XVIII
Disuguali
Disuguale, in molte lingue, non significa semplicemente «diverso». C’è una sfumatura di senso assai difficile da rendere in italiano: potremmo dire «diversamente uguale» se non facesse subito pensare all’ipocrisia del linguaggio politicamente corretto, quello che vuole tutti diversamente abili, diversamente sensibili, diversamente attenti. Disuguale significa uguale ma diverso, differente ma pari: una parità distinta. Non di meno, non di più. Lo stesso eppure un altro.
Il cervello delle donne è disuguale da quello degli uomini. Radicalmente disuguale. La scienza ha fatto tali progressi per cui oggi si sa con certezza quale zona conti quanto, quando si attivi e perché. La massa cerebrale si pesa con strumenti sofisticati e si misura coi numeri. Da vivi, e non dunque facendo a fette il cervello dei cadaveri come si usava fino a non molto tempo fa. Oggi si prende un gruppo di persone, maschi e femmine, gli si mette in testa un certo apparecchio e si vede che succede: succedono cose diverse, funzionano in modo diverso. Viene da usare un linguaggio elementare, certe rivelazioni, per chi non sia del ramo, lasciano sbalorditi.
Una neuropsichiatra californiana, Louann Brizendine, ha pubblicato un testo divulgativo, ora tradotto anche in Italia, intitolato Il cervello delle donne. Non pretendo di riassumerlo qui. Vorrei solo proporre alcuni temi che ho trascritto per essere sicura di aver capito bene. Brizendine ha studiato e lavorato a Berkeley, Yale, Harvard, ora all’Università di California. Dirige uno dei massimi centri di ricerca sullo studio degli ormoni. È una persona affidabile, intendo. Nel saggio spiega con la massima cura e dovizia di dettagli che le differenze fra il cervello degli uomini e quello delle donne sono «complesse e diffuse» e sono pressappoco queste, abbiano pazienza gli esperti per la cattiva sintesi: nei centri cerebrali del linguaggio e dell’ascolto le donne possiedono l’11 per cento di neuroni in più degli uomini. L’ippocampo, principale centro di controllo delle emozioni e di formazione dei ricordi, è più sviluppato nel cervello femminile, così come l’insieme dei circuiti del linguaggio e dell’osservazione delle emozioni altrui: è questa la ragione per cui in media le donne sono più abili nell’esprimere le emozioni e nel ricordare i dettagli degli eventi che le suscitano. D’altra parte negli uomini lo spazio cerebrale preposto all’impulso sessuale è due volte e mezzo più grande e i centri destinati all’aggressività sono più ampi. In media il cervello maschile è attraversato da pensieri sessuali molte volte al giorno, quello di una donna una sola volta. L’85 per cento degli uomini fra i venti e i trent’anni pensa in qualche forma al sesso ogni cinquantadue secondi. Le donne della stessa età una sola volta in ventiquattro ore con picchi di tre-quattro volte nei giorni fertili. Uno studio ha esaminato come il cervello di uomini e donne reagisca alla vista di una coppia che parla. Negli uomini si accende l’area sessuale: lo considerano un potenziale preliminare di un amplesso. Nelle donne la stessa area non si attiva: lo considerano una conversazione. Dopo aver spiegato a una scolaresca di quindicenni le differenze cerebrali è stato chiesto loro, durante una lezione, di formularsi domande che avrebbero voluto farsi a vicenda. Alcuni ragazzi hanno domandato: perché le femmine vanno sempre al bagno insieme? Pensavano che il motivo fosse di natura sessuale. Alcune ragazze hanno risposto che il bagno è l’unico luogo della scuola dove possono parlare senza essere osservate e ascoltate, in tranquillità. Ancora. Gli uomini hanno terminali più grandi nell’amigdala, l’area più primitiva del cervello, quella che scatena la paura e l’aggressività. Le neonate femmine cercano lo sguardo dell’adulto (della madre) con maggior precocità e frequenza dei maschi: si attivano in loro più rapidamente i «neuroni specchio», quelli del rispecchiamento – del riconoscimento – nell’altro. Di conseguenza le donne sono più abili a leggere le espressioni del volto, a interpretare i toni di voce, a valutare le sfumature emotive delle situazioni. Con la risonanza magnetica è stata misurata la capacità di sentire il dolore altrui: le donne sottoposte a piccole scosse elettriche alle mani venivano poi informate dello stesso trattamento effettuato ai loro compagni. Pur non subendo la scossa si accendeva in loro, nel cervello, l’area del dolore: la compassione, la condivisione del dolore. I ricercatori non sono stati in grado di ottenere lo stesso risultato a parti invertite: negli uomini non c’era nessuna risposta cerebrale per il dolore altrui. Il linguaggio. Le bambine iniziano a parlare prima, intorno ai venti mesi possiedono un vocabolario due o tre volte superiore a quello dei maschi coetanei che alla fine ne eguagliano la ricchezza lessicale ma non la velocità. Anche nelle scimmie Rhesus le femmine utilizzano diciassette toni vocali per comunicare, i maschi tre.
Nel cervello femminile sono più sviluppate le aree cognitive, emozionali e verbali. In quello maschile le aree preposte all’azione fisica. Il cervello maschile coglie segnali di tristezza sul volto altrui nel 40 per cento dei casi, il cervello femminile nel 90. L’uomo, in quasi la totalità dei casi, si accorge del mutamento di umore in corso nell’altro solo all’evidente vista delle lacrime. Le donne, probabilmente per questo, piangono fino a quattro volte più facilmente. In qualche modo devono pur farglielo capire.
L’aneddotica scientifica è sterminata e varia, si sofferma sui mutamenti del funzionamento del cervello secondo la fase ormonale, parla a lungo del cervello materno e della sua temporanea assoluta metamorfosi: una condizione di accettazione – accettazione che significa non sentire il dolore, la stanchezza, intuire i bisogni, assecondarli: quella delle madri in presenza del neonato – non paragonabile a nessun altro stato mentale in nessun altro momento. Quasi in nessun altro, diciamo. Può riattivarsi in presenza di neonati con barba e baffi e dar luogo alla più classica delle relazioni adulte vittima-carnefice, quelle di mutuo bisogno tra chi accudisce e chi è accudito, chi sopporta e chi è sopportato. Fino alle estreme conseguenze. C’è un capitolo dedicato alla struttura mentale dei serial killer in uno studio dello psicanalista inglese Christopher Bollas, Cracking up. Il lavoro dell’inconscio. Il capitolo s’intitola La struttura del male. Parte descrivendo alcuni serial killer della storia criminale americana. Uno è Bundy. «Bundy ogni tanto si ingessava un braccio dando di sé l’immagine di una persona in stato di bisogno.» Faceva appello alla «fiducia di base» fra esseri umani: quella del bambino verso i genitori che si prendono cura di lui, la naturale risposta della madre verso il bambino. Lo stato di bisogno – del carnefice che si finge indifeso, della vittima che accetta inconsapevole la sua offerta – attiva una condizione primitiva: quella del mutuo soccorso fra essere umani, appunto, tipica e massima nella relazione con il neonato. Infantile. Rapimento in inglese si dice kidnapping, kid significa bambino: le parole nascono da qualche parte, hanno sensi che strada facendo si perdono. La vittima è sempre come un bambino, torna bambina. Il carnefice per adescare la vittima seduce con le armi di un’ingenua promessa. C’è qualcosa che funziona sul registro del disuguale cervello femminile ogni volta che una sopraffazione maschile è in atto. Qualcosa che si attiva e qualcosa che si acceca, invece. Come se ci fosse bisogno di credere, ogni volta daccapo, che la verità ultima risiede in quel primo sguardo sul mondo, quello sul volto dell’altro. Il rispecchiarsi dei favolosi «neuroni specchio»: vedersi, riconoscersi, capire senza bisogno di parole e oltre i gesti. La fiducia, l’aiuto. La promessa non ancora tradita. Come se ci fosse bisogno di tornare lì, quando tutto doveva ancora succedere e non era così buio e sbagliato come è stato dopo, come è adesso.