CAPITOLO 28

Alice tirò su le spalle fino alle orecchie e girò la schiena al vento. Qualche ciocca di capelli ricci e scuri le si mosse ondeggiando intorno alla testa come un nido di serpenti arrabbiati. «Ma non ho fame…».

Il centro visitatori del castello era chiuso, ma il Manky Ralph’s, un furgone sporco su quattro ruote bucate, se ne stava in un angolo del parcheggio. Era meglio di niente. E comunque, non era il cibo il motivo per cui la maggior parte della gente pagava il proprietario del chiosco.

«Non mi interessa». Le passai due panini incartati in dei tovaglioli e un bicchiere di polistirolo pieno di tè dolce e caldo. «Mangia questi e bevi quest’altro».

«Ma…».

«Non è una discussione. Avanti, devi fare colazione. Ti sentirai molto meglio, dopo».

Lei sbuffò gonfiando le guance e prese uno dei panini. Lo scartò e fece una smorfia. Poi gli diede un morso. Un piccolo sorriso. «Patatine».

«Visto?». Iniziai a divorare il mio panino con salsiccia e cipolle, masticando mentre passeggiavamo tra le rovine.

La zona in cui ci trovavamo era fatta di una serie di bassi muri cadenti. Più avanti si trovavano focolari, una ghiacciaia e una scala che non conduceva da nessuna parte. E, proprio sul fondo, quel che restava di una torre di tre piani. Il tutto inondato dalla luce dorata del sole del primo mattino, che scintillava contro un cielo color carbone.

Ci fermammo al riparo di una sezione di mura merlate, con una sottile feritoia che permetteva di guardare all’esterno, giù dalla collina, oltre Dundas House, il fiume e più avanti verso il Wynd, dove Paul Manson stava lavorando per l’ultima volta nella vita.

Alice finì il panino e tolse il coperchio al bicchiere di tè, sorseggiandolo mentre il vapore veniva portato via dal vento. Si appoggiò al muro, tenendo lo sguardo sulla punta delle scarpette rosse. «Ho paura…».

La piccola busta di plastica trasparente che Manky Ralph mi aveva dato non pesava niente. Se ne stava nel palmo della mia mano come se in realtà non ci fosse. Gliela tesi. «Tieni».

Lei la fissò. «Pillole?»

«Hai detto al dottor Idiota, all’ospedale, che dovrebbe far provare a Marie Jordan una terapia a base di MDMA che stanno tentando ad Aberdeen».

Alice recuperò la bustina e la sollevò. Una mezza dozzina di pillole a forma di cuore rosa se ne stavano l’una contro l’altra sul fondo del contenitore. «Mi hai comprato dell’Ecstasy?»

«Sai, è per… placare un minimo la tua amigdala».

Un sorriso. Allungò una mano e mi strinse il braccio. «Nessuno mi aveva mai comprato panini con patatine e droghe, prima». Si infilò le pillole in tasca. Poi si incupì. «Ma dobbiamo parlare di David».

«Te l’ho detto: se la caverà».

Lei tolse il tovagliolo di carta dal secondo panino. Al bacon, questa volta. «Voglio dire, non ha alcun senso uccidere Paul Manson, se…».

«Tu non ucciderai proprio nessuno. Non sarai responsabile di quello che succederà. E se non fosse per quelle maledette cavigliere, mi assicurerei che fossi molto lontana da me». Dei gabbiani volavano sopra al Bellows, tuffandosi e planando sopra il guscio vuoto del vecchio manicomio, sulla sua isola al centro del fiume. «Ma non possiamo farci molto, al momento».

Lei rabbrividì. «Se non fosse per quelle cavigliere, Mrs Kerrigan avrebbe preso me in ostaggio, invece di David».

Forse non erano così male, in definitiva.

Alice alzò lo sguardo su di me. «Hai sempre saputo che sarebbe successo, vero? Era per questo che parlavi di fuggire in Australia…». Chinò il capo. «Avrei dovuto immaginarlo, giusto? Insomma, che altro dovrà succedere?»

«Mi dispiace».

Il vento le mosse ciocche di capelli intorno al viso, e lei le spinse indietro, stringendole e rigirandole intorno a una mano. «Non possiamo… non lo so. Non possiamo fare qualcosa

«In modo che tutti vivano felici e contenti?»

«Ti prego…».

In lontananza, una bambinetta si arrampicò su un mucchio di macerie. Una ragazza con una felpa pesante addosso la seguì di corsa. «Non ti allontanare troppo, Catherine, fai la brava!».

Mi appoggiai contro la merlatura, chiudendo gli occhi. «Vuole Manson morto, e se non le consegno il suo cadavere, ucciderà Shifty. E poi? Se dovesse tentare di fare del male anche a te?»

«Non importa se è un contabile della malavita, non possiamo…».

«Lo so, okay? Lo so». Mi sentii schiacciare il petto da un peso che sembrava volermi trascinare verso il suolo. «Se lo farò, mi potrà sempre incastrare per l’omicidio. Non importa quanti soldi riuscirò a restituirle, mi avrà per sempre in mano. Sarò suo».

«E allora cosa possiamo…».

«Mangia il tuo panino».

«Ci metterò un minuto…». Alice si slacciò la cintura di sicurezza e uscì esponendosi al vento rabbioso di quella mattinata, lasciandomi ad attenderla in macchina. Le quattro frecce della Suzuki lampeggiavano, due ruote sul marciapiede e due sulle doppie strisce gialle al di fuori del minimarket su John’s Lane: “JUSTIN VENTIQUATTR’ORE – ALIMENTARI, CASALINGHI E MOLTO DI PIÙ”.

La Jaguar rubata era stata nascosta nel vecchio parcheggio multipiano di Floyd Street, dietro al Tollgate Shopping Centre. Quello senza telecamere di sorveglianza. Dove sarebbe potuta rimanere fino a quando non fossi dovuto andare a prendere Paul Manson.

Accesi la radio, e la voce di Kate Bush riecheggiò dagli altoparlanti, decisa a fare un patto con Dio.

Magari fosse stato così semplice.

Un distributore di giornali era sul marciapiede fuori dal minimarket: “CONTINUANO LE RICERCHE DEL BAMBINO DI CINQUE ANNI SCOMPARSO”. Un altro titolo dichiarava: “IL JACKPOT DELLA LOTTERIA DI QUESTA SETTIMANA È DI £ 89.000.000”. E un terzo: “L’INSIDE MAN RAPISCE UN’OSTETRICA – ESCLUSIVA!”. Dei volantini sulla vetrina pubblicizzavano lezioni di francese, appelli per gatti scomparsi e biciclette in vendita.

Tutto come al solito.

Non c’era nessuno legato a una sedia, torturato e accecato brutalmente.

Nessuno che doveva essere chiuso nel bagagliaio di una Jaguar rubata per essere portato in un bosco ed essere ucciso.

Bob Aggiustatutto mi sorrise dal sedile posteriore.

Ma che alternativa avevo?

«E questa era la piccola Kate Buuuush, con una canzone dedicata al suo caro papà. Bene, sono da poco passate le otto e trenta, e sapete cosa significa…». Clacson, strombazzate, un coro di “alleluia” in sottofondo. «Un altro diiii-vertentissimo scherzo telefonico!».

Coglione.

Abbassai il volume della voce di “Sensational” Steve e chiamai Sabir al telefono. Aspettai che squillasse. Ancora e ancora.

Quando finalmente rispose, sembrava che avesse appena corso una maratona: sbuffi, ansiti e sospiri. «Che diavolo vuoi?».

«Che succede con i dati dell’HOLMES?»

«Non sono neanche le nove! Ero a letto».

«A letto? Per quello allora sei arrivato tutto ansante…?». Oh. «Non importa. Dimmi dei dati».

«Mi prendi per il culo? Sto facendo…».

«Se fosse stato così importante, quello che stai facendo, non avresti risposto al telefono. Allora, che hai scoperto?»

«Eri meno stronzo un tempo, lo sai, vero?». Si sentì qualche rumore in sottofondo. Poi un gemito. E la sua voce arrivò soffocata da quella che sembrava una mano premuta sul ricevitore. «Scusami, non posso attaccare». Altri rumori. Un tonfo. Poi tornò al telefono. «Tua madre ti saluta, comunque».

«Guarda che è ancora morta, Sabir».

«Mi sembrava che non si muovesse molto, in effetti». Altri rumori in sottofondo. «I dati dell’HOLMES sono un casino, chiunque abbia fatto quella confusione meriterebbe una seria sculacciata. Sono stato costretto a sorbirmeli tutti per poterli indicizzare da zero. Hai idea di che razza di rottura di palle possa essere?»

«Hai messo a confronto quei numeri di telefono?»

«Certo che sì. Ho dovuto forzare il database per farlo, ma l’ho fatto».

Silenzio.

«E allora?»

«Sarebbe più facile imbattersi in un’orgia tra pinguini. Non è venuto fuori niente. Quando riuscirò a gestire meglio i dati, proverò con i nomi e gli indirizzi. Non mi sorprende che non siate riusciti a catturare quello stronzo, otto anni fa: l’idiota che ha messo insieme questo database non avrebbe potuto fare di peggio neanche se ci si fosse messo d’impegno. È una merda completa, dentro e fuori».

La porta del minimarket si aprì e Alice uscì nel vento, con una busta di plastica in una mano e una barretta di cioccolata nell’altra.

«Pensi che il casino sia voluto?».

Sabir sembrò succhiarsi i denti per qualche secondo. «Non lo so. Comunque è davvero esagerato».

«Vedi se riesci a scoprire chi è stato».

Alice rientrò in macchina, mettendosi al volante e portando con sé uno sbuffo di aria gelida. «Scusami. Mi ci è voluto un po’ più del previsto». Si sporse tra i sedili e posò la busta sotto a quello posteriore. La sentii tintinnare.

Sbirciai lì dietro. L’etichetta di una mezza bottiglia di Grouse era visibile attraverso la plastica sottile.

«Come sei riuscita a comprare degli alcolici alle otto e mezzo di mattina? È contro la legge».

Alice accese il motore. «So essere molto persuasiva, quando voglio».

Dall’altro capo della linea, Sabir tossicchiò. «Ora, se non ti spiace, non ho ancora finito di scoparmi tua madre».

L’insegna sopra alla Centrale di Polizia non aveva più la scritta “POLIZIA DI OLDCASTLE”, bensì sfoggiava un “POLIZIA SCOZZESE – DIVISIONE DI OLDCASTLE”. Avevano perfino eliminato lo stemma di un tempo per una più semplice croce di sant’Andrea.

Un vero peccato che non avessero cambiato anche l’edificio. La grossa struttura vittoriana di mattoni rossi era come un’irritazione sulla pelle di arenaria della strada, con le finestre strette, buie e sbarrate, quasi che dall’interno si aspettassero un assedio da un momento all’altro. E non si erano sbagliati, perché in effetti erano sotto assedio.

Un gruppo di giornalisti e cameraman era assiepato dietro l’ingresso. Fumavano e scherzavano tra loro, pronti a fare a pezzi qualcuno appena si fosse presentato lì fuori. Pronti a spolparlo fino alle ossa.

Uno di loro alzò lo sguardo mentre salivamo le scale, con una pesante Nikon intorno al collo e un sigaro marrone e sottile stretto tra le dita. «Ehi! Voi due avete niente a che fare con la storia dell’Inside Man?»

Mi strinsi teatralmente nelle spalle. «Qualcuno ha rotto la serratura del nostro capanno in giardino e ci ha rubato il tosaerba».

«Che peccato…». Ci scattò comunque un paio di foto e tornò in attesa.

Tenni la porta aperta ad Alice e lei entrò nella reception dietro di me, la busta di plastica che le tintinnava contro la gamba.

Le piastrelle bianche e nere facevano sembrare la stanza il bagno di una stazione, più che un luogo dove denunciare un crimine. Perlomeno, era facile pulire vomito e sangue…

Un uomo molto magro era seduto dietro il bancone e una lastra di vetro antiproiettile. Aveva i capelli molto corti e grigi, folti la metà delle sopracciglia cespugliose e nere. L’agente Peters si imbronciò, stringendo gli occhi. «Perché non siete passati dal retro?».

«Non mi hanno dato il nuovo codice d’accesso».

«Hmph. Coglioni». Si rivolse ad Alice. «Scusi il francesismo». Poi tornò a guardare me. «Vuole che le chiami qualcuno?»

«A dire il vero», si fece avanti Alice, «La dottoressa McDonald vorrebbe vedere il dottor Frederic Docherty. Cioè, sono io la dottoressa McDonald, ecco. In effetti sembrava un po’ strano, detto così. Comunque, può chiamarmi Alice».

Peters sollevò un folto sopracciglio. «Sì… d’accordo. E lei, capo?»

«Gli archivi».

Lui sbatté sul bancone il registro dei visitatori. «Molto bene, firmate qui e vi farò avere un passi, il codice comunque è tre-sette-nove-nove-uno. E può dire a quei coglioni al piano di sopra che se non gli piace il loro lavoro, possono anche licenziarsi». Si accostò borbottando al computer e domò la tastiera a colpi di due dita cariche d’odio. «Come se fosse colpa mia se non posso fare i turni di notte. Vorrei vedere loro a occuparsi di una sessantenne allettata con il cancro…».

«Ah… la dottoressa McDonald, giusto?». Frederic Docherty si alzò a metà dalla sedia e le fece cenno di accomodarsi dall’altro lato del tavolo della sala conferenze. Sempre in completo impeccabile, questa volta con camicia azzurra e cravatta bianca. «La prego, si sieda. Il suo amico si unisce a noi?». Mi guardò per un attimo.

Non mi mossi. «Ho di meglio da fare».

«Capisco».

Alice posò la busta sul tavolo e si sedette. Recuperò la mezza bottiglia di Grouse e la aprì. «Ne vuole una?»

«Ah…». Lui tornò a sedersi. «Mi lasci indovinare: ha lavorato con Henry Forrester, vero? Era un grande assertore del potere empatico-cognitivo di caffeina e whisky».

Lei ne versò un po’ nella sua tazza di caffè. «Due anni fa, stavamo cercando un serial killer. Sono… sono stata io a trovare il corpo di Henry in quell’hotel».

Il viso di Docherty si contrasse in una smorfia, come se qualcosa di aguzzo gli fosse stato conficcato sotto la pelle. «Era un brav’uomo. Un ottimo mentore. Quando ho sentito che era morto…». Un sospiro. «Deve essere stato terribile, per lei».

Alice buttò giù un sorso di caffè corretto, per poi pescare dalla borsa le lettere dell’Inside Man, tutte e sei coperte di tratti di evidenziatore e cerchi di penna rossa. Le posò sul tavolo. «Ho analizzato la forma e il contenuto delle lettere, e credo che dovremmo riconsiderare il profilo. L’Inside Man…».

«Se ne vuole parlare, ho lavorato molto con persone che avevano la necessità di elaborare un lutto».

Lei aggiunse un altro po’ di Grouse al caffè. «Il linguaggio che usa, lo stile… sono esagerati, vividi, come se volesse portarci lì con lui. Questi particolari non collimano con qualcuno che…».

«Non c’è nulla di cui vergognarsi. Quando Henry è morto, mi ci sono voluti dei mesi per elaborare le emozioni con il mio psicoterapeuta. Eravamo molto uniti. È…».

«…con il passato descritto nel profilo, quindi dobbiamo ripensarci e…».

«…farebbe bene alla sua salute emotiva».

Li lasciai al loro dialogo.