IV

Paura di volare

Caterina da Siena (1347-1380) aveva una gemella sopravvissuta pochi giorni alla nascita. Erano la ventitreesima e la ventiquattresima figlia di un tintore e della sua unica moglie, Lapa, vissuta evidentemente incinta e morta centenaria. A quindici anni i genitori vollero che Caterina si sposasse col cognato, vedovo della sorella maggiore appena morta di parto. Lei rifiutò. Chiese, piuttosto che andare in sposa al marito di sua sorella, di entrare nelle Mantellate, ma era troppo giovane per farlo. Allora si ammalò. «Il suo corpo si ricoprì di pustole che ne sfiguravano il volto, il collo e le braccia» scrive la studiosa Pamela Giorgi in Donne sante donne streghe, un’autentica miniera di informazioni sulle possibilità che le donne avevano nel Trecento di evitare matrimoni imposti, l’incesto paterno, tacere qualsiasi gesto di violenza e di «sopraffazione androcentrica»: farsi sante o streghe, appunto. Uscire dal circuito. Sante le benestanti, streghe le poverette: una questione di condizione sociale di partenza. Impressiona – nelle biografie fitte di risonanze e analogie fra sante e streghe – l’identica intensità e frequenza di disturbi fisici, noi diremmo psicosomatici. Conati di vomito, ronzii alle orecchie, capogiri. Piaghe, pustole, inspiegabili malattie della pelle. Senso di soffocamento, alterazioni motorie. Caterina soffriva di vertigini, disturbi della respirazione. Oggi sarebbero crisi di panico. Bernardina Floriani, fatto voto di castità e di digiuno, prese a cadere in estasi: le sue visioni avvenivano tra dolori lancinanti, emorragie e repentina comparsa di piaghe. Aveva le allucinazioni e stava malissimo. Umiliana de’ Cerchi, chiusa in una torre a pregare piuttosto che andare a seconde nozze con l’orrendo e violento marito designato, soffriva di contrazioni alla mandibola che le impedivano di masticare, i familiari le forzavano la bocca con un coltello, aveva lancinanti dolori di stomaco ed emorragie dal naso. Provava a uccidersi senza disporre di armi. Ugolina di Vercelli visse in un bosco per quarantasette anni cibandosi di bacche per sfuggire all’incesto del padre. Lo storico Rudolph Bell certifica che su centosettanta sante italiane del Medioevo almeno la metà mostrava sintomi dell’odierna anoressia: la «Santa anoressia», la fuga dal mondo attraverso l’astinenza assoluta, la privazione, la rinuncia al corpo. Caterina da Siena morì, del resto, di fame. Giovanna d’Arco, prima strega poi santa, bruciò senza dir parola sul rogo. Una prova di forza impressionante («fatevi una cella nella mente dalla quale non possiate uscire» diceva Caterina) che difatti impressionava popolo e sovrani. Le adoravano e le perseguitavano con pari foga e ostinazione. Ribelli, nemiche dell’ordine fondato sulla loro morte naturale per sottomissione, in fuga dal loro destino nell’unica direzione possibile: dentro di sé, se necessario contro di sé e alla fine senza di sé, meglio morte che umiliate e schiave. Capaci di una determinazione assoluta. Oltre due secoli dopo, a fine Cinquecento, Beatrice Cenci fu decapitata per aver ordito l’omicidio del padre piuttosto che continuare a essere violentata da lui: una folla immensa e devota l’accompagnò alla sepoltura. Bellezza Orsini, la più famosa delle streghe – una strega di nome Bellezza – era stata data in sposa bambina a un uomo che l’aveva abbandonata poco dopo la nascita del loro figlio, Bartolomeo. Ancor più del ripudio Bellezza non poté sopportare il rifiuto del figlio da parte dell’uomo che l’aveva generato. Lasciata sola col bambino: è qualcosa che sembra facile da capire e che invece non si può spiegare. È, per una donna, il più radicale e insopportabile dei rifiuti. Fu serva, imparò a dosare le erbe e farne «oli fioriti», fu processata e condannata a morte. Si uccise in cella tagliandosi la gola con un chiodo alla vigilia dell’esecuzione.

È proprio mentre leggevo di giorno la vita di Bellezza che la sera archiviavo alcune tra le migliaia di storie raccolte dai centri antiviolenza d’Italia. Ce ne sono in tutte le città, quasi in tutte. Si chiamano Artemisia, Demetra. Arianna la rete nazionale. Centri d’ascolto e d’aiuto: nel Medioevo non c’erano. Ho conservato, fra le storie, quella su cui avevo scritto a penna: «paura di volare». Anche gli aerei nel Medioevo non c’erano. Lascio Bellezza Orsini, suo figlio Bartolomeo, la sua ultima notte e il rogo già pronto per lei. Questa è Elena, cinquecento anni dopo: Roma, 2008. Riassumo, per quanto possibile, il suo lungo racconto.

«Ho avuto mia figlia da un uomo sposato. Quando sono rimasta incinta lui mi ha detto fai quello che vuoi ma non con me. È tornato dalla sua famiglia, dai suoi altri figli, non l’ho mai più visto. Ho pensato non c’è problema, non sono né la prima né l’ultima, ce la faccio da sola. Ce l’ho fatta: per un paio d’anni, quasi tre. Ho avuto altre storie senza importanza, brevi. Avendo la bambina, non potevo dedicarmici, finivano. In fondo non mi interessava. Poi ho conosciuto durante un viaggio di lavoro un collega di un’altra sede. All’inizio era protettivo, affidabile, presente. Ho capito che avevo bisogno anche io, in fondo, di qualcuno che si preoccupasse di me. L’ho fatto entrare, mi sono fidata. Dopo qualche mese mi ha minacciata per la prima volta, durante una discussione banale: tu e la tua figlia bastarda, mi ha detto. Il giorno dopo era disperato, mi ha chiesto scusa in ogni modo. Ho pensato: dev’essere difficile per lui, devo aiutarlo a farcela. È diventato un modo di convivere, un’abitudine: crisi, violenza, pentimento, perdono. Ho cominciato a dormire di meno. Sempre di meno: facevo dei sogni tremendi, quasi sempre precipitavo e morivo con la bambina. In macchina, scivolando a piedi in una scarpata, giù da un ponte. Un disturbo del sonno, mi ha detto il mio medico: mi ha dato delle gocce. Poi però ho cominciato a vedere quella scena anche di giorno: proprio come fosse una visione, un’allucinazione. Guidavo per andare al lavoro e vicino ai ponti, agli svincoli sopraelevati cominciavo a sudare, ad avere il cuore in gola. Mi vedevo precipitare con la macchina di sotto e sempre immaginavo di avere la bambina dietro, nel seggiolino. Non lo so spiegare ma lo vedevo davvero, lo vedevo talmente da aver paura che potesse accadere: di non potermi controllare. Accostavo, mi fermavo, aspettavo che mi passasse. Il medico mi ha mandata da uno specialista, lui mi ha detto che erano crisi di panico, mi ha dato altre gocce, diverse. È andata meglio per un po’. Un giorno poi ho dovuto prendere l’aereo. La sera prima avevamo litigato molto: lui mi aveva dato qualche ceffone ma niente di grave, poco. Io lo so che ce la sta facendo, ce la farà a tenere me e la bambina: devo solo dargli tempo, serve tempo. In aereo però, quando eravamo ancora sulla pista, non riuscivo a stare seduta. Ero sicura che sarebbe caduto ma non avevo paura per me, pensavo: la bambina con chi resta? Non posso partire senza la bambina, devo tornare indietro. Mi hanno aiutata le hostess, quella volta, mi hanno fatta stendere ma è stato orribile, davvero orribile. La volta dopo peggio: mi sentivo bruciare, ardere come nelle fiamme. Non posso partire senza mia figlia, lei ha solo me: questo è il punto. Però se non parto perderò il lavoro prima o dopo. Allora volevo chiedervi aiuto non tanto per me quanto per F, il mio ragazzo. Non ce l’ho con lui, lo ripeto, non è niente di grave: però se qualcuno potesse parlargli sarebbe meglio. Ma soprattutto, vorrei sapere: esiste una cura per chi ha paura di volare?»