VI

La mala educación

Partecipo alla presentazione di un libro di Massimo Ammaniti, psicanalista: Nella mente delle madri. Si parla della relazione madre-figlio. Ci sono alcuni suoi colleghi, docenti di letteratura, esperti di storia delle donne, insegnanti di scuola dell’obbligo, studenti, pubblico vario. È quasi ora di cena, comincia il dibattito. Si alza dal pubblico una signora sui quaranta, bionda, veemente. Dice, rivolta a me: «Scusi, tanto per sapere. Lei perché non è a casa a preparare la cena ai suoi figli a quest’ora invece di essere qui? Non crede che i suoi figli preferirebbero avere una madre che gli dà da mangiare, che sta con loro se hanno un problema, che li aiuta a fare i compiti piuttosto che stare con una babysitter perché mamma ha da fare? Ne ho abbastanza di tutte queste lezioncine impartite dalle pseudoprogressiste di successo che poi rovinano le loro famiglie. Snob, non siete altro che snob che si vantano di non mettere piede in cucina. Ringraziate piuttosto chi sta a casa al posto vostro a fare il lavoro per voi: i mariti, magari, anche». Dev’essere la parola snob che paralizza la mia lucidità: lo ha sempre fatto. Non capisco mai bene in che senso venga usata come corpo contundente: immagino ragazze alla Jane Austen che litigano per la piuma di un cappello da indossare alla festa, piccole donne crescono, algide fidanzate filiformi che simulano atteggiamenti da orsoline. Sono sempre fuori strada. La platea sussurra, qualcuno fra il pubblico annuisce: un paio di anziane mogli, mi pare, bisbigliano all’orecchio del consorte. Dico, confusa, che io di solito cucino, che i miei figli comunque questa settimana sono in gita. Sorrido, un po’ in sostanza mi scuso, faccio finta di prenderla come una battuta, passo oltre. Resto comunque molto a disagio: c’è qualcosa nel fatto che una donna della mia età mi dica, con quella rabbia, che non sono «al mio posto», che mi dispiace. Non capisco bene, dev’essere così: non sono in ascolto dunque non capisco.

Perciò ci penso, ci ripenso a distanza di giorni e faccio un mio personale elenco. Sono a disagio anche sul treno – intercity Roma-Milano, seconda classe, scompartimento pieno – perché la madre di questo ventenne con le cuffie dell’i-pod seduto a gambe larghe accanto a me sta in piedi fuori per cinque ore ininterrotte – lei, la madre, in piedi –, non si scambiano una parola per tutto il viaggio, quando passa il carrello delle bibite lui le fa cenno di comprargli una coca light, gliela indica col mento, lei la compra, gliela porge guardandolo estasiata, sorride agli altri passeggeri, cioè anche a me, con l’aria di dire: sono ragazzi, che volete; quando scendono lei porta tutte e due le valigie, lui solo il suo zainetto semivuoto su una spalla sola, annoiato. Lei gli parla, lui non le risponde. Lei arranca, lui la ignora.

Sono a disagio quando mi dicono, le donne soprattutto: quattro figli e tutti maschi? Complimenti. Complimenti per il genere, non per il numero, è chiaro.

Sono a disagio quando la maestra di ritorno dal campo scuola convoca i genitori per il resoconto del viaggio e di passaggio dice che i maschi, certo, dovrebbero avere cura di tirare l’acqua dopo essere stati in bagno perché le femmine lo fanno e insomma, via, non è difficile e le madri si sorridono e ammiccano e annuiscono: certo, sì, anche a casa tocca sempre a noi tirare l’acqua in bagno.

Sono a disagio quando al lavoro propongo di fare un servizio su quella ditta di elettrodomestici spagnola che ha inventato la lavatrice per famiglie numerose, si aziona riconoscendo le impronte digitali: la terza volta che la accende la stessa mano non parte più (prevede che la si usi a turno, diciamo così) e mi rispondono: che cosa spiritosa, che esagerazione però, chi vuoi che la compri, è una scemenza.

In fondo, ecco, ha ragione la signora del dibattito: non sono al mio posto. L’onda reazionaria che sta riavvolgendo all’indietro il film della storia mi ha sorpresa fuori sincrono. Pensavo di essere nello stesso posto degli altri ed ecco che mi trovo invece in una minoranza di protestatarie additate addirittura (addirittura!) come postfemministe con la data di consumazione scaduta. Che posto scomodo, che disagio. Mi ricordo che da bambina mio padre tornava dalle udienze in tribunale e passava l’aspirapolvere. Mia madre preparava il risotto e sul tavolo sgombro teneva le sue traduzioni. Lei era più brava di lui a riparare i transistor della radio e a rimettere in moto la macchina, lui più di lei a preparare i bagagli e a riconoscere dal profumo il nome dei fiori. Coi miei fratelli (maschi e femmine) ci svegliavamo alla stessa ora, andavamo nelle stesse scuole, abbiamo avuto le stesse incombenze quotidiane: portare fuori la spazzatura; vedere se manca il latte prima di uscire di casa e comprarlo al ritorno; lavarsi a mano la biancheria che stinge e non stenderla in bagno, assolutamente mai, che poi se uno deve farsi la doccia trova sei calzini appesi; chiudere il dentifricio dopo averlo usato se no si secca; non disturbare un fratello o un genitore che studia o che riposa se non per casi urgentissimi, caso mai lasciare un biglietto; telefonare sempre per avvisare del ritardo; occuparsi del più piccolo in caso di assenza degli adulti, leggergli una storia, giocare con lui. Non era sempre una meraviglia, è chiaro, è stato a volte anche molto difficile, ma le regole erano queste. Ho desiderato avere figlie femmine, ho avuto maschi e sono stata contenta lo stesso. Ancora mi sorprendo un poco quando mi dicono: lei deve avere accanto un uomo meraviglioso che la aiuta tantissimo per riuscire a fare il lavoro che fa. Gliene sarà grata... Ringrazio, naturalmente, per principio e per cominciare ringrazio ma non riesco a considerare una gentilezza il fatto che la persona con cui divido l’esistenza chiami l’idraulico se si sfascia un tubo o mi sostituisca alle feste di compleanno degli amichetti dei ragazzi quando non ci sono. Non una gentilezza, non direi questo: una necessità, un piacere, un inevitabile fastidio, dipende. Io faccio altrettanto, del resto, quando tocca. È strano ringraziare, no?

Nel liceo di mio figlio adolescente una brava insegnante, di fronte ai comportamenti da branco dei maschi e alle mises delle femmine che si presentavano a scuola alle otto di mattina truccate come Eleonora Duse a una prima di teatro (diciamo come Britney Spears a un concerto, ma più o meno è uguale) ha chiesto e ottenuto che le ragazze eliminassero almeno le extension delle ciglia («quelle ve le mettete la sera in discoteca, per scrivere in classe non servono») e che i maschi si impegnassero ogni giorno in un compito ritenuto femminile: aiutare i bambini piccoli, in mensa, a tagliare la carne. Un’ottima idea. Siamo lontanissimi dal discutere se tagliare la carne e aiutare i piccoli in mensa sia un compito femminile, se non sia piuttosto e solo un compito da adulti: intanto va bene così, i maschi a mensa. Siamo alla rieducazione, come è chiaro. Si ricomincia l’apprendimento dai colori e dalle forme delle cose: dall’alfabeto. Non è una buona idea insegnare ai maschi che le donne non si toccano nemmeno con un dito: le donne si toccano con tutte le dita, basta farlo con cura. Quelli che «la donna è sacra», i gentiluomini di casa come i fondamentalisti che la venerano e la velano sono gli stessi che poi la segregano, la violano, la comprano, la battono e la uccidono. Oppure se la tengono accanto a far bella mostra di sé, la sposano per esibirla o la nominano ministro per far bella figura, che non è peggio ma è triste lo stesso.

Le donne sono uguali. Molto diverse naturalmente ma, sotto il profilo delle possibilità e dei diritti, uguali, è persino imbarazzante doverlo ripetere ancora. Quindi ugualmente capaci di far bene e far male, di riuscire o fallire, di ricordare, di dimenticare, di mentire, di rispettare la parola, di insistere, di desistere, di essere fedeli o di tradire. E siccome prima di ogni adulto c’è un bambino e dietro un bambino c’è, se ha fortuna, una famiglia, eccolo il posto da dove si comincia. Il 70 per cento degli uomini trentenni, in Italia, vive coi genitori. Sette su dieci. Hanno a casa, quasi sempre, la madre. Sarebbe bello immaginare che si dividano equamente i compiti e le responsabilità ma temo che non sia così. L’accorato appello, a sostegno delle giovani donne che prima o poi accoglieranno nelle loro vite quei trentenni, è rivolto alle madri. Si potrebbe cominciare dal non essere particolarmente fiere di aver partorito (ormai molto tempo fa, tra l’altro) un figlio maschio. Non comunicare né con le parole né coi gesti che per la madre si tratta di un privilegio: addirittura non pensarlo. Considerare il fatto che si rifacciano il letto e raccolgano da terra i calzini non un gesto di generosità ma una semplice decenza. Che tirino l’acqua del wc dopo essere stati in bagno un obbligo; mostrare raccapriccio, fin da quando sono bambini per l’abitudine contraria a meno di non vivere in luoghi desertici e non raggiunti da acquedotto. Non lasciarli dormire fino a mezzogiorno o alle due perché hanno fatto tardi ieri sera, in fondo sono ragazzi. Se hanno fatto tardi, che dormano meno. Non essere fieri con gli amici della quantità delle loro conquiste sentimentali e dell’eventuale turnover, non considerare le concomitanze di fidanzamenti multipli naturale segno di virilità, semmai uno sbandamento, una fase passeggera. Non chiedergli cosa vogliono per pranzo, eventualmente chiedergli di preparare il pranzo. Non denigrare la fidanzata di turno perché inaffidabile, poco gentile, non premurosa. Per nessun’altra ragione, comunque, meno che mai prendere informazioni sulle sue doti muliebri e mostrarsi interdette se la ragazza ha intenzione di stare via sei mesi per uno stage a Boston. Se va a stare da solo, ma tanto capita di rado, oltretutto gli affitti sono carissimi e il lavoro manca, se comunque va a vivere da solo non offrirsi di lavare e stirare la sua biancheria portata a sacchi due volte a settimana, meno che mai andare a raccoglierla a domicilio. Non svegliarlo la mattina al cellulare perché non sente la sveglia, ha il sonno pesante. Non andargli a portare le chiavi di casa che ha dimenticato se lo fa di norma: una volta, due forse, poi basta. Non andarlo a prendere perché non gli va di venire in autobus, a meno che non se ne senta l’intima necessità dopo un’assenza di mesi. Non nascondere al marito le malefatte del figlio, non fare la parte di quella che tutto comprende e tutto risolve, quella che «non lo diciamo a papà», ma nemmeno lasciare che il marito – o il compagno, o il fidanzato,

o chiunque sia – sia quello che gioca alla playstation e vede la partita in tv col figlio maschio che così si divertono e sono proprio simpatici quei due mentre la madre, quella rompiballe, sta di là in cucina sempre a lamentarsi e la sorella rifà i letti e scrive un diario perché non può uscire la sera. Ecco, ripartirei da qui. Poi magari fra una trentina d’anni vediamo anche di fare una legge contro i maltrattamenti domestici, contro la violenza segreta dentro casa, uomini che schiavizzano e segregano e picchiano le donne. Semmai però, se proprio serve, perché tanto sarebbe di certo inutile, a quel punto.