XV

Noir Désir

Vilnius, Lituania. Grand Hotel Domina Plaza. All’una di notte del 27 luglio, dopo aver sentito gridare per un’ora almeno, l’ospite del piano di sotto, un inglese, chiama la reception dell’hotel: succede qualcosa nella stanza sopra la mia – protesta – è impossibile dormire. Il portiere di notte abbassa il volume della piccola tv che ha di fronte. Spegne la sua sigaretta, «provvedo subito», riaggancia i bottoni del gilet, sale lungo le scale vestite di rosso della palazzina finto neoclassica, hotel di lusso per turisti di pregio. Bussa alla porta della suite 35. Un giovane uomo apre solo uno spiraglio: ok, ok, ho capito, non ci sarà altro rumore. È tutto finito. Dice proprio così, nella sua lingua: è tutto finito.

Passano quattro ore. Il tempo di raccogliere il corpo della donna da terra, spogliarla e metterla a letto, coprirle la testa con un asciugamani umido, spegnere le luci. Telefonare all’ex marito di lei in un altro continente: quarantacinque minuti di conversazione confusa, acida, insensata. Telefonare alla propria ex moglie, ai propri colleghi di lavoro e amici lontani migliaia di chilometri. Una logorrea notturna della quale chi ascolta non capisce il motivo. Malessere, certo. Una lite, va bene. Ma che altro c’è? Niente, non c’è altro, era solo così, per sentirvi. Alle cinque del mattino l’uomo chiama il fratello minore della donna: volevo avvisarti che tua sorella domani non potrà venire al lavoro, ha un livido sul viso. Lei è un’attrice, sta girando un film nella parte della protagonista: con un livido sul viso non può girare, è evidente. Il fratello è aiuto regista del film, dorme in albergo nella stessa città. Si spaventa soprattutto per l’ora, non si chiama alle cinque per raccontare di un livido. Si veste, esce, va da loro. Quando arriva al Domina Plaza Bertrand gli dice che Marie sta riposando. Lo porta in un’altra stanza e per un’ora gli parla di quanto sia difficile vivere con sua sorella. Delle loro liti, del carattere impossibile di lei. Della discussione che hanno avuto quella notte: gli dice che lei era fuori di sé, era isterica, che lo ha colpito sul volto e allora lui, un poco anche per calmarla, le ha dato uno schiaffo. Si fa quando proprio non c’è altro modo per calmare qualcuno, no? Ecco dunque il livido. Ora va meglio, però. Lei dorme. Vincent, il fratello, fa per uscire, ma quando è sulla soglia torna indietro. Vuole vedere Marie. Entra in camera da letto, alza le lenzuola, scosta il panno dal volto. La donna ha un filo di sangue che le esce dalla bocca e che ha fatto una larga chiazza scura sul cuscino. La scuote: non si muove. Ha gli occhi aperti ma non vede. Vincent scende correndo le scale, chiede al portiere di chiamare un’ambulanza. Urla di fare presto, vuol avere il numero del miglior ospedale della città. Bertrand arriva poco dopo dietro a lui: al portiere che sta chiamando l’ambulanza domanda se in albergo ci siano sigarette. Sono le sette del mattino. Marie è in coma irreversibile. Sono passate più di sei ore dalle botte. Il sangue nella testa è un lago. Emorragia cerebrale. È tutto finito.

Marie Trintignant, attrice, muore a quarantun anni per i colpi ricevuti da Bertrand Cantat, quarantatré, cantante. Sono una delle coppie più ammirate di Francia. Bellissimi, inquieti, intelligenti, insoddisfatti, pieni di temperamento e di talento, adorati dai fan. Lei è figlia di Jean-Louis, attore mito del cinema non solo francese, e di Nadine, regista. Sua sorella Pauline è morta bambina. Ha trascorso l’infanzia chiusa nel silenzio, quasi nel mutismo. I genitori hanno creduto che farla recitare l’avrebbe aiutata: ha cominciato a quattro anni. «Recitare infatti mi ha guarita da una timidezza estrema» disse lei una volta. A sedici anni ha una parte nella Terrazza di Ettore Scola, nel film recita anche suo padre. Voleva fare il veterinario, amava gli animali più di tutto. È stata attrice, invece. Ha avuto tre mariti e quattro figli. Ha occhi verdi che guardano altrove. È piccola di statura e minuta: non pesa cinquanta chili, porta vestiti da ragazzo taglia dodici anni. Taglia 36, negli abiti da donna. Scrive con grafia infantile, le sue lettere sono piene di errori di grammatica. Disegna sui fogli casette e piccoli animali, fiori. Fuma molto, dorme poco.

Bertrand Cantat è il leader dei Noir Désir. Desiderio nero. È la voce e l’autore dei testi. Un milione di dischi, successo planetario in duetto con Manu Chao con Le vent nous portera, il vento ci porterà via. I Noir Désir sono il gruppo di culto della generazione no global, «clandestina», libertaria, antirazzista e non violenta, la sinistra di «Libération», le battaglie per i valori puri e assoluti, la Giustizia, la Libertà, i Diritti. Gli ultimi saranno i primi. Ha la bellezza cupa e maledetta dei duri in fondo fragili, quelli che fanno svenire le adolescenti pronte a guarirli dal loro male. Ha la voce vellutata e roca, ama Jacques Brel, si mangia le unghie. Firma appelli per le buone cause, ha una moglie e due bambini. Conosce Marie quando la sua secondogenita, Alice, è nata da un mese. Lascia la famiglia. «Marie è la donna della mia vita» dice al fratello Xavier. La segue a Vilnius dove lei sta girando, diretta dalla madre, un film sulla vita di Colette. Sul set la madre è regista, il fratello Vincent aiuto regista, lei protagonista, suo figlio Roman, diciassette anni, recita nella parte dell’amante di Colette. Il giorno prima della sua morte Marie ha una violenta discussione con sua madre: le risulta complicato girare una scena d’amore col figlio. La sera riceve un sms dal suo ex marito Samuel, anche lui regista, col quale ha appena finito di girare un film su Janis Joplin. Lui le scrive: Je t’embrasse, ma petite Janis. Bertrand legge il messaggio, ha una reazione cupa di gelosia, si chiude in albergo. Lei lo raggiunge. Lui vuole sapere, litigano. Lei gli dice: lasciami in pace, torna da tua moglie. Lui dirà, al processo: «Era fuori di sé, era isterica come non l’avevo mai vista. Mi ha colpito, le ho dato uno schiaffo». Sono almeno quattro gli schiaffi, se schiaffo si può dire di un colpo che ti getta a terra. Marie batte la testa: forse nello stipite di una porta, forse su un termosifone. Lui non ricorda. Un colpo fortissimo, la causa dell’emorragia cerebrale. Perde conoscenza. Lui, dice, crede che si sia addormentata di colpo e la prende in braccio, la spoglia e la mette a letto. Le sistema un panno umido sulle tempie. La copre e torna nell’altra stanza. Beve. Chiama al telefono l’ex marito di lei, Samuel, quello del messaggio sul telefono. Non gli dice cosa sia successo però chiede, domanda, vuol sapere di loro due. Sta quasi un’ora al telefono. Poi chiama i suoi compagni del gruppo. Infine sua moglie Kristine. Sto male, le dice, torno presto. Passano quattro ore, Marie è già in coma. I medici diranno che se fosse stata soccorsa subito si sarebbe salvata: così non c’è più niente da fare. Due operazioni non servono. Non si sveglierà più. Arriva a Vilnius il padre, si ferma con lei un’ora in ospedale, le parla al capezzale. Riparte. Due giorni dopo la famiglia decide di riportarla in Francia, dove muore.

Al processo, a Vilnius, Bertrand chiede scusa. Dice che le ha solo dato uno schiaffo, non voleva ucciderla. Il suo gruppo lo raggiunge, fanno un concerto per lui in carcere, escono le foto: le immagini non fanno una bella impressione in Francia dove la stampa, i siti internet, i fan, i politici e gli intellettuali dibattono di vittime e carnefici, di violenza oscura, di cultura machista sotto il manto della liberazione. Il giudice lo condanna a otto anni per omicidio preterintenzionale: l’ha uccisa ma non ne aveva l’intenzione. Sarà trasferito in Francia, otterrà la libertà condizionale dopo aver scontato la metà della pena – quattro anni – «per gli sforzi di reinserimento sociale e per le sue prospettive di reinserimento professionale». Quest’ultima metà della frase scatena le ire di chi non trova che avere una buona «prospettiva professionale» sia una buona ragione per non pagare le proprie colpe. Come se essere un cantante di successo fosse un’attenuante.

Escono libri, decine di libri. Uno è della madre di lei, Nadine Trintignant: chiama Cantat «il tuo assassino», lo descrive come violento e possessivo, cupo, ossessionato dalla gelosia. «Mi chiese se tu avessi amato i padri dei tuoi quattro figli. Gli risposi sarebbe triste se così non fosse. Quando l’hai saputo mi hai detto: mamma, non parlare mai più con lui del mio passato, mai più.» Dice che Cantat era ostile, sul set di Vilnius diceva: «Questo film, Colette, si fa contro di me». Marie era nervosa, triste, silenziosa. Un altro libro è del fratello di lui, Xavier Cantat. Si scaglia contro i giornali, difende Bertrand descrivendolo come un animo gentile, vittima del «clan Trintignant», debole nella sua fragilità. «Bertrand non ha mai voluto dominare Marie. E poi: come avrebbe potuto una donna che le femministe ci descrivono come libera, impegnata, capace di rivendicare alto e forte la sua indipendenza accettare una tale reclusione? Ridurre Marie al ruolo di vittima di uno spaventoso macho significa secondo me mancarle di rispetto.» Ecco, la prova è questa: come avrebbe potuto una come Marie accettare la violenza? È tutto qui l’enigma e la sua soluzione: può una donna libera accettare di essere prigioniera? Può capirlo chi non sa, chi non c’è, chi non lo vive? Può qualcuno che solo vede, sente e sa quello che traspare alla luce sapere davvero cosa succede nell’ombra dell’intimo segreto di una coppia? Non può, è ovvio. Dunque, certo che anche Marie poteva essere prigioniera: sì, poteva. Xavier Cantat porta le prove a discolpa del fratello. Cita Sebastien, compagno di Marie per un anno: «Per Marie tutto era estremo. Era capace di tessere attorno al suo uomo una tela di ragno». Cita un’intervista a «Libération» di suo padre Jean-Louis: «Sono affascinato dal suo lato mantide religiosa».

Dopo il funerale – attori celebri e presidenti, al rito, tutti vestiti di bianco – François, il padre di Paul, uno dei figli di Marie, spiega al bambino così quel che è successo a sua madre: «È la terribile storia di un uomo che ha voluto avere l’ultima parola. Tua madre ha difeso la sua. Lui ha avuto l’ultima, però».

Nulla serve a spiegare. Restano i fatti, solo quelli. Poniamo anche che fosse, come scrive Xavier Cantat, «una violenta disputa tra due adulti finita malissimo». Marie era alta un metro e sessantacinque, pesava quarantotto chili. Bertrand è alto un metro e novanta, pesa più di ottanta chili. Un match irregolare su qualunque ring. Marie è morta, i suoi quattro figli sono orfani. Il più piccolo, quella notte, aveva cinque anni. Bertrand è tornato a casa dalla sua ex moglie, dalle sue due figlie. Ha ricominciato a suonare e a cantare. In inverno, dicono le ultime notizie, uscirà il suo prossimo disco. Gli avvocati gli hanno solo raccomandato di non ispirarsi nei testi alla morte di Marie, di non farne parola. Solo questo. I Noir Désir sono pronti a rientrare in classifica. Desiderio nero.