VIII

Franca

Franca non ha mai raccontato la sua storia e non lo avrebbe fatto se non fosse che proprio da pochi giorni ha deciso di fare causa, se sarà necessario, al suo datore di lavoro. Finalmente, dice, ha deciso. Sono state anche le altre donne a convincerla. Quelle della fabbrica e quelle del consultorio dove è andata per abortire. La ginecologa, l’assistente sociale. Era la seconda volta che si trovava di fronte a questa scelta: il figlio o il posto di lavoro. «Una volta può capitare, due no.» La prima è stata undici anni fa. «Tenevo la contabilità in una piccola impresa alimentare qui in provincia di Napoli. Quarantadue dipendenti in tutto. Quando sono rimasta incinta avevo venticinque anni, non ero sposata, quello che adesso è mio marito era disoccupato e lo è ancora, sono sempre stata io a portare a casa lo stipendio, ma questa è un’altra faccenda e non me ne voglio lamentare. Lavoravo in ditta da un anno e mezzo. Avevo paura di dirlo al titolare perché lui si era raccomandato: io le do questo incarico di prestigio, le affido i conti, le do fiducia ma lei non faccia scherzi. Intendeva niente figli, sì, certo. Così sono andata e gli ho detto: guardi, dottore, io mancherò dal lavoro giusto il tempo del parto, glielo assicuro. Non voglio aspettativa, starò assente al massimo due settimane, faccia conto che siano ferie. Lui mi ha detto che no, che questo era contro la legge e che sarebbe stato obbligato a sostituirmi. Insomma non mi rinnovava il contratto. O il figlio o il lavoro. Così ci ho pensato tanto, ma tanto. Ho pianto tutte le notti ma per strada non potevo restare, avevo bisogno del lavoro. Alla fine ho detto ok, sono giovane. Questo figlio non lo posso tenere, ne verrà un altro.» E così Franca, era il 1996, è tornata nel suo ufficio, ha detto al titolare: tutto a posto, ho risolto. Si è meritata molti rallegramenti e una promessa di assunzione. È stata assunta quattro anni dopo. «Lui, quando mi ha fatto il contratto, mi ha dato da firmare anche una lettera di dimissioni in bianco. “Si usa così” mi ha detto. In caso di gravidanza mi sarei licenziata spontaneamente. Anche le altre l’avevano firmata. Solo una mi ha detto non farlo, vattene. Denuncialo. Ma io come facevo a denunciarlo? Gli avrei sparato dalla rabbia ma denunciarlo no, dove andavo dopo, chi mi avrebbe presa più?» Gli avrei sparato, dice proprio così. Per due anni è stato in tournée in Italia lo spettacolo di Paola Cortellesi, Gli ultimi saranno ultimi. È la storia di Luciana, operaia incinta al settimo mese alla quale non viene rinnovato il contratto. Un monologo delicato e durissimo. Luciana prende una pistola e spara, alla fine. Spara davvero. Racconta la sua vita, così simile a quella di Franca e a migliaia di altre. Non è mica matta, vuole solo quel figlio. Per questo spara, non vede cos’altro potrebbe fare. All’ultima replica, qualche giorno fa, nel teatro di Tor Bella Monaca, a Roma, la gente applaudiva in piedi. Poi fuori dal camerino della Cortellesi c’era la fila di donne che andavano a dire grazie. Tor Bella Monaca è un posto dove di carte in bianco, illegali, capita di firmarne parecchie. Oggi Franca ha trentasei anni. Giovane, ma non più una ragazzina. «Così quando ho visto che ero incinta sono stata felicissima, all’inizio. Proprio tanto felice. Però mio marito mi ha detto: ma sei matta? Vuoi perdere il lavoro? E noi come campiamo? Sa, mio marito è disoccupato. Gliel’ho detto no? Poveretto. È tanto una brava persona. Abbiamo discusso tutta la sera, poi lui mi ha detto vai a prendere la pasticca e io sono andata a cercarla. La pillola del giorno dopo, quella. Però era sabato e trovavo tutto chiuso: il consultorio era chiuso, in ospedale non c’era il medico addetto. In farmacia senza ricetta non me la davano. Ho pensato: vedi, è il destino. Non sapevo dove andare, ho chiamato una mia collega di lavoro un po’ anche amica: a casa sua ci siamo trovate in quattro, alla fine, quella sera. Mi hanno detto tienilo e anche io ho pensato sì, questo bambino lo devo tenere. A mio marito ho detto: non ti preoccupare che risolvo tutto io. Non mi faccio licenziare, vedrai. Come mangiamo in due mangiamo in tre, non ti preoccupare. Poi, il lunedì sono andata al consultorio.»

Di tutto si parla, quando si parla di aborto, tranne che di questo: la pistola messa alla tempia delle donne da datori di lavoro che in maniera subdola o persino esplicita rifiutano di farsi carico degli obblighi di legge sulla tutela della maternità. Le carte di «dimissioni volontarie» firmate in bianco all’atto dell’assunzione sono una pratica sulla quale non esistono statistiche – sono illegali, coperte dalla paura – e tuttavia confermata da qualche rara ricerca sul campo: ne parla il documentario di Silvia Ferreri, Uno virgola due, per esempio. È una delle ragioni delle «culle vuote». Ne parla qualche isolato sindacalista, il tema è molto impopolare. Non ce n’è traccia, ovviamente, nelle relazioni del ministro della Salute sullo stato di attuazione della 194. Non può essercene, non sono dati che si raccolgono alla luce del sole. Nel suo ultimo resoconto il ministro ha riferito alle Camere che l’aborto diminuisce in modo più significativo dove sono più numerosi i consultori familiari e, per categorie, «tra le donne coniugate, occupate e con più alto livello socioeconomico e di scolarità». Le donne con un lavoro fisso abortiscono di meno, ecco, questo almeno è chiaro. Si è anche ridotto radicalmente l’aborto clandestino: fino a trent’anni fa, prima della legge, si registravano trecentocinquantamila casi all’anno, oggi se ne stimano attorno a ventimila, per il 90 per cento concentrati al Sud, dove il lavoro femminile è più precario e raro che nel resto del paese. La stima si fa mettendo insieme diversi indicatori fra i quali il numero di «aborti spontanei» registrati nelle strutture pubbliche: spesso dopo un aborto clandestino è necessario un ulteriore passaggio in ospedale per complicazioni o conseguenze. Quando gli aborti spontanei superano di molto la media nazionale è chiaro di cosa si tratti. Diminuiscono anche gli «aborti ripetuti», quasi la metà del numero atteso, secondo un astratto ma sperimentato e condiviso modello matematico. Segno che la prevenzione e l’educazione alla contraccezione funzionano nonostante lo svilimento e impoverimento dei consultori familiari. I consultori servono, funzionano, dovrebbero essere potenziati e messi a regime semmai, dice Michele Grandolfo, dell’istituto superiore di Sanità. Grandolfo lavora al Progetto obiettivo materno infantile e per questo si batte: «Perché da lì, dalle strutture pubbliche sul territorio, passa la crescita di consapevolezza delle persone». Franca, per esempio. Franca il lunedì è andata al consultorio. Ha detto: «Dovrei abortire». «Dovrebbe? Perché?» le hanno chiesto. Lei ha spiegato: «Mi licenziano se no». Lo ha detto all’assistente sociale, alla ginecologa. Poi lo ha detto al coordinatore chiamato subito a sentire questa storia. «Lui mi ha spiegato che il titolare non può licenziarmi e che la lettera in bianco che ho firmato non vale niente, che lo devo denunciare se insiste e che se insiste ancora gli facciamo causa e comunque il lavoro non lo perdo. Proprio così, ha detto: “facciamo”. Poi mi ha fatto parlare con un esperto di leggi, uno del sindacato. Hanno detto che ci pensano loro, adesso. Ci parlano loro col titolare. Se capisce subito, bene, altrimenti lo portiamo in tribunale, hanno detto. Io non ho più paura, comunque. Qualche santo mi aiuterà, sono sicura. A mio marito gli ho già detto che è tutto a posto anche se non è proprio vero. Andrà a posto. Io però questo bambino lo tengo.»