CAPITOLO 13
Alice si guardò alle spalle mentre mi accostavo al marciapiede su Slater Crescent. «Sei sicura che sia un bene lasciare Huntly lì? Voglio dire, che succederà se farà innervosire tutti i…».
«È un uomo adulto». E poi, un pugno sul naso da parte di uno dei tecnici della scientifica gli avrebbe fatto abbassare un po’ la cresta. Con un minimo di fortuna.
La Suzuki ondeggiò e sobbalzò quando il piede destro mi scivolò sull’acceleratore. Maledetto idiota. Oh, no, stavolta guido io. Era passato troppo tempo. Avevo bisogno di pratica…
Anzi, più probabilmente avevo bisogno che qualcuno controllasse la mia testa del cazzo.
A denti stretti, spinsi il piede dolorante sul freno. Lasciai che la macchina di Alice si fermasse sul marciapiede. Spensi il motore. Mi piegai in avanti e premetti la fronte contro il volante, buttando fuori il fiato in un sibilo.
«Ash? Tutto okay?»
«Sì. Tutto a posto. Mai stato meglio». Dio, se faceva male. «È solo… passato un po’ troppo tempo».
Mi raddrizzai, recuperai una scatola di compresse di paracetamolo dalla tasca della giacca e ne ingoiai tre a secco. Inspirai profondamente un paio di volte. Poi aprii lo sportello. «Ci metterò pochissimo».
Lei mi fissò. «Ed è un tuo vecchio amico».
«Andrà tutto bene». Recuperai il bastone e uscii faticosamente dall’auto. Richiusi lo sportello.
Slater Crescent si allontanava curvando giù per Blackwall Hill, con una vista piacevole sulla vallata del Wynd. Laggiù, gli edifici di arenaria erano disposti come soldati in parata. Case dall’aspetto costoso che circondavano piccoli parchi privati. Pittoresche e dall’aria antica sotto al pesante cielo grigio.
E molto più belle del labirinto anni Settanta di vicoli ciechi che ci circondava. Blackwall Hill: un nido contorto di casette di cemento grigio e tegole di terracotta. Giardini gelosamente custoditi dietro bastioni di siepi di cipresso. Cancelli di ferro battuto alti al ginocchio con targhe inchiodate sopra: “DUNROAMIN”, “LINDISFARNE”, “SUNNYSIDE” e una mezza dozzina di variazioni sul tema “ROSA”, “FORESTA” e “VISTA”.
Al numero tredici, l’indirizzo che avevo ottenuto dal misterioso Alec, c’era un arco di caprifoglio che si arrampicava su un piccolo e stupido cancello, come filo spinato di un beige sbiadito. Il nome sulla targa era “VAJRASANA”, in lettere d’oro. La ghiaia creava un contorto sentiero tra cespugli e fiori appassiti, le infruttescenze pesanti che penzolavano da entrambi i lati. Un Buddha di cemento se ne stava a lato del vialetto, la pelle grigia macchiata di licheni.
Una bambina era in ginocchio davanti alla statua, intenta a giocare con un piccolo camion giallo, con cui recuperava la ghiaia e la depositava ai piedi del Buddha. Faceva dei suoni acuti con la bocca ogni volta che rimetteva al suo posto il piano ribaltabile del camion per approntare un altro carico.
Aprii il cancello cigolante e zoppicai all’interno, richiudendolo con il bastone. Feci un sorriso tirato. «Ciao, il tuo papà è in casa?».
La bambina saltò in piedi, stringendosi al petto il camion. Non poteva avere più di cinque o sei anni, ma aveva un singolo sopracciglio folto e scuro che le si allungava sul visetto rotondo. Sorrise, mostrando un buco dove sarebbero dovuti essere i due incisivi inferiori. «Fì».
«Puoi fare una corsa a chiamarlo per me?».
La piccola annuì. «Ma tu dovrai dare un’occhiata alla mia tigre». Indicò un tratto d’erba vuoto, prima di abbassare la voce a un sussurro. «I clown la fpaventano tanto».
«Okay, se dovesse arrivare qualche clown, la proteggerò io».
«Promeffo?»
«Certo».
«Okay». Poi fece un gesto che somigliava a una carezza, a mezz’aria. «Tu fai il bravo, Tigrotto, e non mangiare quefto fignore». A quel punto corse via, dirigendosi verso la porta di casa, che varcò poco dopo.
Avanzai zoppicando, appoggiandomi alla testa del Buddha di cemento.
La piccola tornò un paio di minuti dopo, trascinandosi dietro per mano un ometto di mezza età: basso e tarchiato, con la riga in mezzo, con un paio di pantaloni casual e un cardigan. Recuperò gli occhiali dalla tasca e li inforcò. Mi osservò sbattendo le palpebre. Poi sorrise raggiante. «Ah, deve essere Mr Smith. Che piacere conoscerla, Mr Smith». Si rivolse alla bambina. «Tesoro, perché non fai fare una passeggiata sul retro a Tigrotto, così posso parlare con questo signore?».
Lei lo fissò, seria seria. «Ci fono dei clown?»
«Sono scappati tutti via, quando hanno saputo che Mr Smith stava venendo a trovarci».
La piccola annuì, poi allungò un braccio nell’aria e finse di sospingere qualcuno verso il lato della casa. «Vieni, Tigrotto…».
L’uomo la guardò allontanarsi, piegando la testa di lato, con un ampio sorriso sul volto. Poi sospirò e tornò a rivolgersi a me. «Allora, Mr Smith. Alec mi ha detto che ha bisogno di una guida spirituale, giusto?»
«Dov’è Alec?».
L’uomo si portò una mano al petto e si inchinò lievemente. «Quest’uomo ha il discutibile onore di essere Alec».
«Okay…». Shifty aveva ragione, quell’uomo era pazzo. «In tal caso: semiautomatica, pulita, con almeno tredici proiettili nel caricatore, e una scatola di riserva. A punta cava, se ne hai».
«Uhm, un bel po’ di illuminazione spirituale…». Mi si avvicinò, accanto alla statua del Buddha, appoggiandovisi anche lui. «Mi dica, Mr Smith, ha considerato davvero le conseguenze delle sue azioni, oggi? Perché il karma ci guarda, e non è mai troppo tardi per cambiare strada».
«Ce l’hai o no?».
Lui si portò entrambe le mani al petto, questa volta, con le dita allargate. «Prenda l’esempio di Alec. Aver accolto il Buddha nella sua vita gli ha cambiato completamente l’esistenza. Alec era un peccatore, questo è vero, e la sua vita è stata dura e cupa… Be’, finché non ha avuto un piccolo incidente e ha deciso di far entrare gli insegnamenti del Buddha nel suo gelido cuore».
Spinsi sulla statua e mi raddrizzai, appoggiando gran parte del peso sul bastone. «E avrai un altro “piccolo incidente”, se non tiri fuori quella pistola nel giro di quindici secondi. E sarà meglio che sia pulita… se scopro che è stata usata in una rapina, in un colpo alle poste o in qualche merda di regolamento di conti, tornerò qui e ti presenterò personalmente al tuo dio».
«Ah, Mr Smith, ma non esiste nessun “dio”. Il Buddha ci insegna che Mahâ Brahmâ non ha creato tutte le cose. Siamo venuti al mondo, invece, attraverso il paticcasamuppada, e…».
«Ce l’hai questa pistola del cazzo o no?».
Il sorriso non gli si era minimamente smorzato. «Un po’ di pazienza, Mr Smith. Pazienza. Prima di procedere, Alec ha bisogno di sapere perché vuole quest’arma. Quali sono le sue intenzioni».
«Non sono maledetti affari di Alec».
«Ah, ma questo affare sì che è maledetto, no?». Si raddrizzò anche lui, muovendo qualche passo sulla ghiaia scricchiolante del sentiero, in mezzo alle piante morte. Seguendo il cerchio che disegnava. «Da quando ha cambiato fede, Alec ha lottato a lungo e duramente con la profonda dicotomia insita nella prosecuzione della sua professione. Alec ha meditato. Ha chiesto al Buddha di guidarlo. E alla fine, è arrivato a comprendere che il suo posto, nel ciclo del karma, è facilitare le scelte morali per conto di persone come lei. Dunque, ha ottenuto di fare un passo avanti sulla strada che conduce all’illuminazione».
«D’accordo. Lascia perdere». Mi allontanai verso il cancello.
«Alec può darle quello che chiede, ma ha bisogno che capisca che in questo momento lei ha la possibilità di uscire dall’oscurità che la circonda. Di salire nella colonna del karma. Di essere un uomo migliore».
«Sì. Be’, io sono più un tipo da Antico Testamento. Occhio per occhio. Proiettile per proiettile».
«Ah, la vendetta…». Alec si fermò, chinando il capo. Poi annuì. «Aspetti qui». Tornò in casa, e quando riuscì, mi tese un pupazzo imbottito di Bob Aggiustatutto, grande più o meno quanto una palla da rugby, con un sorriso cucito sul viso e un’enorme chiave inglese gialla in mano. «Ecco».
«Vuoi davvero farti prendere a calci in…». C’era qualcosa di duro, dentro al pupazzo. Qualcosa che aveva la forma di una L. E altro nelle gambe, come se qualcuno le avesse riempite di ossicini.
«Mr Smith, è sicuro che Alec non possa convincerla a cambiare strada?».
Dovevano esserci almeno dodici proiettili, là dentro, forse anche di più. Non potevo saperlo, finché non l’avessi aperto.
Ora non dovevo fare altro che tenere un profilo basso finché non avessi avuto la possibilità di presentare Bob Aggiustatutto a Mrs Kerrigan, quella sera. Due volte. In faccia.
«Mr Smith?».
Alzai lo sguardo, proprio mentre le nuvole lasciavano cadere le prime gocce di pioggia. Colpirono il Buddha, scurendo il cemento intorno ai suoi occhi, sempre di più man mano che il vento si alzava. Rotolando sulle sue grasse guance.
«Che tristezza». Alec scosse la testa. Sospirò. E lasciò ricadere le spalle. «Ha preso la sua decisione, e il mondo piange per lei».
Non c’era niente di meglio che essere compianto da un trafficante d’armi che parlava di sé in terza persona, per dare un tocco di allegria in più a quella giornata.
Gli passai la busta piena di banconote di Shifty e tornai zoppicando alla macchina, con Bob Aggiustatutto sotto il braccio.
Possiamo aggiustarlo? Sì, dannazione, certo che sì.
«…per tre giorni è stato trovato in una cava abbandonata a Renfrewshire. La polizia ha rivolto un appello a chiunque possa aver visto la bambina di sei anni da quando è scomparsa giovedì sera…».
La pioggia picchiava sull’asfalto, creando una nebbiolina di vapore alta fino al ginocchio mentre Alice si fermava nel parcheggio. La Suzuki superò sobbalzando delle buche piene d’acqua, facendo scivolare Bob Aggiustatutto sul sedile posteriore.
«…rifiuta di confermare o negare alcun collegamento tra questa scomparsa e quella di altri tre bambini spariti da Halloween a oggi…».
Scelse un posto non troppo lontano dall’entrata e restò immobile a guardare i tergicristalli che si muovevano sul parabrezza inondato di pioggia. «Non mi sembra molto promettente…».
«È un obitorio. Che ti aspettavi di trovare: palme e marmo?»
«…un appello della madre di Charlie Pearce, il bambino di cinque anni scomparso…».
Alice spense il motore.
La struttura era un basso bunker di cemento in un complesso industriale abbandonato alla periferia estrema di Shortstaine, una linea cruda di grigio e nero, che spuntava cupa da dietro le recinzioni di metallo su cui spiccavano segnali di avvertimento riguardo a cani da guardia, telecamere di sorveglianza e filo spinato. Un’area di carico a un’estremità, la reception dal lato opposto, una barriera di cespugli verdi a nasconderla dalla strada.
Si udì un tintinnio, e una coppia uscì dalle porte dell’obitorio: l’uomo con il volto devastato dal dolore, bagnato di lacrime; la donna con le ginocchia rigide, che non sembravano più in grado di piegarsi. Come se quello che aveva visto all’interno l’avesse fossilizzata.
La pioggia mi picchiò sulle spalle.
Alice restò in piedi con le chiavi in mano, voltandosi a fissare la coppia che si addentrava nel parcheggio. Lui che si abbandonava contro una vecchia Renault Clio, lei che camminava in cerchio, con le gambe rigide. «Forse dovremmo fare qualcosa».
Un attimo più tardi, una poliziotta in uniforme uscì di corsa nella pioggia, fermandosi in scivolata sul primo gradino, rossa in volto. Una macchia piena di grumi le macchiava il bordo del giubbotto antiproiettile, giù fino alla gamba, e aveva addosso come un sudario l’odore acuto e acido della bile. «Mi scusi…». Mi rivolse un sorriso contrito, per poi raggiungere l’uomo in lacrime e la donna che continuava a muoversi in cerchi ossessivi.
Entrammo.
La dottoressa Constantine era davanti a una stufa elettrica, le falde del parka aperte ad accogliere l’aria calda.
La stanza era piccola, insulsa e funzionale: un tozzo bancone di acciaio inossidabile; un pavimento di linoleum facile da pulire; le pareti coperte di poster pieni di informazioni mediche; un mucchio di volantini che pubblicizzavano servizi di assistenza psicologica al lutto; una dozzina di biglietti da visita di un’impresa di pompe funebri, sistemati strategicamente dove i parenti addolorati avrebbero potuto vederli senza difficoltà: “UNWIN E MCNULTY, ONORANZE FUNEBRI DAL 1965 – PROFESSIONALITÀ E DISCREZIONE PER I VOSTRI CARI”. Una pianta di plastica occupava un angolo, con le spesse foglie lucide coperte da uno strato di polvere. L’aria era quasi irrespirabile, sotto il soffocante odore floreale causato dall’eccessivo uso di deodorante ambientale, e tuttavia non bastava a cancellare del tutto il sentore oscuro della decomposizione.
La porta si chiuse con un pigolio elettronico, e Constantine si guardò alle spalle, osservandoci. Poi roteò gli occhi. «Si sono persi il corpo, a quanto pare».
Alice si scosse via la pioggia dalle spalle. «Come hanno fatto a perderlo? Si tratta di una grossa indagine per omicidio, e tutti saranno…».
«Sai cosa penso?». Constantine tornò a scaldarsi davanti alla stufa. «Che i locali stanno facendo i finti tonti, perché temono che li mettiamo in mutande».
Suonai il campanello sul bancone della reception, e lo scampanellio riecheggiò oltre le doppie porte che conducevano all’interno della struttura. «Io non credo che la situazione sia così minacciosa».
Nessuno rispose, quindi riprovai a suonare.
Constantine scosse la testa. «Non credo sia minacciosa, credo che sia un modo veramente stupido di comportarsi».
Suonai il campanello per la terza volta.
Ancora niente.
Alice si girò a fissare la porta da cui eravamo entrati. «Sentite, vi spiace se io…?». Accennò al parcheggio. «Sembravano davvero disperati».
«Prego, vai pure».
Ultima possibilità. Spinsi il pollice sul campanello e lo lasciai lì, mentre Alice si affrettava a uscire. Il suono riecheggiò a lungo… Ma non ci fu risposta.
Mi avvicinai alle doppie porte. I vetri appannati impedivano di vedere all’interno. Spinsi il palmo della mano contro il legno.
BANG! BANG! BANG!
«DOUGAL, INUTILE AMMASSO DI RUGHE, PORTA SUBITO QUI IL CULO!». Poi tornai indietro e mi attaccai di nuovo al campanello. «Non è una congiura, sono soltanto degli idioti. È sempre così».
BANG! BANG! BANG!
«DOUGAL, TI AVVERTO, DANNAZIONE!».
Un lato della porta si aprì cigolando, e un volto pieno di rughe si affacciò fuori, le sopracciglia sollevate sopra un paio d’occhi scuri e scintillanti. Capelli grigi che si andavano ingiallendo sulle punte. «Ah… sì…?». Un sorriso tutto denti ingrigiti. «Be’, ma guarda un po’: ispettore Henderson, che piacere rivederla. Pensavo che fosse… via».
«Che ne avete fatto dei resti di Claire Young?».
Le sopracciglia di Dougal si abbassarono. «Mi è tanto dispiaciuto per sua figlia, posso solo immaginare… Ulp!».
La mia mano scattò oltre lo spiraglio della porta e lo afferrai per il camice bianco. Lo trascinai fuori, nell’area della reception. «Dov’è?»
«Ah, sì, Claire Young…». Lanciò uno sguardo a Constantine, poi tornò su di me. «A dire il vero, è proprio una cosa buffa, cioè, magari non esattamente buffa, ma è…».
Lo scossi. «Per l’ultima volta, Dougal…».
«Lo stiamo cercando, lo stiamo cercando! Non è colpa mia, è…».
Un altro scossone. «Prendi il registro. Subito».
Lui barcollò indietro, sistemandosi il camice e chiudendone i bottoni. «Sì, il registro, ecco, lo prendo subito…». Poi si chinò dietro il bancone della reception e ne tirò fuori un grosso registro, aprendolo su un segnalibro di pelle a circa cinque sesti dalla fine. Prese dal taschino del camice un paio di grossi occhiali rotondi che rendevano enormi i suoi occhi neri da ratto. Passò l’indice lungo la colonna dei nomi. «Young, Young, Young… Ah, ecco qui, sì, giusto: Claire Young. Dovrebbe essere nella 53-A, ma abbiamo controllato e non c’è nessuno, lì…». Si schiarì la gola. «Ma stiamo controllando ovunque, in ogni cella frigorifera di ogni sezione, e sono certo che prima o poi verrà fuori. No?».
Afferrai il registro e lo girai verso di me, fino ad averlo di fronte. Controllai righe e colonne. «Qui dice che l’autopsia è stata effettuata ieri mattina. Avete controllato che non sia ancora nella sala settoria?».
Dougal sollevò il naso in aria, facendo tendere le pieghe di pelle flosce sul collo. «Non siamo mica idioti».
«Ma tu riesci a imitarne uno in modo impressionante. E la 35-A, avete provato a controllarla?»
«Certo che…». Si bloccò di colpo, a bocca aperta. Poi contrasse le labbra in una grinzosa “O”. «Scusatemi un attimo…». E sparì.
La porta d’ingresso pigolò di nuovo e Alice rientrò a fatica, il viso arrossato, i capelli fradici. Si asciugò gli occhi con la manica della maglia a righe. Non disse una sola parola, si limitò a raggiungermi, mi abbracciò stretto e mi premette il viso contro il petto. Singhiozzando.
Le restituii l’abbraccio. Era zuppa. «Stai bene?»
Un altro singhiozzo. Poi un respiro profondo. Mi schiacciò un’ultima volta le costole e poi si scostò. Tornando ad asciugarsi gli occhi. «Scusa».
«Ispettore?». Dougal tornò, mostrando di nuovo quel sorriso tutto denti. «Sono lieto di annunciarle che siamo riusciti a ritrovare il corpo di Claire Young. Mi dia un paio di minuti, e la sistemeremo in sala settoria».
«Qualcuno aveva invertito i numeri della cella frigorifera, vero?»
«Be’, l’importante è che la signorina Young sia ancora qui, sana e salva». Aprì le doppie porte, tenendole spalancate e facendoci cenno di entrare. «Iniziavamo a temere che il nostro macabro amico fosse tornato a farci visita…».