CAPITOLO 23

Arretrai, tenendo la porta aperta. «Fate con comodo».

La detective sulla soglia ripose il distintivo nella grossa borsa che portava a tracolla. La Nenova mi arrivava appena alla spalla, e l’espressione accigliata che aveva sul viso le disegnava zampe di gallina intorno agli occhi. Pantaloni e giubbotto di jeans, e una t-shirt monocromatica a stampa animalier. Dal vivo, la sua voce era ancora più dura. «Se tardiamo di più di dieci minuti, si può tenere gratis il pedofilo». Si guardò alle spalle. «Billy, muovi il culo».

Entrò in casa, al riparo dalla pioggia. Abbassò la voce a un sussurro. «Che resti tra noi, ma il video…?»

«Un bambino biondo, di quattro o cinque anni».

«Oh, Dio». Un’espressione addolorata le contrasse il volto. «Non l’avrà mica… Insomma, mi ha capito»

«Pensavo che foste voi a doverla controllare».

«Sì, e lo stiamo facendo. Lo stavamo facendo». Si strinse nelle spalle. «Ehi, non mi guardi così: lo sa come vanno queste cose. Abbiamo più persone da controllare a testa di chiunque altro nel paese. Non possiamo tenerli sotto controllo tutti ventiquattr’ore su ventiquattro. Non abbiamo né le risorse, né il budget per poterlo fare. Facciamo il possibile».

Un omino basso e magro si affrettò a seguirla sul vialetto. Si fermò proprio sulla soglia. «Fammi passare, Julia, qui fuori sta diluviando».

La Nenova si spostò e l’uomo si infilò nel corridoio. Poi mi tese la mano. «Billy McKevitt, dell’OMU. Grazie per averci chiamato, Mr…?»

Julia gli mollò una spinta. «È Ash Henderson. Ricordi? Era un ispettore, prima che lo degradassero a detective per quella storia di Chakrabarti? Sua figlia è stata rapita da quel…». Si zittì di colpo e si umettò le labbra. «Ah. Mi scusi. Insomma, quello che volevo dire è: è uno di noi».

«Ah, okay». McKevitt annuì. «Dunque, cosa abbiamo?».

Tesi la telecamera alla Nenova e lei la rigirò tra le mani. Aprì lo schermo e cercò il pulsante di riproduzione. «Non ha toccato il nastro o altro, vero? Dovrebbe essere pieno delle sue impronte digitali…». Tornò ad accigliarsi. «Le ha detto dove ha incontrato il bambino? O… Ah, eccolo». Il piccolo schermo si illuminò, gli altoparlanti della telecamera coperti dal palmo della mano di lei. Gemiti. Mugolii. Una serie di singhiozzi acuti.

La Nenova impallidì di colpo. Serrò le labbra in una linea sottile e severa e le spalle le si incurvarono. «Figlia di puttana».

Tese la telecamera a McKevitt. «Cosa?». Anche lui impallidì. Poi premette un pulsante, rimandando indietro la registrazione. Restò in silenzio per quasi un minuto. «Ci sono almeno tre bambini, lì dentro». Chiuse la porta di botto. I pochi frammenti di vetro ancora attaccati al tassello piombarono sul pavimento. «Dannazione! Due anni a controllarla, e possiamo buttarli al cesso!».

La Nenova si strinse la borsa al fianco. «Dov’è?»

«In cucina».

«Okay». Alzò il mento, raddrizzando le spalle e marciando lungo il corridoio. «Virginia Cunningham, a che cazzo di gioco pensi di star giocando, eh?».

La seguii in cucina, con McKevitt alle calcagna.

La Cunningham era ancora seduta al bancone, il cui pianale era sparso di incarti di cioccolata e vasetti di yogurt vuoti. Una mezza bottiglia di Gordon’s era sul punto di essere scolata del tutto. Ne bevve un altro sorso. «Voglio il mio avvocato». Indicò con rabbia dapprima me, poi Alice e infine Babs. «Questi bastardi hanno finto di essere agenti di polizia e si sono introdotti con la forza in casa mia. Mi hanno aggredito, hanno perquisito illegalmente l’appartamento e mi hanno trattenuta contro la mia volontà».

La Nenova mi guardò inarcando un sopracciglio.

«Non ricordo proprio che sia andata così. Quando siamo arrivati, Mrs Cunningham sembrava molto scossa. Preoccupati per la sua sicurezza, ci siamo accertati che entrasse in casa affinché non restasse sotto la pioggia e l’abbiamo incoraggiata a indossare abiti asciutti. Per puro caso, ci siamo accorti della telecamera accesa in salotto, che riproduceva un filmato pedopornografico. A quel punto, l’ho fermata come era mio dovere di cittadino e vi ho contattato».

La Cunningham spalancò la bocca. «Non vorrete mica credere a tutte queste stronzate, vero? Mi ha detto di essere un poliziotto. Con tanto di distintivo e tutto!».

«Mrs Cunningham si sbaglia. Forse mi ha sentito parlare con la mia amica, qui, l’agente Crawford». Accennai a Babs. «E probabilmente ha pensato che fosse una poliziotta».

Babs sorrise ampiamente. «In realtà lavoro come agente penitenziario. Deve essersi sbagliata».

«Stanno mentendo!».

La Nova posò la telecamera sul bancone, con lo schermo acceso e il video che andava avanti.

«Avanti, tesoro, fallo per mammina…».

La Cunningham distolse lo sguardo.

«Come pensavo». La detective chiuse lo schermo della telecamera e la spense. «Virginia Cunningham, la dichiaro in arresto per il possesso di materiale pedopornografico…».

Creai un oblò nel finestrino appannato della Suzuki. «Sì, la stanno portando via in questo momento».

McKevitt uscì dall’abitazione della Cunningham, spense le luci, richiuse la porta d’ingresso e poi curvò le spalle e corse sotto la pioggia fino alla Vauxhall in borghese parcheggiata fuori. Non appena si sistemò sul sedile posteriore accanto alla donna, la detective Nenova uscì dalla macchina, incurante dell’acquazzone. Attraversò la strada e ci raggiunse, bussando contro il finestrino.

Lo abbassai. Trattenni il cellulare contro il petto, per coprire il ricevitore. «Qualcosa non va?».

Lei appoggiò un braccio sul tettuccio dell’auto e fece capolino all’interno. «Erano tutte stronzate, vero? Avete finto di essere poliziotti, siete entrati con la forza e avete perquisito la casa senza un mandato».

«Noi?». Tirai fuori la mia migliore faccia da innocente convinto. «No, è successo tutto esattamente come l’ho raccontato, non è così Babs? Alice?».

Alice alzò lo sguardo da un’altra delle lettere dell’Inside Man, con un evidenziatore giallo che le spuntava da un angolo della bocca come un sigaro al neon. «Oh, sì, assolutamente, cioè, perché mai avremmo dovuto mentire?».

Babs sogghignò. «Proprio così».

«Vede, detective? Siamo tutti dalla stessa parte, qui».

La Nenova tirò su con il naso. Poi guardò verso la Vauxhall. «Assicuratevi di mantenere sempre questa versione dei fatti, okay? E lei smetta di dire in giro che è un agente di polizia. È una cosa illegale».

La pioggia picchiava sul tetto dell’auto, così forte da superare quasi il ronzio delle ventole del riscaldamento accese al massimo.

«D’accordo». La donna si raddrizzò. Tese una mano all’interno per farsela stringere. «Grazie. Perlomeno, adesso possiamo fare in modo che venga sbattuta di nuovo dove merita». Poi girò i tacchi e tornò verso la sua macchina.

I fari della Vauxhall si accesero, mentre si staccava dal marciapiede, con la Cunningham che ci fissava con astio dal sedile posteriore. Tornai al telefono. «Sentito?».

Dall’altro lato della linea, Jacobson sembrò masticare qualcosa. «Che ti sei spacciato per un agente di polizia? No, non ho sentito niente».

«Secondo la Cunningham, l’ospedale le ha dato Jessica McFee come ostetrica. Lei ha ricevuto una telefonata in cui qualcuno le ha posto domande su Jessica, dalla stessa cabina presso la quale è stato ritrovato il corpo di Claire Young tre giorni dopo».

«E…?»

«Forse Virginia Cunningham non è stata l’unica a essere chiamata. Faccia avere a Sabir una lista di tutte le pazienti di cui Jessica McFee si occupava. E dica a Cooper di contattarle e scoprire se hanno ricevuto delle telefonate. Faccia lo stesso con i genitori dei pazienti di Claire Young. Alice ritiene che l’Inside Man cerchi di scoprire se potrebbero essere brave con i bambini… delle brave madri».

Ci fu una pausa.

Alice si girò sul sedile. «Digli che andiamo a riaccompagnare Barbara alla stazione».

Accanto a lei, Babs scosse la testa. «Oh, no, non c’è problema. Mi aspetta una notte in hotel, insieme a una busta piena di contanti. E penso che mi godrò anche una bella cena».

«Jacobson, è ancora lì?»

«Ora, vorresti spiegarmi esattamente perché non ti sei preoccupato di dirmi cosa stavate facendo?»

«Vuole che le offra problemi oppure soluzioni?»

«Cos’è, te le insegnano in prigione queste cazzate?»

«Ecco una bella domanda per lei: come ha fatto l’Inside Man a sapere che Jessica McFee era l’ostetrica della Cunningham? Da dove ha preso il suo numero di telefono?».

Ci fu una pausa. «Ah…».

«Claire Young lavorava nel reparto pediatrico. Jessica McFee in ostetricia. Vogliamo unire i puntini?».

«È questo?». Babs restò immobile sul marciapiede, con la sacca in mano, osservando la facciata del Travelodge su Greenwood Street. «Sul serio?».

Mi strinsi nelle spalle. «Non guardare me. Non ho fatto io la prenotazione».

«Doveva essere una roba di lusso…».

Alle nostre spalle, il borbottio dei diesel dei taxi si mischiava agli annunci che avvertivano di non lasciare i bagagli incustoditi, oppure sarebbero stati portati via e distrutti. E al rumore ritmico di un treno che lasciava la stazione.

«Se hai fame, fanno un discreto fritto misto».

Lei si mise la sacca in spalla. «Bastardi poliziotti spilorci…». Poi attraversò la porta automatica. «Spero almeno che sia una matrimoniale».

Rientrai in macchina, presi il telefono e chiamai Shifty. «Hai le informazioni che avevo chiesto?»

«Ma è vero che hai fatto una perquisizione illegale in casa di quella pedofila?»

«Non c’è bisogno di un mandato, se sei un privato cittadino, Shifty. Questa storia non verrà tirata fuori in tribunale».

«Senti, c’è un tizio che mi deve un paio di favori. Lo vedo tra un’ora per sapere che tipo di sicurezza ha Colei che Non Deve Essere Nominata. Scommetto su grossi cani e filo spinato. Tu che ne dici?».

Bob Aggiustatutto mi sorrise dal sedile posteriore, con la sua chiave inglese gialla in mano. «Possiamo aggiustarlo».

«L’unico problema è che stanotte non si può fare. Il mio amico ha detto che è a Edimburgo per non so che evento di beneficenza. E non tornerà fino a domani».

Dannazione…

Ma non c’era niente che potessimo farci. Se non c’era, non c’era. «Okay, comunque ne ho abbastanza di grossi cani da guardia, per oggi».

Alice mi tirò la manica. «Lo prende lui il curry, oppure dobbiamo prenderlo noi mentre torniamo a casa?»

«Non torniamo subito a casa». E poi, rivolto al telefono: «Abbiamo un paio di cose da fare. Tu mettiti comodo, intanto. E, Shifty…».

«Cosa?»

«Che sia un curry decente, okay? Vai al Punjabi Castle, non in una topaia qualsiasi».

Erano già passate le otto, quando raggiungemmo Camburn View Crescent. La strada residenziale si incurvava intorno a noi come un ciclone di mattoni: case tutte uguali, con giardini tutti uguali e 4x4 tutte uguali sui vialetti tutti uguali, illuminate da lampioni tutti uguali che trasformavano la pioggia in scintillanti gocce d’ambra. Gli alberi di Camburn Woods erano sagome scure e fitte dietro alle case. Nubi solide di un nero opaco, imponenti nel buio.

Ruth si piegò in avanti, sul sedile del passeggero, guardando fuori dal parabrezza e oltre il movimento dei tergicristalli. «Non ce la faccio…».

Alice le sorrise. «Immaginati in piedi sotto al sole, come abbiamo già fatto. Senti il suo calore che ti entra dentro fino alle ossa. Sei tranquilla. Calma. Rilassata».

Ruth si agitò sul sedile, con le dita che tremavano sul cruscotto di plastica nera. «Forse dovremmo tornare a casa e basta…».

Le posai una mano sulla spalla e lei sobbalzò. «Andrà tutto bene. Eravate amiche, ricordi?»

«È solo che… non so più niente di lei…».

«Te la caverai benissimo. Sei tranquilla. Calma. Rilassata». Alice uscì dalla macchina. Poi, dopo un attimo, lo fece anche Ruth, lasciandomi sul retro a lottare con il sedile ribaltabile.

Finalmente trovai la levetta e lo rovesciai in avanti, uscendo a mia volta in strada. L’odore di fumo di legna e zolfo si avvertiva nell’aria umida, insieme a qualcosa che somigliava a muffa. Terreno bagnato e foglie morte.

La pioggia mi bagnò i capelli, fredda e umida, scivolandomi a rivoli sulla nuca.

Ruth si tenne accanto ad Alice, per poi cercarne la mano. Tenendola stretta come avrebbe fatto una bambina nel timore di perdersi.

«Tranquilla. Calma. Rilassata».

«Okay…».

Le seguii sul vialetto, oltre la tozza Mini parcheggiata sul lastricato, fino alla porta d’ingresso. Premetti il pulsante del campanello.

Nessuna risposta. Ci riprovai.

Ruth si agitò, il respiro che le si condensava in una pallida nuvola grigia davanti al volto. «Forse ha cambiato idea e non vuole più vederci…».

«Fidati di me». Ancora un tentativo.

Finalmente, nella porta si aprì uno spiraglio di qualche centimetro, e un uomo sbirciò fuori. Corti capelli di un castano ramato, guance rotonde, sopracciglia chiare sopra un paio d’occhi nervosi. Guardò Alice da capo a piedi, come se stesse cercando di memorizzarne le fattezze. «Lei è…?». Poi spostò gli occhi su Ruth. E la fissò a bocca aperta.

«Si ricorda di miss Laughlin?». La indicai. «Era la coinquilina di Laura».

Lui strinse gli occhi. «Santo cielo… Ruth?».

Quello che voleva probabilmente essere un sorriso tremò sulle labbra di lei. «Ciao, Christopher».

«Dio santo…». Lui sbatté le palpebre un paio di volte. Poi spalancò la porta e uscì sotto la pioggia per abbracciarla.

Lei restò con le braccia lungo i fianchi.

«Come stai? Dio, sono passati tanti anni». Sbatté ancora le palpebre. «Sei… oh, per favore, entra. Dio mio, scusami, farti restare qui fuori sotto la pioggia. Noi… sono certo che Laura sarà felicissima di rivederti».

La accompagnò all’interno, poi si scostò per far entrare Alice e richiuse la porta dietro di me. «Mi spiace, ma dobbiamo sempre stare all’erta». Si strinse nelle spalle. «I giornalisti. Scusatemi…». Ci oltrepassò tutti. «Potete aspettarmi qui un minuto? Devo assicurarmi che Laura sia a posto. Sapete, è un po’… insomma, la gravidanza». Si allontanò in tutta fretta lungo il corridoio, entrando in quella che sembrava la cucina e richiudendosi la porta alle spalle.

Ruth si agitò di nuovo. «E se ci butta fuori? Se non vuole assolutamente…».

«Ricordati il calore del sole sul viso. Tranquilla. Calma. Rilassata».

Silenzio.

L’ingresso era anonimo, con semplici pareti color panna e un pavimento in laminato, e un singolo quadro appeso al muro che ritraeva un paesaggio. Sembrava quasi una stanza d’albergo.

La porta della cucina si riaprì. «Venite, venite pure… ho messo su un tè».

Christopher si scostò dall’ingresso e Ruth entrò cautamente nella stanza. Aspettammo qualche secondo e la seguimmo.

Una donna al termine della gravidanza era in piedi vicino al lavello, intenta a pelare delle patate. I riccioli rossi legati in una scomposta coda di cavallo che le arrivava a metà della schiena. Laura Strachan si guardò alle spalle. Non sorrise. «Quei maledetti giornalisti ci stanno dando il tormento da quando quel figlio di puttana è riuscito ad appropriarsi della mia cartella clinica. A che diavolo è servito Leveson? Dimmelo un po’». Gettò una patata pelata in una pentola, e uno schizzo d’acqua finì sul pianale della cucina. «Non possiamo neanche più starcene a casa, è un continuo assedio: telecamere, microfoni e paparazzi ovunque».

Christopher aprì un armadietto e ne tirò fuori delle tazze. «Be’, potremmo sempre accettare l’offerta di “Hello!” per…».

Il viso di Laura Strachan si incupì. «Non voglio più parlarne».

«Dico solo che non sarebbe male pensarci. Prima o poi qualcuno ci troverà, e le foto finiranno comunque su tutti i giornali. Perlomeno, in questo modo avremmo un minimo di controllo sulla faccenda».

Ruth sembrava due volte più piccola di quanto non lo fosse sembrata in macchina, le spalle curve, rattrappita su se stessa e con le mani strette al petto. «Laura, io…». Si guardò la punta dei piedi. «Mi dispiace tanto».

Un’altra patata venne lanciata nella pentola. «Volevo venirti a trovare in ospedale, ma mi hanno detto che non potevi ricevere visite. Hanno detto che hai cercato di suicidarti nel bagno. E che eri impazzita».

Ruth boccheggiò per un attimo. «Io… questo…».

Alice le posò una mano sul braccio. «Ciascuno affronta lo stress a modo suo».

Lei distolse lo sguardo. «Lo sapevo, è stato uno sbaglio. Mi dispiace, sarà meglio andare, adesso».

«Tesoro, Dio mio, avanti». Christopher accarezzò le spalle della moglie. «Scommetto che per Ruth non è stato facile venire fin qui, dopo tutto quello che ha passato. Non essere…». Si schiarì la gola. Si girò e aprì il frigorifero. «Chi vuole del latte nel tè?».

«Che cosa sono? Una stronza? Una puttana? Dài, Christopher, dimmi che cosa sono».

Ruth si passò il palmo di una mano sugli occhi. «Non sarei dovuta venire».

Mossi un passo avanti. «Questa visita era importante per Ruth. Pensava che tu fossi sua amica».

Laura mi guardò con rabbia. «Ha cercato di ammazzarsi e lasciarmi sola! Ha forse la minima idea di cosa significhi?».

Mi limitai a sostenere il suo sguardo.

Lei lasciò cadere il pelapatate nel lavello, si girò e sollevò la camicia, esponendo il ventre prominente. «Guardatemi!».

Quanto poteva mancarle, forse sei settimane? Era enorme.

Una lunga cicatrice raggrinzita partiva da circa un palmo sotto al bordo del reggiseno grigio fino a sparire sotto all’elastico dei pantaloni. Una cicatrice più breve la attraversava ad angolo retto, a un terzo circa della lunghezza: linee di un rosa acceso, tese al massimo dal bambino che le cresceva dentro.

Il bollitore fischiò, per poi mettersi a borbottare nel silenzio della stanza.

Poi Ruth si sbottonò la giacca imbottita. E si tirò su la felpa e la maglietta blu che portava sotto, mostrando la stessa cicatrice cruciforme.

Le due donne annuirono, poi abbassarono i vestiti, unite da un legame invisibile: entrambe facevano parte di un esclusivo quanto orribile club.

Laura raccolse il pelapatate. «Christopher, accompagna gli altri in salotto. Io e Ruth dobbiamo parlare».