V

Circe

Una maga orribile e cattiva. Una maga orribile e cattiva. Una maga orribile e cattiva. La leggiamo ancora, bambini? Di nuovo, ancora la stessa? «Sì, dai mamma, la stessa.» Si sa che i bambini vogliono sentire sempre la stessa storia. Questa poi è magnifica: racconta di una donna bellissima e anche orribile, a pensarci bene, orribile perché faceva paura. Una maga triste. «Era cattiva perché era triste, no?» chiedono i bimbi. Certo, era diventata cattiva perché non voleva più restare sola, era disperata, tutti le davano dei baci, le dicevano: come si sta bene con te, si sta proprio benissimo come in paradiso. Poi se ne andavano, però. Dopo un po’ la salutavano e partivano. A volte non la salutavano nemmeno, partivano di notte senza dirle niente, così la mattina lei si svegliava e non trovava nessuno. «E dove andavano?» Tornavano a casa, dalle loro famiglie, dai loro figli. «E non tornavano più da lei?» No, non tornavano più. Così lei restava di nuovo sola e alla fine si arrabbiava tantissimo, ma tantissimo. Allora faceva le magie. «Come aveva imparato a farle? Le sai fare anche tu?» No, io non le so fare. Però certe volte quando proprio non c’è altro rimedio le persone fanno certe cose che sembrano magie e uno non sa mica dove le ha imparate. Gli sono venute così, in quel momento. Le fa e basta. «Dai mamma, leggi: c’era su un’isola una maga orribile e cattiva... Dai, prendi il libro, leggi.» Va bene, ma è l’ultima volta. Si chiamava Circe, viveva su un’isola.

«Euriloco era talmente terrorizzato che non riusciva a parlare. Quando alla fine si era calmato e Ulisse gli aveva di nuovo chiesto chi ci fosse in quella casetta in mezzo all’isola dove erano approdati, Euriloco aveva detto poche e chiare parole: una maga orribile e cattiva. “E che genere di magie farebbe?” aveva domandato Ulisse. “Magie del genere sparizioni e misteriose trasformazioni.” “Ah!” aveva detto Ulisse.»

«Ulisse era bello, mamma?» Sì, molto bello e coraggioso. «Allora adesso lui va a vedere nella casetta.» Sì, va a vedere.

«Aveva deciso di andare da solo a dare un’occhiata. Si era addentrato nel bosco finché non aveva visto una radura. Nel mezzo c’era una casetta con il fumo che usciva dal comignolo sul tetto. Be’, aveva pensato, sembra il disegno di un bambino, non deve essere un posto molto pericoloso, questo. C’è da dire che lui non aveva visto i lupi e i leoni che stavano intorno alla casa a fare la guardia. Forse per questo aveva pensato che fosse un posto tranquillo.

«Siccome tutte le volte che aveva mandato in perlustrazione due uomini e l’araldo, che poi sarebbe l’ambasciatore, era finita che qualcuno se li era mangiati, stavolta Ulisse decise di fare due gruppi di uomini e di tirare a sorte. Il primo gruppo l’avrebbe comandato lui e l’altro Euriloco, il suo uomo migliore, il capitano in seconda. Un gruppo sarebbe rimasto a fare la guardia alla nave, l’altro sarebbe andato a vedere chi c’era nella casetta. Toccò a Euriloco. Non che ne fosse molto contento, però era andato. E il giorno dopo era tornato da solo e in preda al terrore.»

«La maga aveva fatto la magia.» Infatti, sì. Euriloco era arrivato alla casa con venti uomini, avevano visto i leoni e i lupi che ci giravano intorno ma la cosa strana è che le bestie feroci non li avevano aggrediti, anzi: gli scodinzolavano intorno, come cani addomesticati quando accolgono il padrone.

«Bussarono alla porta e chiesero permesso. Un’ancella molto bella gli venne incontro e aprì la porta. Poi andò a chiamare la padrona di casa. E arrivò Circe.

«Questa storia che Circe fosse una maga orribile e cattiva non è che sia proprio esatta. Tanto per cominciare non era affatto orribile, anzi era molto bella. Ma molto bella. Euriloco e i suoi rimasero a bocca aperta non appena la videro. È questa la prima cosa che andrebbe detta di Circe, che era una donna bellissima. Talmente bella che i nostri non riuscirono a trattenersi dall’entrare in casa sua, non appena lei li invitò. Tranne Euriloco, che di donne belle ne sapeva qualcosa e quindi rimase in disparte, si nascose dietro la casa e osservò tutta la scena.»

«Lei gli dà da bere una pozione e li trasforma!» Proprio così: in maiali. «E cosa c’è nella pozione, la facciamo anche noi?» No, non lo so come si fa. Comunque bisogna stare molto attenti perché a volte uno si trasforma in maiale anche senza bere una pozione. O in orco, in coniglio, in squalo. «Davvero? E come?» Senza fare nessuna fatica: si vede che lo è già, da qualche parte, un po’ orco, coniglio, squalo o maiale. Così, all’improvviso, certe volte si vede quello che è. «Dai mamma, non raccontare un’altra storia, continua questa.» D’accordo, allora gli uomini bevvero la pozione e si trasformarono.

«Qualcuno grugnì, a qualcuno spuntarono delle setole al posto dei peli sulle braccia, poi gli uscì fuori una coda arricciata e un muso da maiale.

«La magia le era venuta alla perfezione, Circe era molto soddisfatta. Anche stavolta quegli uomini non l’avrebbero lasciata e, come gli altri, trasformati in lupi e leoni, sarebbero rimasti a proteggerla e a farle compagnia su quell’isola sperduta. Euriloco si era preso un bello spavento a vedere i suoi compagni tramutati in maiali. Era tornato di gran corsa verso la nave. E aveva raccontato tutto a Ulisse.»

Una maga orribile e cattiva: è quello che abbiamo detto all’inizio.

«Ora va Ulisse dalla maga?» Sì, ora ci va lui.

«Sentì un rumore alle sue spalle, come di foglie, come il fruscio di un paio d’ali. Allora si fermò, si mise in ginocchio e chinò la testa.

«Aveva capito che quello era Ermes, dio dei ladri, poeta e fingitore e, cosa più importante di tutte, messaggero di Zeus. Ulisse aveva imparato, col tempo, a riconoscere gli dei. Quando un dio si mostra, è perché deve dirti qualcosa di importante. Se non lo sai riconoscere è facile che se la prenda a male. Appena aveva sentito il fruscio che fanno le ali dei sandali di Ermes, si era inchinato. Ermes era un dio già di suo piuttosto simpatico e apprezzò molto il gesto di Ulisse. Fece un gran sorriso e apparve in tutta la sua bellezza. Stava accovacciato sul bordo di uno stagno e osservava cosa succedeva gettando dei sassolini dentro l’acqua.

«“Dove vai così di fretta, Odisseo?” disse Ermes, senza smettere di guardare lo stagno. Odisseo è il modo greco di chiamare Ulisse, e siccome Ermes era anche il dio delle lingue e dei linguaggi, lo chiamò in greco. A parte il fatto che lui era greco.

«“Da Circe, la maga, mio signore” rispose Ulisse.»

«Ecco, mamma vai più piano: ora lui gli dice come fare a non essere trasformato in maiale, sa le formule contro le magie come Voldemort, sai quello di Harry Potter?» Sì, infatti, fra dei e maghi non c’è tutta questa differenza: si capiscono. Infatti, ecco.

«“È una maga pericolosa, Circe” disse Ermes dai sandali alati. “Ma non è cattiva, e nemmeno orribile. Anzi, vedrai che è molto bella, molto. Lei vorrà darti da bere una pozione magica per trasformarti in qualche bestia selvatica. Perché vuole che restiate qui. Si sente sola, tutti gli uomini che vengono da lei poi scappano. Forse perché è troppo bella, o perché è un po’ magica... Va be’, comunque tu prendi questa erba e mangiala, vedrai che la sua pozione non funzionerà. Lei allora vorrà stare con te, vorrà amarti. Tu fallo, lei merita il tuo amore. Ma falle promettere che poi libererà i tuoi compagni. Devi essere molto duro e deciso con lei, ma nello stesso tempo devi volerle molto bene.”»

«E Ulisse va.» Va, bussa alla sua porta.

«Circe era davvero molto bella. E non sembrava neppure troppo cattiva. Certo era una donna determinata e, come aveva detto Ermes, c’era qualcosa di magico in lei, qualcosa che può fare anche un po’ paura. Ulisse fece come aveva detto Ermes e la pozione magica di Circe non funzionò. Lei all’inizio rimase abbastanza stupita, poi cominciò a fare gli occhi dolci e a cercare di incantare Ulisse. Allora lui tirò fuori la sua spada e la puntò verso il petto di Circe. “Tu adesso” le disse “devi liberare i miei compagni e trattarci come ospiti di riguardo.” Lei lo guardò spiazzata, non era abituata ad avere di fronte uomini così determinati e sicuri di sé. Allora Ulisse vide che non era poi troppo cattiva, e vide che in fondo ai suoi occhi c’era una grande dolcezza. Lasciò cadere la spada e la baciò.

«Circe e Ulisse stettero insieme per un anno intero.»

«E anche tutti i suoi compagni che erano tornati uomini?» Anche loro, restarono tutti.

«Stettero molto bene. Avevano da mangiare, da bere, andavano a caccia, giocavano a dadi e ogni tanto andavano anche al mare. Le ancelle di Circe accudirono con molta attenzione i compagni di Ulisse. E Circe accudì Ulisse. La sera, spesso lui andava a guardare il mare dalle scogliere. E pensava alla sua casa e a Itaca. Però dopo un po’ Circe lo raggiungeva e cercava di distrarlo, insieme passeggiavano per i giardini dell’isola e parlavano. Si stava bene con Circe, era una donna molto intelligente, ed era molto divertente parlare con lei, non ci si annoiava. Ulisse raccontava della guerra di Troia, Circe degli dei e delle loro storie, e parlavano finché il sole non si era del tutto nascosto dietro il mare color del vino.» Erano felici.

«Allora perché anche Ulisse se ne va, mamma?» Questo non lo so bene. Forse perché era troppo bello stare lì e quando una cosa è così bella uno ha paura che finisca allora la fa finire lui per primo. «Ma dai, non è possibile.» Sì, sì, a volte succede. Comunque Ulisse aveva anche un dovere, un viaggio da finire: e poi gli mancava la sua casa, aveva nostalgia della sua famiglia. Tutte queste cose insieme. Dunque se ne va e Circe resta di nuovo da sola nella sua isola. «Triste?» Un po’. Però poi qualcun altro arriverà di certo con una nave a farle compagnia, state sicuri. E se si comporterà bene con lei, se ne avrà cura come ha detto Ermes, lei non gli farà nessuna magia e vivranno insieme nella casetta. «Felici e contenti?» Proprio così, felici e contenti.

Ogni volta che, come stasera, rileggo il modo in cui Giovanni Nucci ha riscritto per ragazzi, in fascicoli, l’Odissea (sue le parole fra virgolette, sua la parte di racconto. Lo pubblica l’editrice E/O, il libro s’intitola Ulisse: il mare color del vino) penso che davvero non ci siano storie più belle di queste e che nessuno le abbia tradotte in fiaba con più grazia e acume e profonda saggezza. Circe più di tutti ci incanta: i bambini e me. Le magie, certo. L’amore, ovvio. Le bestie feroci e il dio con le ali ai piedi. E poi anche la disperazione alla radice del male: era sola, se ne andavano tutti, si mise a fare magie. La forza distruttiva («orribile e cattiva») che si esercita tranquilla quando il disamore ti assedia: non c’è altro da fare, in quelle condizioni, si direbbe. Elena Cantarone, che non è Omero ma che per la sua parte sa di cosa sta parlando, ha scritto un monologo intitolato Marini Vera fu Gaetano. È preso da lì il brano sui barattoli di marmellata e il biancospino che precede queste pagine. Racconta (e recita lei stessa, attrice salentina) la fulminante storia di una candida assassina. Una donna qualunque, una donna del Sud. Una Circe analfabeta. Marini Vera declina così, prima il cognome poi il nome, le sue generalità a un invisibile commissario di polizia. Il monologo parte da qui e per più di un’ora racconta la storia del suo delitto. Lo fa con voce a tratti infantile, lo dice in forma sgrammaticata, lo enuncia con l’evidenza di chi spiega di aver fatto l’unica cosa che poteva. Davvero con amore, non c’era altro da fare. Lui la voleva lasciare, voleva andarsene e non era proprio più possibile restare sola di nuovo. Dopo quella vita d’inferno, dopo le violenze, i figli nati non si sa da chi, dopo che tutto il paese l’aveva chiamata pazza e poi puttana, le donne del paese a chiudersi in casa al suo passaggio, gli uomini a farle i gesti per strada perché gli sarebbe piaciuta, a loro, Marini Vera per una sera o due e invece lei sempre sola, a casa, sempre sola. Poi era arrivato Franz e si erano amati così che quando lui aveva detto: bene, adesso vado, è ovvio che lei non poteva lasciarlo andare, di certo anche lui la amava, solo che non l’aveva capito bene, poveretto, si sa che gli uomini a volte sono un po’ lenti in queste cose, hanno paura, bisogna avere pazienza. Così lo ha tenuto, per il bene di entrambi, è chiaro: lo ha fatto a pezzi nella vasca, lo ha cotto fino a scioglierlo, lo ha conservato in frigo per due anni. Attenti bambini a non aprire i barattoli della marmellata, non è ancora buona. Poi un giorno non ce l’ha fatta più, i bimbi aprivano il frigo da soli, ormai erano grandi abbastanza, e allora ha portato Franz, tutti i barattoli pieni di Franz ridotto marmellata, sotto il biancospino della villa comunale. Mezza giornata ci hanno messo i poliziotti ad andare a suonarle alla porta. Lei li aspettava con il vestito buono, aveva mandato via i figli per tempo, ché non avessero a spaventarsi delle divise. Meglio così, dice Vera mentre va verso la prigione. In un certo senso è anche questa una storia a lieto fine: tutto dipende da cosa si intende per lieto, rispetto a cosa, e anche per fine, rispetto a quale. Meglio non raccontarla ai bambini, comunque, per ora. Meglio restare su Ulisse, che almeno torna a casa da Penelope devota, silenziosa e molto paziente, beata lei.