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Lee

Nel 1907, lo stesso anno in cui a Parigi Pablo Picasso dipinge Les demoiselles d’Avignon e Dora Maar viene al mondo, nasce a Poughkeepsie, New York, Elisabeth Miller.

Elisabeth (Li Li, infine Lee) è figlia di un proprietario terriero di origine tedesca, industriale divenuto ingegnere per corrispondenza, fotografo per passione.

Unica femmina fra due fratelli.

Il padre comincia a fotografarla nuda fin da bambina, i biografi parlano di una possibile relazione incestuosa. Poserà nuda per lui tutta la vita, anche da adulta.

Quando ha sette anni la madre si ammala e manda la bambina a vivere da parenti in città. Un giovane della famiglia la violenta.

Contrae la gonorrea. Non esistono antibiotici, la malattia si cura con dolorose docce interne e irrigazioni. I fratelli raccontano che sentivano le grida della piccola ogni mattina, in bagno, mentre la madre la curava. Per mesi qualsiasi cosa tocchi deve essere sterilizzata.

Da adolescente è espulsa da scuola per cattiva condotta.

La famiglia la manda a Parigi a studiare teatro, dopo un anno torna a New York. Un giorno per strada la investe una macchina. La soccorre Condé Nast, l’editore. Lee è una giovane donna di spettacolare bellezza, il profilo di una divinità greca. Lui le propone, mentre la aiuta ad alzarsi, di posare per «Vogue».

Diventa modella, la più richiesta dalle riviste di moda, ma vuole essere fotografa. Torna a Parigi, ha in tasca l’indirizzo di Man Ray: 31 bis, rue Campagne Première. Lui non è in casa. Lo incontra per caso al Bateau Ivre, il caffè lì vicino. Voglio lavorare con lei, gli dice. Non è possibile, sto partendo per le vacanze, lascio oggi la città, risponde lui. Lo so, vengo anch’io.

È il ’29. Lui ha diciassette anni più di lei. Vivranno insieme tre anni.

Sviluppano insieme le foto in camera oscura. Un incidente fa scoprire a Lee la tecnica della solarizzazione. Qualcosa, al buio, le urta una gamba: forse un topo, o un gatto. D’impulso accende la luce. Le foto immerse nella vaschetta dei liquidi, nudi della famosa cantante Suzy Solidor, prendono luce e acquistano un contrasto intenso e poetico. È la tecnica che renderà celebre Man Ray.

Lui è ossessionato dall’impossibilità di averla davvero per sé: la fotografa a pezzi, il collo, un occhio, la bocca. «Mi odio quando cerco di afferrare in te ciò che ammiro e che è così raro.»

Lei è la statua di Jean Cocteau nel film Il sangue di un poeta. L’arlesiana di Picasso (per sei volte, in sei quadri). Le labbra nel cielo di Man Ray, e il collo che sanguina, e l’occhio dietro il metronomo.

Lascia Man Ray, apre uno studio da sola, conosce a Saint- Moritz – sulla passeggiata dove si incontrava Charlie Chaplin – un silenzioso uomo d’affari egiziano, Aziz Eloui Bey. Lo sposa, va a vivere con lui in Egitto.

Fotografa il deserto, soffre la vita di moglie borghese di palazzo. Nell’estate del ’37 torna, da sola e col consenso del marito, in vacanza a Parigi. A una festa in maschera conosce Roland Penrose, critico d’arte e collezionista. La mattina seguente si svegliano nello stesso letto. Due settimane dopo è da lui in Cornovaglia. Vanno insieme da alcuni amici a Mougins a trovare Picasso che passa lì l’estate con Dora Maar. Gli amici sono il suo ex amante Man Ray con la nuova compagna Ady Fidelin, Paul e Nush Éluard. Penrose scatta la celebre foto Pic Nic, le tre donne attorno a un tavolo sedute a terra a seno nudo, gli uomini vestiti. Picasso e Lee diventano amanti. Dora lo sa, Penrose anche.

Torna in Egitto, per poco. Nel ’40 è di nuovo in Inghilterra da Penrose. Ricomincia a lavorare per «Vogue», si specializza in ritratti: Margot Fonteyn, Bob Hope, Clark Gable, Henry Moore. Si annoia. Chiede al giornale di poter andare al fronte come fotografa di guerra.

Parte. Conosce il fotografo americano David Sherman, molto più giovane di lei, inviato di «Life». Diventano amanti, un ménage à trois di cui Penrose diceva: «Un poco mi secca quando torno a casa trovare il suo pigiama sotto il cuscino».

È accreditata da «Vogue» per lo sbarco in Normandia. Arriva a Omaha con David poco dopo il D-day. Assiste in diretta alla presa di Saint-Malo sotto le bombe.

Entra nelle prigioni della Gestapo e fotografa i sopravvissuti. Muti, pazzi. È la prima donna fotografo a entrare a Dachau. Fotografa montagne di morti, escrementi, scheletri ancora vivi e kapò suicidi. Un medico militare di Dachau: «Fece foto che io non ero riuscito a scattare». A Monaco cerca con Sherman una casa dove dormire, la trovano: è l’appartamento di Hitler. Lee si infila nella vasca del dittatore, Sherman la ritrae così: nuda, gli anfibi sul tappetino, la foto di Hitler accanto al sapone.

Dopo il ’45 si spinge a est. Austria, Ungheria (la arrestano i russi), Renania. Soffre d’insonnia e beve molto. Le sanguinano le gengive. È sola. Ha con se solo un gatto che porta sempre dentro la giacca militare. Il gatto si chiama Warum. In tedesco significa «perché». Muore investito da un’auto: Lee si chiude in una stanza e piange per giorni. Torna a casa, da Penrose.

Nel ’46 resta incinta. Partorisce il suo primo e unico figlio a quarant’anni. Non si usava, all’epoca. Il giorno prima del parto, sicura di morirne, fa testamento. «Avrei dovuto rompere il silenzio che mi si impone in fatto di sentimenti e dirti quanto ti ho amato» scrive a Penrose.

La fama del marito nel dopoguerra cresce, la sua si spegne.

Sta in casa, si dedica al figlio e alla cucina. Soffre di insonnia e beve di notte. Prepara da mangiare di giorno: una volta, per esempio, un pesce blu in onore di Mirò. Lava gli spinaci in lavatrice, i lamponi con il whisky. Diventa una cuoca di fama. Vince concorsi internazionali di cucina, scrive ricette per riviste. Si specializza in dolci.

Ingrassa.

Muore di cancro. Nell’ultima foto, il giorno prima, è a letto con una fascia azzurra come i suoi occhi che le tiene i capelli, sorride.

Antony Penrose, suo figlio, ha scritto di lei: «È sempre stata incapace di avere relazioni stabili coi suoi amanti. Di tutti gli uomini che ha conosciuto quello che amò più di tutti fu, senza alcun dubbio, suo padre».

Lei, di se stessa: «Sembravo un angelo, fuori. Mi vedevano così. Ero un demonio, invece, dentro. Ho conosciuto tutto il dolore del mondo, fin da bambina».