CAPITOLO 16

Il soggiorno di Ruth Laughlin non sembrava molto vissuto. Una stufa elettrica era accesa e scintillava su una parete, rendendo l’aria secca e irrespirabile. Calda abbastanza da farmi colare qualche goccia di sudore sulla nuca. Un piccolo televisore portatile era appoggiato su un tavolo ammaccato, con la spina staccata dalla presa e uno spesso strato di polvere a coprire lo schermo; un divano di velluto marrone con sopra delle coperte a scacchi; un paio di sbiadite foto di famiglia incorniciate; una normalissima lampada con dei rombi sul paralume. Era come se qualcuno avesse trasportato la casa di una vecchia signora in un isolato di appartamenti senz’anima.

Lei era seduta nell’unica poltrona, le ginocchia strette, le braccia abbandonate in grembo. Il polso sinistro era avvolto in una benda sporca e ingrigita. Le rughe le increspavano l’ampia fronte, i capelli le scendevano sulle spalle in ricci scomposti di un biondo scuro. Occhiaie bluastre le infossavano i piccoli occhi. Le guance erano scavate. Non somigliava affatto alla donna che si era presa cura di me fino all’arrivo dell’ambulanza.

Aveva solo trentatré anni e sembrava una sessantenne, come se qualcuno le avesse strappato qualcosa dal profondo dell’anima, lasciandola vuota e spezzata.

Alice si mosse sul divano, risistemando gambe e braccia finché non assunse la stessa posa di Ruth. Sorrise. «Come ti senti?».

Ruth non si mosse. Aveva una voce sottile e incerta. «A volte mi sputano. Quando vado a fare la spesa».

«Chi?»

«I ragazzini. Sono degli animali. Sputano alle persone e rubano nelle case. Rompono tutto». Portò gli occhi alla benda sul polso. «Ho dovuto smettere il volontariato dal veterinario».

«È successo qualcosa?»

«Io… pensavo sarebbe stato bello tornare in qualche modo a quello che sapevo fare, quando… ecco, quando sono uscita. Ma è…». Fece una smorfia che le contrasse il viso. «Abbiamo dovuto sopprimere sei cani in un giorno solo. E ho pianto per una settimana intera». Si asciugò gli occhi con la benda sporca. «Sono proprio una sciocca».

«No, non è vero, Ruth». Alice lasciò che quella frase restasse tra loro per un po’. Poi riprese: «Hai visto i fuochi d’artificio, la scorsa settimana? Sono andata a Montgomery Park e ho assistito allo spettacolo dall’altra riva del fiume. È stato bellissimo, con tutte quelle luci azzurre e rosse e verdi, e la cascata d’oro che scendeva giù lungo il fianco della collina, dai bastioni del castello».

Dal piano di sotto venivano le note distorte di musica heavy metal diffusa da altoparlanti troppo miseri per sostenere un volume simile. Il pavimento vibrava.

Ruth tenne lo sguardo fisso sulla finestra. «Avrebbero dovuto lasciarmi morire».

Mi schiarii la voce. «Mi dispiace».

Lei mi guardò sbattendo le palpebre.

«Non ti ricordi di me? Sono Ash Henderson. Stavo inseguendo l’Inside Man nella stazione… c’era stato un incidente».

«Oh». Tornò a guardare fuori dalla finestra. «Sono stanca».

«Mi spiace che sia fuggito. Se… se fossi stato più forte, avrei potuto arrestarlo».

Un profondo sospiro le sfuggì dalle labbra. «Stavi sanguinando».

Questo non significava che non fosse stata comunque colpa mia.

Alice si piegò in avanti e le posò una mano sul ginocchio. «Sei stata molto coraggiosa, Ruth, e lo hai aiutato».

«Ero un’infermiera. Noi…». Aggrottò la fronte. «C’erano molte di noi, quel giorno, alla stazione, lì sulle cyclette, a raccogliere fondi per le vittime di quell’uragano. L’avevamo fatto per Laura».

Silenzio.

«Vorremmo farti qualche domanda su quello che ti è accaduto, Ruth, se per te va bene. Pensi di potercela fare?».

Lei si sollevò la felpa e la maglietta grigia che portava sotto, mostrando l’addome nudo. Una lunga cicatrice raggrinzita le spariva sotto il bordo dei jeans. Un’altra correva da sinistra a destra lungo l’orlo del reggiseno. «Ho sempre desiderato avere dei figli, da quando ero bambina. Due maschietti e una femminuccia. E saremmo andati in vacanza insieme, li avrei aiutati a fare i compiti, e saremmo stati la famiglia più felice del mondo… Era tutto ciò che volevo». Lasciò ricadere la felpa. «Ma ora non c’è più niente da fare. Avrebbero dovuto lasciarmi morire».

«Sai, c’è sempre una speranza. Ricordi Laura Strachan?». Alice cercò qualcosa nella borsa e ne trasse una copia del «Castle News and Post». Gliela tese. Era della settimana precedente: “MIRACOLO DI NATALE! VITTIMA DELL’INSIDE MAN INCINTA”. Glielo lasciò sulle ginocchia. «I medici avevano detto che non avrebbe mai potuto avere figli, e invece guardala: è incinta di otto mesi».

Ruth guardò la pagina per un paio di secondi, sbattendo le palpebre. Poi si sentì un lievissimo tonfo, come un minuscolo pugno, e una lacrima bagnò il giornale, in una piccola macchia grigia che si allargava sulle parole stampate. Poi ne cadde un’altra. Ruth tirò su con il naso. Raccolse il giornale e se lo strinse al petto, come se potesse assorbire quelle parole attraverso la felpa e la pelle segnata dalle cicatrici.

Alice posò di nuovo la mano sul ginocchio di Ruth. «Non hai più parlato con Laura dall’aggressione, vero?».

Lei scosse il capo, con le guance umide di lacrime e una striscia di muco sul labbro superiore.

«Be’, che ne diresti se provassi a farvi rincontrare? Ti piacerebbe? E poi potremmo prendere un appuntamento per te in una clinica per la procreazione assistita, e sentire cosa ti dicono…».

«Non posso crederci…». Ruth si passò una mano sulle labbra tremanti.

Alice tornò a cercare qualcosa nella borsa e tirò fuori un paio di fazzoletti, tendendoli alla donna. «Ora vorrei parlare di quello che è successo otto anni fa. Che ne dici?».

Lei prese i fazzoletti in una mano, l’altra che ancora stringeva il giornale, e se li passò sugli occhi. Poi annuì.

«Okay, basta che ti siedi comodamente sulla poltrona e ti rilassi. E…».

«Ma se non dovessi ricordare?»

«Be’, ho una tecnica che può aiutarti, se per te va bene che la usi. Posso?».

Ruth annuì di nuovo.

«Molto bene. Mettiti comoda e fai un profondo respiro. Riportaci a quel giorno». La voce di Alice si fece bassa e profonda, come nell’ala psichiatrica quella mattina. «Ricorda gli odori. I rumori. I suoni di quando ti sei svegliata quella mattina». Il tono sempre più basso e lento. «Sei distesa nel tuo letto, sei rilassata e al caldo e sei comoda e tranquilla, al sicuro, e niente può farti del male…».

…e poi mi ritrovo nell’angolo della stanza, a piangere mentre la portano via verso l’obitorio. Ha quarantanove anni, ma non c’è altro che tumori e pelle giallastra tesa sulle ossa sporgenti, in lei.

«Santo cielo, Ruth. Calmati, okay? Può succedere». Andrea si siede sui talloni davanti al comodino e lo svuota in una scatola di cartone. Un profumo, una scimmietta di peluche, un piccolo beauty case, una crema idratante da supermercato. La fine di una vita. «Mi dai una mano o no?».

E lo faccio. Senza dire una parola. Cercando di non singhiozzare, per non farla arrabbiare di nuovo. Poi togliamo le lenzuola dal letto e le federe dai cuscini, spruzziamo il materasso con il disinfettante e lo ripuliamo.

È la quarta donna che muore questa notte. Due malate di tumore, una in setticemia e una per una polmonite. Tutte esili e sole.

L’ascensore trema e sussulta, come se stesse piangendo, giù fino allo spogliatoio. Nomi e parole oscene sono graffiati sulle pareti d’acciaio.

È la fine del turno di notte, ma sono sola, adesso. Tutti gli altri se ne sono andati un minuto prima per ritrovarsi al Severed Leg di Logansferry, per festeggiare Janette che va in pensione. Una dozzina di vecchiacce dagli occhi infossati che butteranno giù cocktail fino alle cinque del mattino.

Ma a Janette non sono mai piaciuta, quindi eccomi qui. Da sola.

In alto, nel triangolo tra il complesso principale, il blocco amministrativo e il vecchio edificio vittoriano dove tengono i pazienti psichiatrici, il cielo è denso e di un viola scuro, come quando ti schiacci un’unghia in una porta.

Il parcheggio dei medici è pieno di BMW e Porsche, tutte coperte di un freddo strato di brina bianca che scintilla sotto il riflesso delle luci di sicurezza, ma l’entrata del parcheggio sotterraneo che fanno usare a noi è avvolta nell’oscurità. Nonostante quattro infermiere morte e due in cura intensiva, non ci hanno ancora messo delle luci. Solo un cartello a grosse lettere rosse: “ATTENZIONE: LE DONNE SOLE NON DEVONO ENTRARE NELL’AREA DEL PARCHEGGIO NON ACCOMPAGNATE”.

Perché questo di sicuro ci aiuterà.

Comunque, non ho da preoccuparmi. Oggi non sono venuta in macchina. Un bastardo me l’ha rubata nella notte di Capodanno e l’ha lasciata a bruciare in una piazzola vicino Camburn Woods. E adesso arrivare al supermercato aperto ventiquattr’ore è una vera seccatura, ma ho il frigo vuoto, a parte qualche Bacardi Breezer e delle olive. Quindi giro a sinistra, attraverso il cancello di sicurezza rotto, oltrepassando lo sguardo vitreo di una telecamera altrettanto rotta, i cui cavi pendono dalla carcassa annerita, e mi avvio su St Jasper’s Lane.

Metà dei lampioni è spenta. L’aria fredda sa di pepe e limoni.

L’asfalto mi scricchiola sotto ai piedi. Mucchietti di ghiaia disegnano motivi in rilievo sul marciapiede, sporco di ghiaccio. Mi infilo le mani in tasca.

Il respiro si condensa davanti a me, tirato via dal vento come un fantasma dalle mie labbra.

Attraverso la strada.

Dovrei prendere la strada più lunga: oltre la St Jasper’s, su per Cupar Road e giù fino alla fermata dell’autobus. Ma tagliare per Trembler’s Alley mi risparmierebbe un sacco di tempo.

Quando andavo a scuola – non avrò avuto più di sei o sette anni – ci raccontarono che il Conte di Montrose aveva intrappolato in quel vicolo il consiglio cittadino, bloccandolo nello stretto passaggio tra la parete di granito della chiesa e quella della farmacia. I suoi uomini li massacrarono come maiali e dipinsero le pareti con il loro sangue. Piantarono le loro teste sopra le porte della chiesa di St Jasper perché tutti le potessero vedere… ebbi incubi per mesi.

Io… loro… non hanno versato la ghiaia sulla pavimentazione del vicolo. Forse è troppo stretto per le macchine, o forse non se ne sono semplicemente preoccupati. È pieno di ghiaccio, scivoloso. Mucchietti di neve dura si sono formati in mezzo alla strada e bisogna girarci intorno, cercando di non cadere.

Ed è buio. Ci sono soltanto due lampioni per tutta la sua lunghezza, e non riescono a offrire che una luce pallida e fioca.

E… e sono a metà strada…

Vi prego…

«Va tutto bene, Ruth, sei al sicuro, ricordi? Sei nel tuo letto, al caldo e al sicuro. Così comoda e tranquilla e calda che niente di brutto potrà mai succederti. Perché sei al sicuro».

E c’è un rumore. Alle mie spalle. Un rumore scricchiolante. Come di passi.

Oh, Dio, qualcuno mi sta seguendo. C’è qualcuno, lì dietro.

Più veloce. Vattene da qui.

Oh Dio, oh Dio…

«Ruth, è tutto a posto. Prendi un respiro profondo. Noi siamo qui con te. Non può succederti nulla. Sei al sicuro e…».

È lui! È dietro di me e cerco di correre, ma l’asfalto è come vetro sotto ai miei piedi e scivolo, barcollo e cerco di restare dritta. Devo scappare, andarmene! SCAPPARE!

«Okay, Ruth, ora devi tornare tra noi. Va tutto bene, siamo qui, e tu sei…».

E l’asfalto mi viene incontro e mi colpisce con forza le ginocchia. Allungo un braccio, ma non riesco ad arrestare la caduta e sbatto la testa sul ghiaccio, e tutto inizia a sapere di metallo vecchio e carne, e inizio a piangere e non riesco a rialzarmi, e lui mi salta addosso, schiacciandomi nella neve, e sento qualcosa che mi viene premuto contro la bocca. Il suo respiro caldo nell’orecchio, acido come vomito. Una barba ispida mi preme contro la guancia. Mi afferra per la cintura, la slaccia… Le sue dita stringono la chiusura dei jeans. Li abbassano con violenza. Ansima.

Ti prego, no. No. Qualcuno mi aiuti!

AIUTO!

«Ash, dalle uno schiaffo. Non troppo forte! Solo un gentile…».

«Colpiscila tu. Io non…».

AIUTO!

Alice si alzò dal divano e colpì la guancia di Ruth con uno schiaffo, forte abbastanza da farle girare la testa di lato. Forte abbastanza da farla smettere di urlare. E abbastanza da lasciarle il segno arrossato delle dita sulla gota bagnata di lacrime.

Poi si lasciò cadere in ginocchio, stringendo Ruth in un abbraccio. «Va tutto bene, va tutto bene. Shhh… sei al sicuro. Siamo qui con te. Nessuno ti farà del male».

Le spalle di Ruth si scuotevano, vibrando a tempo con i suoi violenti singhiozzi.

«Va tutto bene, tutto bene…».

Arretrai, sentendomi bruciare la punta delle orecchie. Distolsi lo sguardo, portandolo alla finestra e alla strada di sotto. Alla Suzuki ammaccata di Alice. Al cane con tre zampe che zoppicava sul marciapiede davanti a uno skinhead in t-shirt. A un paio di gabbiani grossi come avvoltoi che strappavano la plastica nera di alcuni sacchi della spazzatura. Su fino alle guglie sanguigne della First National Celtic Church. Ovunque, ma non su Ruth.

Ovunque potessi guardare che non mi riportasse al dolore, alla sofferenza e alla mia maledetta colpa.

Un ronzio nella mia tasca, seguito un secondo più tardi da uno squillo acuto. Recuperai il telefono che mi era stato dato per le indagini. Premetti il pulsante verde. Deglutii. «Henderson».

La voce di Shifty crepitò dal ricevitore. «Ash? Porta subito il culo…».

«Aspetta un attimo». Posai la mano sul ricevitore. «Scusatemi. Devo rispondere». Sì, era un gesto di codardia, quello, ma almeno non me ne sarei rimasto lì a fissare il dolore di Ruth Laughlin…

Già, perché era colpa sua se non ero riuscito ad arrestare l’Inside Man. Colpa sua, se l’aveva assalita. Che maledetto stronzo, Ash. Ottimo lavoro.

Mi infilai nel corridoio.

Doveva essere l’una, perché le campane della chiesa lasciarono sentire un lento, potente rintocco. Profondo e cupo.

«Ash? Ci sei?»

«Hai trovato l’indirizzo di Laura Strachan?»

«Non importa dove sei adesso o cosa stai facendo… devi venire subito a… Un attimo…». La sua voce si fece bassa e soffocata. «Dove siamo?». Poi tornò a farsi sentire più alta. «Wishart Avenue. È dietro il…».

«Lo so dov’è. Perché devo venire lì?»

«L’Inside Man ha colpito ancora».