XI

Barbablù e le spose cadavere

La barba di Barbablù non doveva essere blu, non credo. Doveva essere così nera da sembrare blu. D’altra parte si dice del cielo, a volte: così nero, quasi blu. Come se il blu aggiungesse qualcosa di più fondo ancora e, insieme, di vivo. Come se ci fosse una luce nel nero.

Barbablù sposava le ragazze e le uccideva, poi nascondeva i loro corpi in cantina. Così, in serie. Il primo serial killer delle favole. Marito omicida seriale, impunito. Perché lo facesse, la storia non lo spiega: non per soldi, era ricco e viveva in un castello. Non per gelosia, le sue mogli non lo tradivano né potevano avere la tentazione di farlo: vivevano isolate nel maniero, sole con lui. Non per rabbia, non per reazione a qualche episodio che potesse scatenarla: niente di tutto questo dice la storia. Solo che le uccideva.

L’anno scorso sono uscite in Italia quattro nuove traduzioni e due rielaborazioni della favola. Molte, per un classico. Una versione col cd, una in rima, una tradizionale coi disegni moderni, una moderna coi disegni tradizionali. Chissà perché tutto questo Barbablù proprio adesso.

In rete, nei blog, nei siti dedicati all’infanzia e nei forum tra educatori e genitori si rianima il perpetuo dibattito: perché si dovrebbe leggere ai bambini una favola che fa così tanta paura. Qualcuno dice: tutte le favole fanno paura. Vogliamo parlare di Cappuccetto rosso, di Hänsel e Gretel, dei sette nani? Qualcun altro dice: la paura è necessaria al suo superamento. Bisogna accompagnare i bambini nella paura e portarli per mano fuori da lì: a poco a poco, con dolcezza. Insegnar loro a dire: ho paura. Dir loro: anche io che sono grande ce l’ho, poi passa.

Qualcuno ancora, infine, dice: sì, ma questa fiaba fa davvero troppa paura, e poi non ha morale. Qual è la morale di Barbablù, cosa insegna: a non disobbedire al marito cattivo? A farlo se proprio non si riesce a vincere la curiosità di aprire quella porta e poi aspettare che qualcuno venga a salvarti? I fratelli della donna, a cavallo: i due cavalieri al galoppo, sono loro che arrivano a uccidere il mostro e a portarla via. Dunque alla fine, vedete, la ragazza viene data in sposa dalla sua famiglia all’uomo misterioso e potente, passa dalla tutela dei genitori a quella dell’orco, torna infine sotto quella dei fratelli. La fiaba spiega che le donne sono disobbedienti e curiose: non sanno rispettare un divieto né resistere a una tentazione, come Eva. Che sono sedotte dal denaro: il castellano è vecchio e brutto ma molto ricco. Che hanno bisogno di qualcuno per cavarsela, comunque. Non un granché.

Sulla copertina del grande fascicolo delle «Fiabe sonore», nelle edizioni Fabbri con il vinile da mangiadischi di quando ero bambina, ricordo perfettamente che l’Orco non c’era. Si vedeva, invece, una donna di spalle che sventolava un fazzoletto bianco e una carrozza lontano. Coglieva l’attimo dell’errore fatale o forse del peggiore inganno: il momento in cui la madre si congeda da sua figlia, la manda in carrozza al suo destino nel castello, la saluta da lontano. La madre sa, pensavo. Questo suggerisce l’immagine, il fatto che la donna sia di spalle e non se ne veda il volto. La madre sa cosa Barbablù farà alla figlia, in fondo lo sa. Immaginavo che piangesse, infatti. Doveva essere questa la ragione per cui il disegno ne nascondeva il viso: doveva essere senz’altro quello di una madre che piange.

La fiaba l’ha scritta Charles Perrault alla fine del Seicento. Perrault era un ricco nobiluomo alla corte di Francia. Aveva un fratello gemello morto a sei mesi e un’incredibile vocazione a inventare storie venate di terrore: Cappuccetto rosso, Pollicino, La bella addormentata. Barbablù non era però del tutto inventata. Poteva ispirarsi alle mogli di Enrico VIII, certo, ma più probabilmente – dicono gli studiosi – alla spaventosa storia di Gilles de Rais: erede di una fortuna colossale, eroe nazionale alla presa di Orléans e compagno d’armi della Pulzella, salito infine sul patibolo e impiccato per aver violentato e ucciso in un decennio, nel Quattrocento, alcune centinaia di ragazzi. Bambini, non mogli. Ma i bambini non sono un oggetto di desiderio adatto a una favola, non proprio. Le donne sì, lo sono: ecco allora che per dire ai bambini di stare attenti all’orco del castello bisognava inventare una storia plausibile. Senza spiegazione, certo, ma almeno accettabile.

A Collodi la favola piacque moltissimo, fu lui a tradurla in italiano. Pochi anni dopo scrisse Pinocchio: anche la fata (che non è proprio una fata buona, anzi è piuttosto severa) ha i capelli blu. Turchini, blu chiaro. I fratelli Grimm ne fecero una versione più poetica e meno misogina. La moglie non porta una chiave con sé in cantina ma un uovo: quando si spaventa nel vedere i cadaveri, le cade di mano e si rompe, prova inconfutabile della disobbedienza. Inoltre si salva da sola, fugge. Almeno i fratelli a cavallo ci vengono qui risparmiati. Qualche anno fa Paolo Poli ne fece una magnifica versione teatrale, con scene di Lele Luzzati. Faceva ridere, persino. Branduardi ne ha scritto una canzone: se non volevi che aprissi perché mi hai dato la chiave? chiede, pratica, la sposa. Ma come perché, è la prova da superare, no? È il diavolo tentatore.

Da allora si contano decine di nuove versioni fino alle ultime quattro recenti. La mia preferita è quella di Chiara Carrer. L’ha reinventata, è un incanto. L’uomo blu è solo un’ombra sul muro. Le donne scompaiono dal paese. Prima una, sparita nel nulla. Poi arriva sua sorella. Ha in mano sia l’uovo che la chiave, tutti e due. Sa che non deve aprire la porta, lo fa. «Un’ascia. Una vasca. Una pozza di sangue rappreso. Corpi appesi alle pareti. Un urlo. L’uovo e la chiave sfuggono dalle sue dita. Scivolano giù nella pozza di sangue ai suoi piedi. Un’ombra. Lo sguardo cupo. L’uomo dalla barba blu è tornato. Lui sa: l’uovo, la chiave, le dita. La donna trema, sa che è finita.» Un’altra donna ancora, adesso. Tocca alla terza sorella. Si chiama Rosa, come «una spina che gli toglierà la vita». Anche Rosa usa la chiave, apre la porta, getta lo sguardo. Però Rosa, la più piccola delle tre, ha l’anima, il cuore e la mente più grandi. Guarda, non trema. «Non un urlo, ma gli occhi ora sono più grandi.» Teste. Braccia. Seni. Gambe. Le sue sorelle fatte a pezzi. Lei le rimette insieme, silenziosa. Le nasconde. Poi ordisce un piano. Inganna l’orco. Si traveste, va via sotto i suoi occhi senza che lui la riconosca. Vince lei. Vince perché ha saputo guardare nel fondo del pozzo dell’orrore e rimanere ferma. Vince chi sa aprire la porta e guardare «con occhi più grandi». Non chi rifiuta di vedere, non chi per paura o per soggezione non apre neppure, non vuol sapere né sentire. Vince chi apre, chi guarda, chi resta fermo e guarda meglio, poi richiude, torna su per le scale. Vince chi va all’inferno e ritorna. Vince chi vuol sapere e poi sa cosa farsene, anche, del suo nuovo sapere. Chi soffre e trova un rimedio.

Resta l’eco del blu. Anche la Sposa cadavere è blu. Celeste il suo vestito, blu l’aura che la circonda. Non c’entra, apparentemente, con Barbablù, ma invece c’entra. È pur sempre un cadavere di sposa. Il film è di Tim Burton. Uno dei più belli degli ultimi anni. Un cartone, un’animazione. I bimbi ne sono rapiti. Spaventati, un poco, certo: ma rapiti. Gli adulti, quelli che sanno ascoltare le favole, ammaliati. La sposa cadavere è una morta, appunto. L’ha uccisa il suo promesso sposo il giorno delle nozze. Per denaro, in questo caso c’è un perché. Lei muore a va nel regno delle anime, sottoterra: un posto macabro ma divertentissimo e poetico, più vero del vero, più vivo dei vivi. Un posto dove si mangia e si balla e si ama e si perde un occhio ogni tanto, cade dall’orbita ma lo si raccoglie e si rimette a posto. La sposa cadavere riceve, per errore, l’anello di Victor, vivo promesso sposo a una viva, che vaga per il bosco in un momento di spaesamento: di paura delle nozze, diremmo. Victor ha con sé la fede, la appoggia su un ramo del bosco, quel ramo è però il dito della sposa cadavere che spunta da terra. Lei, felice di sentirsi finalmente sposata – voluta, amata, non respinta, non uccisa – da quel gesto involontario, tira Victor verso di sé e lo porta nel suo mondo, amandolo perdutamente dal primo istante. Si sente – è – sua moglie. Tutti abbiamo l’impressione che per Victor sarebbe meglio restare con lei: è più bella la vita lì sotto, sono più nobili e puri i sentimenti, è più grande la passione. Invece. È tremenda la sorte della sposa cadavere col suo vestito stracciato, il suo vestito blu. Uccisa la prima volta, lo sarà anche la seconda. Di propria mano, questa volta. È lei stessa a togliersi anche «la morte», a svanire, a dissolversi in mille farfalle che si perdono in cielo: lo fa quando vede, all’altare, la vera sposa. La rivale, l’altra. Quella viva, quella che sta nei giorni. Quella che vive adesso l’attimo che visse lei un momento prima di morire sull’altare. La vede, guarda Victor e decide: «Resta con lei» gli dice. «E pazienza per me. Io sono già morta, tanto. Io sono morta quel giorno, molto tempo fa. Tu resta con lei. Hai conosciuto il mio amore e io il tuo. Adesso vado. Grazie, è stato molto. Adesso vado, ecco, guarda: me ne sono già andata via, volando come queste farfalle.»