CAPITOLO 36
Alice spostò il peso da un piede all’altro, sbirciando verso la Jaguar. La sua voce era poco più di un sibilo appena udibile. «È morto?».
Tagliai un altro pezzo di fil di ferro nella recinzione a rete con le tronchesi. «Bevi il tè».
La pioggia picchiettava sul tessuto dell’ombrello. Le gocce catturavano i riflessi dei lampioni e scintillavano come fuochi d’artificio. Dall’altro lato del parcheggio, il Parson’s Bargain Cash-and-Carry se ne stava lì nell’ombra in tutta la sua gloria di metallo ondulato. Due delle lettere al neon dell’insegna lampeggiavano crepitando, agonizzanti, e altre tre stavano per fare la stessa fine. Due enormi carrelli erano abbandonati sull’asfalto bagnato, accanto al furgone dove avevamo comprato due tè, un Kit Kat e un wafer al caramello.
La recinzione era punteggiata di rifiuti, tra buste di plastica rotte, pacchetti di patatine, e fogli di giornale che raccontavano le loro storie su umide ali grigie.
Alice bevve un sorso dal bicchiere di polistirolo e fece una smorfia. «Sei sicuro che sia un…».
«Sicuro». Click. «E comunque non è morto, sta solo dormendo. Secondo Noel, il nostro amico Mr Manson resterà incosciente per almeno altre tre ore». E anche se si fosse svegliato prima, non sarebbe andato comunque da nessuna parte.
Click.
Era fatta.
Dovevo ammetterlo, era un lavoro fatto piuttosto bene: una via di fuga ora si apriva nella recinzione, grande abbastanza per farci passare una persona non non molto grossa. Bastava sistemarla, e sarebbe stata praticamente invisibile.
Un edificio rettangolare si sollevava dall’altra parte della recinzione, l’insegna visibile oltre il filo spinato posizionato in cima: “LUMLEY & SON – FABBRICA DI CANDELE DAL 1946”. Il cortile era vuoto, l’edificio arrugginito, con tutte le finestre al pianterreno sbarrate da assi di legno. Niente luci accese, soltanto sagome scure e ombre.
Alice si alzò sulla punta dei piedi e diede una sbirciata. «Non mi piace. Ha un aspetto inquietante».
«Sarà per questo che Mrs Kerrigan l’ha scelto. Un posto carino e d’atmosfera per consegnare il cadavere di un contabile della malavita». Recuperai un paio di buste di plastica e le agganciai alla recinzione, in mezzo al buco. Così da ricordare dove fosse.
Mi raddrizzai e aprii il portabagagli della Jaguar.
Paul Manson era sdraiato su un fianco, in un piccolo nido di incerata blu. Avevo usato un intero rotolo di nastro adesivo per bloccargli le caviglie, le ginocchia e i polsi dietro la schiena. Aveva la corda da bucato intorno alla gola, con l’estremità agganciata alle caviglie. Se si fosse dimenato, si sarebbe strangolato da solo.
Okay, il bavaglio era un rischio. Se avesse reagito male all’anestetico, sarebbe soffocato nel suo stesso vomito, ma… non avevo alternativa. Se non avesse voluto finire così, del resto, avrebbe dovuto evitare di mettersi a riciclare i soldi sporchi dei criminali.
L’incerata crepitò quando la scostai per riporre le tronchesi insieme al resto degli oggetti comprati al negozio di bricolage – tanto, Manson non ci sarebbe mai potuto arrivare – e presi il martello. Aveva un corto manico di legno e una testa pesante. Tozzo e robusto.
Perfetto per spaccare il cranio a qualcuno.
Richiusi il bagagliaio.
Poi aprii la borsa di Alice e vi infilai il martello. «Okay, ecco le regole. Numero uno: se qualcuno ti insegue, gli dai una martellata. Ma solo se dovesse raggiungerti, d’accordo? Nessuna aggressione e niente eccesso di difesa. Ti inseguono, tu corri».
«Ma…».
«Niente ma. Regola numero due: non ti fermare». Indicai il buco nella recinzione: «Esci da lì e continui a correre. Perché non appena sarai a cento metri da me, gli allarmi che abbiamo alle caviglie inizieranno a urlare, e la squadra SWAT di Jacobson arriverà sparando. Questo, direi, è il nostro paracadute d’emergenza».
Lei fece una smorfia e sussultò in avanti, come se un fantasma le avesse appena dato una pacca sul sedere. Poi tirò fuori il telefono dalla tasca sul retro dei pantaloni. Le vibrò in mano.
Il mio stava facendo lo stesso. Quando lo presi, le parole “DOWNLOAD AGGIORNAMENTO – 20% COMPLETO” lampeggiarono sullo schermo. Trenta per cento, quaranta per cento…
«Regola numero tre: Mrs Kerrigan è pericolosa. Ucciderà Shifty, te e me, senza il minimo rimorso. Non importa quello che dice o che promette. Non devi fidarti di lei. Scappa e basta».
Quando l’aggiornamento arrivò al cento per cento, il telefono trillò. Un messaggio di testo.
App per la cavigliera, foto ripulita (3). Sto ancora cercando una corrispondenza nel sistema.
Nessuna traccia del nostro nuovo amico nell’HOLMES.
Sì, non faceva che lamentarsi, ma Sabir era sempre il migliore.
«Regola numero quattro: Paul Manson è un bastardo. Si è arricchito con la droga, la prostituzione, la violenza, le rapine e gli omicidi. Non devi preoccuparti per lui e non devi sentirti in colpa. Mrs Kerrigan lo ucciderà comunque, che noi glielo consegniamo oppure no. È comunque già morto».
Controllai le foto che Sabir mi aveva inviato. Erano tre versioni differenti di quella che Liz Thornton mi aveva mandato quando le avevamo parlato quella mattina. Il Maniaco di Camburn, nel parcheggio fuori dagli alloggi delle infermiere. Sabir aveva eliminato la Fiat accanto all’uomo, zoomando sul suo volto.
Nella prima foto, algoritimi e stime ragionate avevano resi i lineamenti e il colore della pelle poco naturali: una fronte ampia, un naso a patata, borse sotto agli occhi, un mento lungo con una fossetta accentuata dalle ombre. Nella seconda l’immagine cambiava: le ombre sotto al berretto di lana erano state trasformate in un paio di grossi occhiali, il naso era più sottile e un po’ storto da un lato, come se si fosse rotto un paio di volte. La terza foto non prevedeva occhiali, ma aveva fatto diventare l’ombra che correva dalla punta del naso al mento un pizzetto con baffi sottili…
Tornai alla numero due. Poi alla tre. Poi di nuovo alla due. Le misi insieme e… un sorriso mi sollevò gli angoli delle labbra.
Alice si avvicinò e fissò il cellulare. «Che c’è?».
Il sorriso diventò un ghigno, e digitai una rapida risposta:
Sabir, nonostante quello che dicono di te, sei un GENIO, cazzo!
«Che succede? Cosa c’è di tanto divertente?».
Aprii la rubrica e chiamai Jacobson.
Lui rispose con un sospiro. «Se mi stai chiamando per dileguarti dalla riunione anche stasera, puoi…».
«Le va di arrestare qualcuno?».
Alice mi tirò la manica. «Chi stiamo arrestando?»
«Uno stalker aveva preso di mira Jessica McFee, e so di chi si tratta».
«Oh, davvero…?»
«Quindi possiamo starcene seduti a parlare dell’indagine, oppure possiamo alzare il culo e fare qualcosa per mandarla avanti». Zoppicai verso la Jaguar rubata. «Le sembra interessante?».
La voce del dottor Docherty si fece sentire dalla radio della macchina. «…domanda eccellente, Kirsty. Vedi, l’uomo che sta commettendo queste atrocità non si considera un angelo vendicatore, o la mano di Dio, ma agisce solo per rabbia e solitudine…».
Patterson Drive girava intorno alla base della collina. Al di sopra, i vecchi camminamenti delle mura si stagliavano contro il cielo scuro, rovine di pietra illuminate da faretti colorati. Gli edifici vittoriani di Castle Hill si aggrappavano ai bordi del crinale come bambini con gli occhi spalancati, troppo spaventati per saltare giù, intenti a fissare le case di arenaria sporca al di sotto.
Il lastricato fradicio della strada si sentiva sotto le ruote della Jaguar. I tergicristalli cigolavano creando archi bagnati attraverso la pioggia, come se commentassero in sottofondo l’intervista di Docherty.
«…certo. Ma vedi, Kirsty, una psicopatologia del genere è molto più comune di quanto non si pensi…».
«Okay». Toccai lo schermo dello smartphone, chiudendo la finestra di dialogo con le istruzioni. «Ecco come funziona: la app di Sabir usa il GPS dei nostri cellulari per farci sapere quanto siamo distanti. Se la luce è verde, siamo a meno di trentatré metri; se è gialla, fino a sessantasei; e poi c’è il rosso. Se diventa blu e lampeggia, gli sgherri di Jacobson probabilmente stanno già arrivando. Diciamo che possiamo considerarlo una specie di contatore Geiger». Sarebbe stato piacevole avere qualcosa che impedisse a quei maledetti allarmi di scattare, ma era meglio di niente.
«…devo ammettere che ho un certo grado di esperienza in questo campo, ed è per questo che posso affermare con certezza…».
Indicai attraverso il parabrezza un vicolo che si allontanava verso Kings Park. «Parcheggia lì».
«…un individuo seriamente compromesso. Ma se mi sta ascoltando, vorrei farle sapere che possiamo darle tutto l’aiuto possibile…».
Alice si morse un labbro e fece come le era stato chiesto, parcheggiando la macchina dietro a una fila di cassonetti municipali.
«…professionisti. Sono pronto a offrire anche la mia considerevole esperienza per aiutarla a…».
Spense il motore, interrompendo Docherty nel bel mezzo della sua filippica. «Forse dovremmo cambiare macchina. Che succederà se qualcuno…».
«Nessuno la vedrà». E con Paul Manson legato e sedato nel bagagliaio, non c’era nulla in vista che potesse incriminarci. Be’, a parte quel cofano ammaccato. Uscii sotto la pioggia e aspettai che Alice mi seguisse.
Lei chiuse la macchina e si avvicinò, prendendomi a braccetto e tenendomi sotto l’ombrello. Restò lì, a fissare il bagagliaio. «Sei sicuro che sia una buona idea lasciarlo lì? Voglio dire, e se dovesse…».
«Non andrà da nessuna parte. Tre ore, ricordi?». Avevamo abbastanza tempo per sistemare tutto. «Non appena finito qui, andremo a prendere la Suzuki, porteremo entrambe le macchine nel bosco di Moncuir e lasceremo la tua lì. In modo da avere la fuga garantita quando bruceremo la Jaguar».
La punta di gomma del bastone prese a battere ritmicamente contro il selciato, mentre procedevamo lungo Patterson Drive. I lampioni proiettavano macchie di un giallo fluorescente sulla pavimentazione bagnata.
Vicoli bui si aprivano sulla destra, tagliando attraverso l’isolato fino alla strada parallela. Puzzavano di immondizia marcia e pannolini sporchi. Un televisore tenuto ad alto volume strombazzava le ultime notizie. Dell’acqua gorgogliava dal fondo di una grondaia rotta.
Alice si schiarì la gola. «E se Mrs Kerrigan dovesse decidere di non restituirci David? Se lo trattiene e lo tortura e ci dice di fare altre cose orribili per lei?»
«Non permetterò che accada».
Con un piccolo aiuto da parte del mio amico Bob.
Oltrepassammo una finestra con le tende aperte. Una coppia di uomini di mezza età ballava un lento a lume di candela, stretti l’uno all’altro e avvolti dalla musica. Dall’appartamento vicino risuonava una canzone country. E la casa successiva…
Mi fermai. Indicai la porta. «È quella».
Una grossa Range Rover nera era parcheggiata sul marciapiede, con il motore acceso e il tubo di scappamento che esalava sbuffi grigi nella semioscurità. Non appena ci avvicinammo, lo sportello del guidatore si aprì e l’agente Cooper ci raggiunse. Aveva un giubbotto antiproiettile sopra ai soliti vestiti, con tanto di manganello, manette e radio. Il berretto d’ordinanza calcato sulle orecchie, con la pioggia che picchiava sulla plastica trasparente che ci aveva messo sopra.
Si infilò una giacca giallo fluorescente e mi rivolse un cenno di saluto. «Capo».
«Cosa ha detto Bad Bill?»
«Venerdì a pranzo era parcheggiato fuori dal castello. C’era una manifestazione di protesta contro il consiglio cittadino che vuole chiudere la Midmarch Library. C’era un sacco di gente, e i giornalisti e la TV. Dice che ha tirato su una fortuna».
Gli battei una pacca sulla spalla. «Ottimo lavoro».
Dal sorriso che gli comparve su quel viso magro, si sarebbe potuto pensare che avessi appena offerto un rene alla madre agonizzante. «Grazie, capo».
«Non appena avremo finito qui, voglio che tu vada alle redazioni dei telegiornali. Abbiamo bisogno dei filmati della manifestazione… e non solo quello che è andato in onda, ma anche gli spezzoni tagliati». Accennai con il pollice all’edificio alle nostre spalle. «Se siamo fortunati, l’amico, qui, è stato ripreso mentre comprava l’ultimo pasto di Claire Young».
Il sorriso si allargò. «Giusto, capo».
Un tonfo risuonò dall’altra parte dell’auto e comparve anche Jacobson, portandosi dietro un amico. Anzi, un’amica. L’agente Babs gli torreggiava accanto, le spalle dritte e un gran bel ghigno sul viso.
Si infilò un paio di guanti, facendo aderire a dovere la pelle negli spazi tra le dita. «Siamo pronti?»
«Pensavo fossi tornata a casa».
«Perdendomi tutto il divertimento? Nah». Diede una pacca sulla schiena a Jacobson, rischiando di farlo cadere in avanti. «Bear ha deciso di prolungare il mio contratto».
Lui si riprese, spazzando via qualche immaginario granello di polvere dal davanti della giacca di pelle. «Quando ho controllato la fedina penale di Mr Robertson, ho deciso che sarebbe stato meglio procedere con cautela».
Mi girai da una parte e dall’altra, dando un’occhiata alla strada. Naturalmente, “procedere con cautela” non significava chiedere rinforzi alla Ness.
Alice mi tirò di nuovo la manica, tenendo bassa la voce. «Chi è Mr Robertson?».
Cooper entrò per primo nell’ingresso dell’edificio. Una lampada era fissata al soffitto, con il paralume pieno di cadaveri di insetti. Una luce oleosa e fioca si espandeva sulle pareti scrostate e i gradini di cemento. Due sedie di legno rotte erano abbandonate in un angolo, insieme ai resti di una carrozzina senza più ruote. Cooper si raddrizzò il berretto e salì le scale, con Jacobson alle costole.
Rivolsi un cenno del capo a Babs. «Preferisci l’ingresso o il retro?»
«L’ingresso». Si strofinò le dita inguantate. E poi si accigliò. «No. Meglio il retro. Quando la gente scappa, lo fa da lì». Si girò e si allontanò lungo il corridoio, sparendo nell’oscurità.
Il tonfo di una porta che si chiudeva, e io e Alice ci ritrovammo di nuovo da soli. «Allora? Chi è Mr Robertson?»
«Per gli amici Alistair». La riportai verso la strada. «Per tutti gli altri, “Martello” Robertson».
«Ma è…?»
«Molto».
Lei sollevò l’ombrello e coprì entrambi. Appoggiai la punta del bastone alla porta d’ingresso per tenerla socchiusa.
Alice chiuse gli occhi. Poi buttò fuori un profondo sospiro.
«Va tutto bene. Presto sarà tutto finito». In un modo o nell’altro.
Mi strinse forte il braccio. «Non voglio morire. E se Mrs Kerrigan…».
«Non succederà. Regola numero uno, ricordi? Corri».
«Non voglio neanche che sia tu a morire».
«Allora siamo in due».
Il rumore di forti colpi su una porta riecheggiò nella tromba delle scale e oltre il portone aperto, seguito dalla voce di Cooper. «MR ROBERTSON! POLIZIA! APRA LA PORTA!».
Alice rabbrividì. Poi fece un profondo respiro. «Dunque, “Martello Robertson”… suona bene».
«AVANTI, MR ROBERTSON! VOGLIAMO SOLTANTO PARLARE».
«C’era una volta un bambino di nome Alistair Robertson, che era molto amato dalla sua mamma e dal suo papà. I quali amavano molto anche derubare gli uffici postali. E un giorno…».
«Questa storia finisce per caso con lui che picchia a morte qualcuno con un martello?»
«Oh, ma allora l’hai già sentita?»
«MR ROBERTSON? HO IL MANDATO PER ENTRARE CONTRO LA SUA VOLONTÀ, MR ROBERTSON. NON RENDA LE COSE PIÙ DIFFICILI DEL PREVISTO».
«Perché nelle tue storie non ci sono mai orsacchiotti e teneri coniglietti?».
Annuii. «Okay. C’era una volta un coniglietto di nome Alistair, e quando Mamma Coniglia e Papà Coniglio furono condannati a diciotto anni di carcere, lui e la sua sorellina furono affidati a una casa famiglia. Ma nella casa famiglia lavorava un orsacchiotto molto cattivo, a cui piaceva dare fastidio alle piccole conigliette…».
Un tonfo risuonò dal piano di sopra. E poi un altro rumore. E poi delle imprecazioni e un urlo acuto. Poi altre imprecazioni.
Non sembrava affatto che Martello Robertson volesse essere d’aiuto a Cooper con le indagini.
«Okay». Posai una mano sulla schiena di Alice e la spinsi delicatamente verso la strada. «Credo che dovresti andare a metterti dietro alla macchina, adesso».
Lei strinse le mani intorno al manico dell’ombrello. «Ma…».
Qualcuno ruggì, poi si sentì un tonfo sordo. Un rumore di qualcosa che si rompeva. E poi schegge di balaustra volarono giù dalla scala.
«E direi che dovresti farlo subito».
Dei passi sulle scale. In discesa, pesanti. Sempre più vicini.
Alice arretrò verso la Range Rover di Jacobson.
La porta d’ingresso si aprì, e lui comparve: Martello Robertson. Si bloccò sulla soglia. La maglia bianca che indossava era strappata all’altezza del collo. Macchie rossastre sporcavano il tessuto sul petto. Aveva perso parecchi capelli, dall’ultima volta che l’avevo visto, e quelli che restavano erano ingrigiti e tagliati corti. Gli algoritmi di Sabir avevano fatto un buon lavoro, ma si erano sbagliati riguardo a quella specie di pizzetto con baffi che gli attraversava verticalmente il volto. Non si trattava di quello, ma di una profonda cicatrice che, partendo da sotto le narici, gli spaccava le labbra e il mento, proseguendo giù verso la gola di una decina di centimetri. Portava un paio di occhiali alla Eric Morecamble, al momento parecchio storti.
Serrai le mani a pugno, mentre gli sorridevo. «Buonasera, Alistair. Ti ricordi di me?»
«Oh… cazzo». Chiuse la porta di scatto, o almeno ci provò. Il battente colpì la punta del mio bastone e rimbalzò indietro, riaprendosi, mentre lui si voltava e correva verso la porta sul retro. Svanì nella notte umida.
Contai fino a dieci. E poi aggiunsi altri dieci secondi per buona misura.
Alice trascinò i piedi fino a me. «Non lo insegui?»
«Non ce n’è bisogno. Ma se vuoi…». Zoppicai oltre l’ingresso, superando il cumulo di sedie rotte e balaustrate distrutte prima di entrare nel giardino posteriore.
Ciuffi d’erba incolta riempivano lo stretto spazio tra quella fila di appartamenti e quella successiva, giallastri sotto le luci che provenivano da dietro le tende tirate alle finestre. Uno steccato di legno delimitava un’area non molto più grande di tre posti auto, un capanno cadente in un angolo e un paio di pali per stendere i panni a fare da sentinella, con le corde che pendevano sotto il peso degli asciugamani bagnati e gocciolanti di pioggia.
Martello Robertson era prono nell’erba con il braccio destro piegato dietro la schiena, scalciava e urlava. L’agente Babs gli aveva piantato un ginocchio tra le scapole e, mentre lui ancora si dibatteva, si piegò in avanti fino a farlo grugnire di dolore e smettere.
Lei alzò lo sguardo e ci sorrise. «Quanto mi piace Oldcastle».
Jacobson era seduto sulla poltrona, una confezione di piselli surgelati premuta contro la guancia destra. Cooper era appollaiato sul bracciolo del divano, una scatola di bastoncini di pesce piantata su un lato della testa e una pallottola di carta igienica nelle narici.
Martello Robertson era davanti a una stufetta elettrica, e muoveva la spalla destra in piccoli cerchi. Era ammanettato con le mani dietro la schiena. Accennò al corridoio. «Pagherete, per questo».
Jacobson lo fulminò con lo sguardo. «È forse una minaccia, quella che sento, Mr Robertson?»
«No, è un dato di fatto. Mi dovete le riparazioni della porta».
«Le è stato dato un ampio preavviso, prima che la buttassimo giù».
«Ero al cesso, dannazione! E mi avreste sentito urlare, se non fosse stato per quell’idiota del suo agente che ha fatto tutto quel casino».
Il soggiorno sfoggiava una carta da parati a strisce, un tappeto con un disegno a spirale e, sulle pareti ai due lati del caminetto, delle stampe artistiche in bianco e nero di gente in bicicletta. In un angolo, accanto a una libreria piena di malandati volumi in edizione economica, c’era una vecchia scrivania con un pianale ribaltabile che si aprì quando la rovesciai, rivelando due serie di piccoli cassetti ai lati e una piccola libreria al centro.
Robertson mi guardò mostrandomi i denti. «Vediamo il tuo mandato».
«Non ne ho bisogno». Presi una manciata di carte. Le controllai: bollette del telefono, del gas e della luce. Parecchie di ciascuna, con nomi e indirizzi diversi sulle buste.
«Conosco i miei diritti e…».
«Peccato, perché io non sono un agente di polizia». Lasciai cadere le bollette e provai ad aprire uno dei cassettini. «I civili non hanno bisogno di un mandato, per fare i bastardi ficcanaso».
Quello più in alto conteneva un mucchio di graffette, elastici, una scatola di punti per spillatrice e una spillatrice.
Lui guardò Jacobson, accigliandosi. «Lascerà che invada la mia privacy in questo modo?».
Jacobson si staccò dalla guancia la confezione di piselli surgelati e ricambiò lo sguardo. «Dov’era domenica sera, quando Jessica McFee è stata rapita?».
«Chi cazzo è Jessica McFee? Mai sentita».
Indicai il cestino della carta straccia accanto alla scrivania. C’era dentro una copia del «Castle News and Post». «Strano, perché è su tutti i giornali. E…». Presi una bolletta dal mucchio sulla scrivania e la sventolai verso di lui. «E, guarda caso, hai una bolletta del cellulare di Jessica McFee sulla scrivania. Non ti sembra una bizzarra coincidenza?».
Lui sporse le labbra, accigliandosi. Poi sollevò il mento sfregiato. «Non dirò più una sola parola, senza il mio avvocato».