CAPITOLO 14

«Sicuri di non volere un tè? O un caffè?». Dougal piegò la testa di lato, con le mani davanti al petto, i polpastrelli che si toccavano, mentre Constantine dava un’occhiata ai resti di Claire Young. «Ho anche dei dolcetti ai fichi, volete assaggiarli?».

Alice scosse la testa. «Grazie, ma… tra l’autopsia e tutto…».

«Ah, sì, giusto. Ispettore?»

Annuii. «Del tè. Con latte. E due biscotti. E con una tazza vera… non di carta».

Lui si allontanò, lasciandoci soli nella sala settoria. La stanza era almeno sei volte le dimensioni dell’obitorio del Castle Hill Infirmary. Una dozzina di tavoli d’acciaio inossidabile erano sistemati in due file da sei, con tanto di canalette di scolo, tubi dell’acqua, bilance e idraulica. Ognuno aveva la sua telecamera a circuito chiuso, sfere nere che pendevano dal soffitto come frutti maturi.

Una lunga parete di vetro si estendeva lungo un lato della stanza, sopra a una fila di lavandini. Dei banconi da lavoro coprivano la parete di fronte, sotto a poster anatomici e note di sicurezza.

Alice rabbrividì. «Perché devono sempre prendere gente strana a lavorare negli obitori? Avete visto che occhi? Tutti neri e scintillanti…».

«Sembra un ratto gigante in camice bianco, vero? Come se avesse avuto la meglio sugli scienziati e ora fosse il suo turno di fare esperimenti su di loro». Mi appoggiai al tavolo settorio accanto a quello con il cadavere di Claire Young. «Un’estate… le bambine erano ancora piccole, faceva un caldo terribile. Per una settimana, a Oldcastle è stato come vivere in un forno, quindi lasciavamo le finestre sempre aperte, tentando di far circolare un po’ d’aria. Una notte sono andato a controllare le bambine, che dormivano entrambe, e ho visto questo grosso ratto scuro che strisciava sulle lenzuola e si stava avvicinando al viso di Rebecca. Ecco, Dougal gli somiglia tantissimo».

«Hai dimenticato il “c’era una volta”».

«Scusa».

Alice fece strusciare sul pavimento le suole delle sue piccole Converse rosse, agitandosi sul posto, mentre osservava i tavoli e i lavandini. «Questo posto è enorme».

«È utile, quando arriva un carico di ragazzini per un incidente dello scuolabus, oppure se succede qualcosa di spiacevole in una casa di riposo, o se si scopre una fossa comune…». Mi torsi le dita fino a sentire le nocche bruciare. Distolsi lo sguardo. «Può essere utile».

Constantine spinse accanto al tavolo un carrello d’acciaio e vi posò sopra un’enorme borsa di Gucci. Ne tirò fuori un rotolo di tessuto, che dispiegò rivelando uno scintillante set di bisturi, pinze, divaricatori e forbici. Gli strumenti del mestiere. «Sapete, ai vecchi tempi ero io che cominciavo l’opera, di solito, quando si trattava di autopsie».

Si mise un camice e raggiunse un distributore sopra i lavandini, da cui prese un grembiule di plastica verde. Se lo infilò dalla testa e lo legò sulla schiena. Poi indossò un paio di guanti chirurgici. «Qualcuno può accendere il mio registratore? È nella borsa».

Lo recuperai e premetti il pulsante rosso, appendendolo poi alla lampada sopra il tavolo.

Constantine passò le dita sull’addome di Claire Young.

Due serie di tagli incidevano la pelle cerea, uno dei quali chiuso da una serie di punti di sutura neri, l’altro con lo spesso filo di nylon amato dai patologi. La sutura nera chiudeva la ferita cruciforme, quelli più spessi invece tenevano insieme la carne dell’incisione a forma di Y che partiva dallo sterno di Claire e le arrivava al pube.

Constantine borbottava una nenia monocorde da sotto la mascherina chirurgica. «Bene, almeno sono stati abbastanza svegli da non toccare i tagli dell’Inside Man». Recuperò un paio di forbici dalla punta sottile e iniziò a tagliare il filo di nylon. Scostò i lembi di pelle, esponendo le costole. «Immagino che, in un certo senso, sia piacevole non dover fare tutto il lavoro grosso». Strinse le dita alle due estremità dello sterno e staccò la cassa toracica dal cadavere, per poi posarla sul carrello accanto agli strumenti. «Certo, questo non è così piacevole».

Il torace e la cavità addominale di Claire erano pieni di sacchetti di plastica trasparenti, ciascuno con dentro qualcosa di scuro e lucido. Constantine li controllò, recuperandone poi uno con dentro quello che sembrava il cuore. «Una pesca non molto fortunata». Riversò il contenuto in un bacile di metallo. «Henderson, puoi chiamare il tuo amico rugoso e idiota e chiedergli se hanno ancora le prime vittime? Visto che ci siamo…».

Cercai Dougal nella sala del personale, e lo trovai con i piedi sul tavolino, intento a guardare un vecchio film di Miss Marple alla TV, e a bere da una bottiglia di Lucozade.

«La patologa vorrebbe vedere i cadaveri delle prime vittime».

Lui fece una smorfia. E bevve un altro sorso dalla bottiglia. «Potrebbe esserci un piccolissimo problema. Ce ne resta soltanto uno. Un altro è… sparito, e gli altri due li abbiamo dovuti restituire alla famiglia per le esequie. Posso prenderle la numero quattro e scongelarla, se vuole. Ci vorrà un po’ per farla arrivare a temperatura, però».

«Natalie May è ancora congelata? Quelli dell’Operazione Balsamo di Tigre non le hanno dato un’occhiata?».

Un’alzata di spalle. Un altro sorso. «Chi mai può comprendere l’operato della polizia scozzese? Comunque, non aveva famiglia, quindi nessuno è venuto a reclamare il corpo. Se n’è rimasta lì tutta sola e gelida per otto anni…».

«Tirala fuori».

«Delle altre potrei riuscire a trovare qualche campione di tessuto e qualche radiografia. Sempre se sono sopravvissuti all’inverno del duemiladieci». Distolse lo sguardo. «Mi è davvero dispiaciuto per tua figlia. E per tuo fratello».

Sullo schermo, Margaret Rutherford fece confessare un omicidio a un giovane in un salotto. Poi prese a sorseggiare un tè mentre la polizia portava via il colpevole per farlo impiccare. Tutta tranquilla e serena.

Dougal schiacciò la bottiglia di plastica, facendola scricchiolare. «Quando la leucemia si è portata via la nostra Shona… be’…». Un altro sorso. «Volevo solo dire che so cosa si prova».

Sì, perché perdere una figlia a causa del cancro e perderla per mano di un serial killer era proprio la stessa cosa.

Non risposi. Mi girai e uscii dalla stanza.

Almeno, lui aveva potuto dirle addio.

I corridoi mi scricchiolavano sotto le scarpe, mentre tornavo alla sala settoria, e il bastone batteva un ritmo da antica nave a remi contro le piastrelle grigie. Premetti il cellulare contro l’orecchio. «Per quanto tempo?».

La voce di Shifty sibilò fuori dal ricevitore. «Sì, be’, sai, solo finché non mi rimetto in piedi… non te l’avrei chiesto, ma… lo sai».

«Andrew continua a fare lo stronzo?»

«Non mi vedrete neppure. Lo giuro. Mi comprerò uno di quei materassini da Argos, un copriletto e tutto. Non vi darò fastidio».

«Vorrei interrogare le vittime sopravvissute all’Inside Man. Mandami gli indirizzi e chiederò ad Alice di ospitarti in salotto. Okay?»

«Okay».

«E non farlo sapere in giro. Non voglio che la Ness venga a sapere che stiamo parlando con loro». Mi fermai, una mano sulla maniglia della porta della sala. «Sono andato a trovare il tuo amico per avere una guida spirituale».

«Oh». Una pausa. «E hai trovato l’illuminazione?»

«Che ne dici di stanotte?».

Il sibilo divenne un sussurro. «Assalto prima dell’alba?».

«Voglio tutti i dettagli dell’indirizzo: sicurezza, cani, punti di accesso, quando ci sarà. Il solito».

«Dove la scarichiamo?».

«Direi che i classici sono sempre i migliori, no?». Attaccai. E digitai un altro numero.

Suonò diverse volte, e poi ci fu uno scatto: «Questa è la segreteria di Gareth e Brett. Non possiamo rispondervi in questo momento, ma potete lasciare un messaggio dopo il segnale acustico».

«Brett? Sono Ash. Tuo fratello? Brett, ci sei?».

Silenzio. Stava filtrando le telefonate, o non c’era davvero? Non aveva importanza, in ogni caso.

«Io…». Io cosa? C’era davvero qualcosa che potessi dire e che potesse fare la differenza, a quel punto? «Volevo solo farti sapere che… me ne sto occupando. Voi due fate i bravi, okay?». Un silenzio imbarazzato. «Comunque… tutto qui. Ciao».

Infilai il cellulare in tasca.

Un respiro profondo.

Poi aprii con una spinta la porta della sala.

Il carrello della dottoressa Constantine era coperto di buste di plastica trasparente, sistemate dalla più grande alla più piccola. Recuperò qualcosa in una di esse, contenente una fetta di qualcosa di nero-rossastro, canticchiando la sigla di The Archers.

Alice era seduta sul tavolo operatorio più lontano da lì, con le Converse rosse che dondolavano a un metro dal pavimento, un braccio intorno al busto e la mano libera che giocherellava con i capelli. Osservava la telecamera a circuito chiuso sopra la sua testa.

«Ci sono un sacco di telecamere».

«L’intero posto è controllato. Circa sei anni fa, hanno notato che qualcuno faceva sparire i cadaveri dal deposito a lungo termine. Non si sa chi sia stato, o cosa ci abbia fatto». Mi strinsi nelle spalle. «Benvenuta a Oldcastle».

«Uhm…». Alice tornò ad arrotolare le dita intorno ai capelli. «Stavo pensando al profilo del dottor Docherty. Insomma, posso capire perché abbia pensato che l’Ignoto-Quindici sia un maschio solitario che caccia…».

«È lo stesso profilo che ha tirato fuori con Henry otto anni fa. Ha cambiato un po’ i termini, ma in realtà l’unico particolare davvero diverso è l’età. Al tempo era sui trent’anni, adesso si avvicina ai quaranta». Un acuto scampanellio elettronico tagliò l’aria pesante della stanza come un bisturi arrugginito: il telefono dell’obitorio, montato sulla parete vicino al frigorifero per i campioni. Squillò, squillò e squillò, e infine tacque. Lo fissai. «Docherty ovviamente pensa che l’Ignoto-Quindici sia l’Inside Man».

Telefoni… fissai quello vicino al frigorifero. Come faceva a saperlo? Come poteva sapere che avrebbero funzionato?

Alice dondolò i piedi. «Vorrei parlare con le sopravvissute. Possiamo farlo, giusto? Bear ha detto che potevamo e…».

«Non appena Shifty ci manderà gli indirizzi». Mossi il bastone verso Constantine. «Ehi, doc? Ci vorrà ancora molto?».

Lei appoggiò un lungo bisturi sulla fetta di fegato. «Per favore, non chiamarmi “doc”. Mi fa sembrare uno dei sette nani». Prese la fetta di fegato e la tagliò a pezzetti. «E mi serviranno almeno altre tre ore. Forse di più. Dipende se il tuo amico con le rughe troverà o meno le altre vittime».

«Chi è il vostro specialista dei computer?».

Lei lasciò cadere un pezzetto di tessuto rosso scuro in una provetta. «Non ne abbiamo uno».

«Pensavo che ci fossero tutti i migliori, nella squadra». Presi lo smartphone e digitai il numero registrato sotto il nome “IL CAPO!”.

Jacobson rispose al quinto squillo. «Ash?»

«Perché non ha messo anche uno specialista informatico forense nel gruppo?»

«Perché, ne abbiamo bisogno?»

«Il detective Sabir Akhtar: lavorava con la Polizia Metropolitana, non so se sia ancora lì, ma è il migliore».

«Sono tutt’orecchi».

«Gli dica di occuparsi del registro delle chiamate della cabina telefonica che abbiamo trovato stamattina, quella dove il nostro uomo ha cercato di lasciare Claire Young. L’Inside Man non sceglie a caso i posti in cui lasciare le vittime; ha bisogno di una cabina telefonica funzionante nelle vicinanze, così da poter chiamare un’ambulanza. Quindi…?»

«Quindi le deve cercare e deve fare delle chiamate di prova».

«Faccia controllare a Sabir tutte le chiamate delle ultime sei settimane. Forse c’è uno schema. E gli dia anche le chiamate d’emergenza delle vittime di otto anni fa. Voglio che vengano ripulite e che i rumori di fondo siano isolati. Non ci interessa di sapere niente del luogo da cui sono partite, ma se invece riuscissimo a scoprire qualcosa del luogo in cui sono state registrate… Potrebbe valere la pena di tentare».

Ci fu una pausa di silenzio.

«È ancora lì?»

«Forse non sei così inutile, in fondo. Ti farò sapere».

Circa tre secondi dopo, lo smartphone vibrò. Un messaggio di Shifty.

Marie Jordan: Ala Sunnydale, Castle Hill Infirmary

Ruth Laughlin: 16B, 35 First Church Road, Cowskillin

Ti va del curry per cena?

Marie Jordan e Ruth Laughlin. Nessun indirizzo per Laura Strachan. Gli risposi, poi ficcai il cellulare in tasca. Tesi una mano ad Alice e la aiutai a scendere dal tavolo operatorio. Constantine è grande abbastanza per cavarsela da sola per qualche ora. Andiamo a trovare le sopravvissute».

Mentre entravamo nella reception, Dougal sobbalzò con un piccolo strillo. Afferrò il registro dei decessi e se lo strinse al petto. «Mi avete spaventato a morte…».

Mi fermai, con una mano sulla porta che conduceva all’esterno. Lo indicai. «Trova quei campioni e il corpo di Natalie May, o la prossima volta che ti vedo sarai tu a subire un’autopsia. Capito?».

Lui serrò ancora di più il libro. «Sì, certo, la trovo subito, non c’è problema».

«Sarà meglio». Spinsi la maniglia e seguii Alice all’esterno, nella luce grigia del mattino.

La pioggia rimbalzava sull’asfalto, sibilando contro le pareti di cemento dell’obitorio. Un lago si stava formando davanti all’area di carico, uscendo da un canale di scolo ormai straripante.

Il piccolo portico non proteggeva quasi per niente dall’acquazzone, ma era meglio di niente.

Alice si tirò su il cappuccio. «Aspettami qui, vado a prendere la macchina». Zigzagò tra le pozzanghere, sollevando le ginocchia, con la schiena curva in avanti. Aprì la macchina e si infilò dietro al volante. I fari della Suzuki si accesero, seguiti dal motore. Poi la vidi muoversi borbottando fino all’ingresso dell’obitorio, sobbalzando e tremando.

Zoppicando, la raggiunsi e salii a bordo.

I vetri si appannarono finché all’esterno non si vide altro che figure indistinte e vaghe ombre. Alice attivò le ventole dell’aria calda alla massima potenza. Il loro ronzio soffocò il picchiettio della pioggia sul tetto dell’auto. «Scusami… ci vorrà solo un minuto».

Qualcuno bussò sul finestrino dal lato del guidatore, facendola sobbalzare. Il petto di un uomo oscurò il vetro, appena visibile attraverso la condensa: indossava una giacca, una camicia e una cravatta.

Alice abbassò il finestrino. «Posso esserle d’aiuto?».

Una voce acuta si riversò nell’abitacolo. «Buongiorno, cara signora. Potrei sapere dove sta portando il nostro caro amico Henderson, in questa così splendida mattinata?».

Merda.

Uscii dalla macchina, le mani chiuse a pugno. «Joseph».

Lui guardò oltre il cofano e mi sorrise. Grosse orecchie a sventola, una fronte da Neanderthal, un mento prominente e un taglio cortissimo che non faceva nulla per nascondere le cicatrici che gli coprivano il cuoio capelluto. La pioggia picchiava forte sul suo grande ombrello nero. «Mr Henderson, è un piacere sincerarsi che non sia più in carcere. Abbiamo sentito molto la sua mancanza. Sta bene?».

La pioggia mi incollò i capelli sulla testa, mentre un gelido rivolo mi scendeva lungo la nuca. «Cosa vuoi?»

«Moi?». Si posò una mano sul petto. Il tatuaggio di una rondine stilizzata in inchiostro blu sbiadito era impresso nella piega di pelle tra pollice e indice. «Solo assicurarmi che fosse uscito dal suo periodo di detenzione con lo spirito intatto, pronto ad affrontare ancora una volta il mondo con il suo leggendario vigore».

Piegai la testa a sinistra, facendo schioccare le vertebre, e poi la riportai dritta, i tendini che crepitavano come mortaretti in cima alla spina dorsale. «C’è qualche problema?»

«Oh, spero proprio di no, Mr Henderson. Odierei davvero dover litigare con lei, quando siamo sempre andati così d’amore e d’accordo». Lanciò uno sguardo oltre la mia spalla. «Non è forse così, Francis?».

Due anni in carcere. Avrei dovuto imparare ad accorgermi di qualcuno che mi si avvicinava alle spalle.

Francis mi comparve accanto, il suo riflesso nel finestrino del passeggero che mi sorrideva da dietro i suoi occhialetti da sole alla John Lennon. I capelli ricci e rossi legati in una coda di cavallo, folti baffi da cowboy, e un leggero pizzetto. «Ispettore».

Il suo ombrello tagliò la pioggia, coprendomi come le ali di un pipistrello gigante.

Restai immobile. «Francis».

Le sue labbra si mossero appena. «Ho un messaggio per lei».

«Proprio così, Mr Henderson. La nostra comune amica è lieta di sapere che è tornato tra gli uomini liberi, nella terra dei cuori impavidi, ed è impaziente di poterla incontrare, appena le sarà comodo».

Ne ero maledettamente certo. «Come sapevate che ero qui?».

La mano di Joseph tracciò un pigro otto nell’aria. «Diciamo semplicemente che abbiamo beneficiato di un caso fortunato».

Mi volsi a guardare le porte dell’obitorio e notai Dougal. Sgranò gli occhi, per poi abbassarsi, sparendo alla vista. Piccolo bastardo traditore. «Ditele che la prossima volta che la vedo, dovremo parlare a lungo e seriamente di quello che ha fatto a Parker. E che le seppellirò quel culo maledetto in una fossa nel bosco di Moncuir».

Francis si avvicinò al punto da farmi sentire il suo alito alla menta contro la guancia. «E il resto del corpo?»

«Oh, cielo». Il sorriso di Joseph si smorzò leggermente. «Temo che Mrs Kerrigan sarà… un po’ delusa da questa reazione così poco calorosa al suo gentile invito».

L’aria calda all’interno della macchina aveva cominciato a eliminare la condensa sui finestrini. Abbastanza da mostrarmi il pupazzo di Bob Aggiustatutto che mi sorrideva dal sedile posteriore. Tipico di tutti i maledetti operai: non ci sono mai, quando hai bisogno di loro. «Sarà molto più che delusa, quando le metterò le mani addosso».

«Capisco». Un cenno del capo. «Allora la lasceremo a godersi la sua libertà. Finché dura. Francis…?».

Qualcosa mi esplose alla base della schiena, un mucchio di aghi frastagliati che si apriva la strada attraverso il mio rene sinistro. Ansimai a denti stretti. Sentii le ginocchia piegarsi… ma le tenni ferme, restando in piedi. Raddrizzai le spalle. Alzai il mento. E digrignai i denti. «Sei proprio un grand’uomo, eh?».

Francis risucchiò l’aria tra i denti. «Niente di personale».

Certo. Era soltanto lavoro.

Joseph sollevò l’ombrello, come se si stesse togliendo un immaginario cappello. «Se dovesse cambiare idea, sa come contattarci». Poi si piegò in avanti e sorrise attraverso il finestrino aperto, dal lato del guidatore. «È stato un piacere, cara signora. Sono sicuro che le nostre strade si rincontreranno».

Meglio di no.

Restai al mio posto finché non entrarono nella loro grossa BMW 4x4 nera, uscendo dal parcheggio. Poi aprii lo sportello della Suzuki e scivolai sul sedile. Sibilai, quando le costole toccarono lo schienale. Mi sentivo le interiora piene di ghiaccio e filo spinato.

Due contro uno, proprio come in prigione. Ogni maledetta volta.

Serrai il pugno destro e lo sbattei contro il cruscotto. «BASTARDI!».

L’urlo si levò al di sopra del rumore del riscaldamento, per un attimo, poi il ronzio delle ventole riprese il sopravvento. Ora il filo spinato mi stava avvolgendo le nocche, affondando a ogni movimento tra carne e cartilagini. Quando aprii la mano, non restò ferma: le dita tremavano a ritmo con il sangue che mi rombava nelle orecchie.

«Ash? Ti senti bene? È che non mi sembri tanto…».

«Guida…». Accesi la radio. «Guida e basta».