugginiti container. Dove le ombre sembravano più fitte e profonde. «E voglio che tu sia lì. Dove nessuno potrà vederti».
«Ma se io…».
«Tu corri». Le posai una mano sul ginocchio. «Promettimelo».
Lei mi fissò per forse un minuto, poi abbassò lo sguardo sul volante. «Promesso».
«Raggiungi il buco che abbiamo fatto nella recinzione. Niente eroismi. Non ti fermi. Non ti volti indietro». Le strinsi il ginocchio. «E se qualcuno ti dovesse raggiungere, gli sbatti in testa il martello».
«Non mi volto indietro». Lasciò andare il volante e mi prese per mano. «E tu non ti fai accoltellare, sparare, picchiare o uccidere. Promettimelo».
«Promesso». Aprii lo sportello, mi piegai verso di lei e la baciai sulla guancia. Profumava di mandarini e mango. «E ora muoviti, vai dove ti ho detto».
Uscì dalla macchina, aprì l’ombrello e si allontanò nell’oscurità. Il giubbotto scuro e i jeans neri furono ingoiati dalla notte, non lasciando altro che un lampo bianco intorno alla suola delle scarpe. E poi anche quello sparì.
Avanzai sull’asfalto pieno di crepe, in cui l’erba era cresciuta, prepotente.
La pioggia mi sferzava le spalle della giacca, bagnandomi i capelli, mentre zoppicavo fino al portabagagli e lo aprivo.
Paul Manson mi guardò sbattendo le palpebre, per poi spalancare gli occhi, lucidi e arrossati. La corda da bucato gli si era stretta al collo, graffiandogli la pelle. «Mmmmmnnnffff, mmmnnnnphnnnn!».
Aveva le guance bagnate, sopra al bavaglio.
Povero piccolo.
Il nastro adesivo aveva fatto il suo dovere. Aveva ancora le braccia bloccate dietro la schiena, come le caviglie e le ginocchia. L’incerata scricchiolava sotto di lui mentre si dibatteva.
Secondo il mio orologio, mancavano dieci minuti alle nove. Erano passate da poco tre ore, da quando l’avevo sedato con la roba che mi aveva dato Noel. Quel bastardo era stato bravo.
Mi piegai in avanti e gli mollai qualche schiaffetto gentile sulla guancia bagnata di lacrime. «Questo è ciò che succede quando rubi ad Andy Inglis. Che cazzo credevi di fare?»
«Nnnffff! Nmmmmnnnnph mmmffff!».
Sì, era quello che dicevano sempre tutti.
«Dovevi pensarci prima di cominciare a riciclare denaro per il crimine organizzato. Omicidi, estorsioni, droga, prostituzione. Hai la minima idea di quanta sofferenza hai contribuito a creare? Di quante vite hai rovinato? Ci hai mai pensato mentre te ne tornavi a casa in quella costosa auto sportiva, dalla tua bella mogliettina e dal tuo marmocchio viziato?»
«Nnnfff! Nnnnnggggnnn nfffffp!».
«Ti meriti tutto quello che sta per succederti».
«Nnnnnnnnnngh…». Serrò le palpebre, versando altre lacrime.
Lo perquisii, poi aprii il cappotto e pescai il grosso portafogli dalla tasca interna a sinistra. C’erano un paio di carte di credito, tre tessere di altrettanti supermercati, dei programmi frequent flyer. Una sua foto con la moglie e il figlio che sorridevano su una spiaggia esotica piena di palme. Una manciata di scontrini e fatture. E circa duecentocinquanta sterline in contanti.
Gli sottrassi le banconote per punirlo della sua cattiveria, poi rimisi il portafogli dove l’avevo trovato.
«Nnnngghnnnphhhnn…».
«Lasciami indovinare: ti dispiace? Non vuoi morire?»
«Nnngh…».
«Bene, se ti salvo quel culo miserabile, testimonierai sugli affari sporchi sporchi di Andy Inglis, giusto? Fornirai alla polizia i dettagli di ogni traffico d’armi e di stupefacenti; di ogni conto in banca in qualsiasi paradiso fiscale estero. Dirai tutto. E lo farai anche davanti a un tribunale».
Sgranò gli occhi, aggrottando le sopracciglia. «Nnn, nnnmmmph nnnghh!».
Mi avvicinai a lui, piegandomi in avanti. «So cosa stai pensando. Pensi che lei ti farà ammazzare, se vai alla polizia. Ma è troppo tardi. Secondo te perché sei qui? Lei ti vuole già morto. O parli con me e ti fai mettere in un programma di protezione testimoni, oppure non lo fai e finisci ammazzato stanotte. A me non cambia proprio un bel niente».
Manson richiuse gli occhi, le spalle scosse dai singhiozzi e le lacrime che gli rotolavano sulle guance. Probabilmente si era considerato intoccabile per anni. In fondo, la contabilità non è una cosa così sporca, giusto? Non è come rapinare una banca o gambizzare qualcuno. Si tratta solo di computer e numeri. Non è come la vera criminalità.
I bastardi come Paul Manson erano tutti uguali.
Presi la busta dalla tasca e tirai fuori la seconda siringa. Ne tolsi il cappuccio e premetti appena il pistone per far uscire le bolle d’aria. Poi allungai la mano sinistra e gli bloccai la testa contro il foglio di plastica dell’incerata.
«Nnnn! Nnnnnn! Nnnngghnnmmmmnnt!».
«Oh, sta’ zitto. Se non sembrerai morto, non ci crederà».
L’ago gli si piantò nel collo. Premetti il pistone. Lo sentii urlare dietro al bavaglio. Si dibatté… e tornò a perdere i sensi.
Lo guardai, immobile come un grosso e brutto pacco avvolto nel nastro adesivo, con un fiocco di corda da bucato.
Non sarei mai riuscito a tirarlo fuori dal bagagliaio, legato com’era.
Tagliai la corda, togliendogliela dalla gola e dalle caviglie. Molto meglio.
Alle mie spalle, udii il rumore di metallo su metallo.
Al cancello, un uomo in giacca e cravatta tolse la catena che teneva chiusi i due battenti, per poi lasciarla cadere a terra. Una grossa BMW nera 4x4 si mosse dietro di lui. La pioggia trasformava i coni di luce dei suoi fari in due lame scintillanti, che si riflettevano sull’asfalto bagnato.
Il momento era arrivato.