VII

Ti do i miei occhi

C’è la madre seduta sul divano, la sera, che racconta una favola al figlio bambino. Ha in mano un libro d’arte, quello con cui lavora di giorno: fa la guida nei musei, i quadri sono il suo filo teso verso la bellezza. Stasera gli racconta di Orfeo ed Euridice, gli mostra il dipinto. «E allora Orfeo poté riportare sulla terra Euridice ma con una sola raccomandazione, una condizione: non avrebbe dovuto voltarsi a guardarla fino a che non fossero arrivati. Proibito: una regola. Però ecco, guarda, proprio quando sono sul punto di arrivare Orfeo non riesce a resistere e si volta a guardarla.» Non riesce a resistere. Non riesce a resistere, nemmeno lui. Che sia l’amore o la paura o il desiderio o la rabbia che ti acceca e perché ti succeda tutto questo importa, sì, ma non importa più tanto invece quando l’esito è uno solo: non riesci a resistere, è finita. Ecco, la chiave è tutta qui. È questa la storia.

Ti do i miei occhi è stato un film molto premiato. Al festival di San Sebastian nel 2003, sette premi Goya nel 2004. Non sarà forse un capolavoro, i cinefili e i critici avranno certo molto da obiettare. Un’opera prima, d’altra parte. E però chi l’ha visto non riesce a paragonarlo a nient’altro, né a raccontarlo davvero. Non se ne esce uguali. È la prima volta, qui, che si illustra per immagini così poeticamente, drammaticamente e limpidamente quale sia il legame viscerale e la ragione inspiegabile che unisce la vittima al suo aguzzino. Che scambia le parti e fa dell’aguzzino la vittima, poi della vittima l’aguzzino. Che le rimette a posto infine, per la tranquillità di tutti, ma che lascia un filo di inquietudine, in fondo. Che mostra come la violenza sia la massima delle debolezze e come la debolezza possa nascondere la forza. Che dà alla passione e alla rabbia lo stesso posto: quello di chi non riesce a resistere.

La storia, scritta e diretta da Icíar Bollaín, racconta del matrimonio di Pilar e Antonio, una coppia piccolo borghese che vive in una cittadina, Toledo, con un figlio di nome Juan. Antonio, il marito, lavora nel negozio di elettrodomestici del padre che lo paga poco e – lui pensa – lo sfrutta. Ha un fratello minore che volentieri lo canzona e – lui pensa – lo disprezza. Pilar è una splendida ragazza insaccata in tute domestiche, figlia primogenita di una madre debole ma formalmente ineccepibile con la sua messa in piega e i suoi saperi di buon vivere, e di un padre assente, violento, dispotico e ora morto. Antonio picchia Pilar, molto spesso e molto forte. Lei una notte scappa col figlio dalla sorella minore, la quale andando a prenderle a casa dei vestiti di ricambio scopre in un cassetto i referti del pronto soccorso. Il film comincia così, la trama d’ora in avanti non è molto importante. Ciascuno può sovrapporle la propria. Restano cruciali, invece, alcuni dialoghi, alcuni monologhi.

Dopo una domenica passata in campagna dal fratello di Antonio, i tre tornano in città in auto. Il bambino dorme dietro. Lui: «A cosa stai pensando?». Lei: a niente. «Che sono una merda in confronto a mio fratello?» No, a niente. «O mi dici a cosa stai pensando o non ci muoviamo di qui. Pensi che guadagno poco? Che sono un buono a nulla?

Dimmelo.» Smettila, Antonio. «Ecco, vedi, pensi che guadagno poco.» Il bambino si sveglia, piange. Il padre esce dalla macchina e comincia a prendere l’auto a calci. Madre e figlio, dentro, si abbracciano. Il giorno dopo Antonio torna a casa la sera con dei regali: un gioco per il figlio, un libro d’arte per la moglie. Le chiede: «Stai meglio ora? Sei più tranquilla?». Sì, risponde lei. Sono più tranquilla. Ha dei piccoli tic, le trema un labbro.

Il giorno dopo Pilar ha cominciato un nuovo lavoro, fa la guida per gruppi nei musei. Lui, in cucina, la sera: «Dove hai pranzato oggi? Perché non mi hai risposto? Ti ho lasciato tre messaggi sul cellulare. Cosa ti ho regalato a fare il cellulare se lo tieni spento? Se lo spegni io non so quello che sta succedendo e m’incazzo. Torno a pranzo, non ti trovo e m’incazzo». Scusa Antonio, non sapevo che saresti tornato a pranzo. «Certo, tu non sai mai niente, hai sempre la testa fra le nuvole, pensi solo alle stronzate dei tuoi quadri. E guardami in faccia quando ti parlo, hai capito? Guardami» urla. La tiene per il collo. Non riesce a resistere, di nuovo. Lei fugge, ancora, ma torna, come sempre: lo vuole, vuole stare con lui, vuole aspettare che cambi, non può resistere senza sentirsi addosso le sue mani. Senza il suo castigo e il suo perdono di carezze. La sequenza di quando era bambina.

Entra in scena uno psicologo, un gruppo di aiuto a chi commette violenza. Il centro si chiama Cerea, Centro di rieducazione degli aggressori. Rieducazione, oppressori. Gli uomini denunciati sono obbligati ad andare lì per decisione del giudice. Devono sottoporsi a una terapia. Devono in primo luogo – quando arrivano – compilare un questionario in dieci punti. S’intitola: «Inventario di idee comuni sulle donne». Devono rispondere sì, no, non so. 1) Le donne sono inferiori agli uomini. 2) Se il marito porta i soldi a casa le donne devono essere sottomesse. 3) Il marito è il capofamiglia dunque la donna deve obbedirgli. 4) La donna deve aver preparato il pranzo o la cena quando il marito torna a casa. 5) La moglie ha l’obbligo di avere rapporti sessuali col marito anche quando non lo desidera. 6) Una donna non deve contraddire un uomo. 7) La violenza non è che una forma di preoccupazione dell’uomo verso la donna. 8) Se lui la picchia lei sa perché lo fa. 9) Se le donne volessero davvero saprebbero come prevenire gli episodi di violenza. 10) Le donne sono solite provocare deliberatamente gli uomini. Se volessero davvero saprebbero evitarlo. Sì, no, non so.

Lo snodo della storia è il dialogo a quattr’occhi fra Antonio e lo psicologo del centro. Lui è andato a spiare Pilar mentre guida i suoi gruppi, al museo: sta mostrando un dipinto di Tiziano, Danae e Giove. «Una specie di porno dell’epoca» dice un ragazzo del gruppo ridendo. Lei anche ride, dice sì, spiega. Antonio resta nell’ombra, la osserva parlare. È furioso, non riesce a calmarsi, va al centro. «È diversa, è diventata più bella, più elegante, parla di amore e di stronzate tutto il giorno» grida allo psicologo. «Perché cazzo va in quel museo quando sa che mi irrita. Non la pagano neanche. Lo fa per provocarmi, è per questo. Le piace provocarmi. Un giorno o l’altro trova uno di quelli che vanno nei musei a sentire tutte quelle stronzate e se lei s’innamora cosa succede, eh? A me che cazzo mi resta?» Psicologo: è tornata a casa da te, con te, perché dovrebbe andarsene? «E perché dovrebbe restare, invece? Perché dovrebbe restare con me? Di cosa posso parlare io con lei? Di ordinazioni e di fatture di frigoriferi? Cosa le offro io? Una paga di merda, un appartamento di merda, vacanze coi miei genitori. Questo le offro. Perché cazzo dovrebbe restare con uno come me?» Psicologo: forse perché la ami, perché la ascolti, perché la incoraggi. Perché non la umili. Perché ti interessa quello che fa e che pensa e perché non la picchi. Antonio non sta più ascoltando. Gli vibra il mento, ha gli occhi lucidi di pianto, guarda fuori dalla finestra.

Icíar Bollaín, quarantenne madre di tre figli, dice che nel girare il film la sua preoccupazione principale era che fosse chiara «la differenza che passa fra capire e giustificare chi è violento. Capire è necessario, giustificare inaccettabile». In Spagna, dove la legge sulla violenza di genere, che in caso di aggressione punisce diversamente gli uomini dalle donne (più alte le pene per gli uomini che per le donne), è fortissima l’onda ostile contro gli «aguzzini». Molte associazioni femminili sono contrarie a che i soldi pubblici siano investiti nella loro «rieducazione», come il nuovo giovane ministro, una donna di trent’anni, propone. Dovrebbero piuttosto essere tutti dati alle vittime per aiutarle a rifarsi una nuova vita, sostiene una delle donne intervistate nel documentario Amori che uccidono, anno 2000. «Nella mia esperienza questi uomini, col tempo, tendono solo a perfezionare le loro aggressioni. È altamente pericoloso dire che sono loro le vittime» dice la donna, presidente di un’associazione. D’altra parte in Spagna sono state settantaquattro le donne uccise per mano del convivente nel 2007: più di una alla settimana. Tuttavia è solo «cercando di capire cosa succede nella testa di chi alza le mani» dice una ragazza nello stesso corto «che si può davvero stabilire un punto di partenza. Altrimenti puoi separare un uomo dalla sua vittima ma presto o tardi lui ne troverà un’altra». Anche lei è possibile che trovi un altro carnefice. Anche nella testa di chi sopporta le violenze è interessante capire cosa succede. Non è solo uno stato di necessità, non sempre e non solo. In Ti do i miei occhi la donna, Pilar, ha vissuto da bambina – si deduce dalle conversazioni con la madre – una storia di sopraffazione paterna. Ripercorre da adulta la sua vicenda di violazione e di dolore: ne ha bisogno, la cerca così come cerca nello stesso uomo, un momento dopo, il rimedio, la cura, l’amore. La malattia e il balsamo sono la stessa cosa. Ti do le mie mani, ti regalo il mio seno, sono tue le mie orecchie, ti do i miei occhi. Fai di me quello che vuoi ma tienimi. È una possibilità. Sottotraccia c’è una cultura profonda, un sapere non consapevole fatto di insegnamenti primari e di filastrocche da bambini, di consigli delle vicine, di canzoni popolari e di sguardi. C’è un bolero che fa da colonna sonora ad Amori che uccidono. S’intitola Te lo juro, canta una voce di donna e dice così: «Non capii che eri mio fino al giorno che ti persi. Solo allora vidi chiaramente quanto ti amavo: quando non c’era più rimedio per me. Portami per strade di gelo e di amarezza, legami, sputami se vuoi. Buttami la sabbia negli occhi, uccidimi di dolore. Amami, però». Ne esistono infinite registrazioni, una anche di Placido Domingo dedicata ai «Classici popolari». Gli uomini costretti dalla legge a partecipare ai gruppi di aiuto, quelli ritratti nel film, parlano in variazione libera su questo tema. Le donne sole, al caffè, anche. La madre della protagonista le dice: «Il tuo dovere è tenerti tuo marito». I bambini in cortile cantano filastrocche su mogli fatte a pezzi e bollite. Pilar cerca di spiegare ad Antonio che «la tua rabbia è come la mia paura: toglie l’aria, ferma i rumori, è bianca e cieca». Non avere più paura, Antonio. Non averne. Se tu non avrai più paura di me né di te stesso ce ne potremo andare insieme. Glielo dice con quegli occhi di febbre, con quello sguardo corrotto dal desiderio e dal terrore. Il desiderio della paura. La paura del desiderio.