XVII

L’avvocato

Mi chiamo Tiziana Pomes, faccio l’avvocato da vent’anni. Lavoro in un quartiere borghese, a Roma. Le mie clienti sono soprattutto donne. Vengono da me principalmente per cause di divorzio. Divorziano in molti casi per storie di violenza. La violenza in famiglia è diffusa in un modo che non si può immaginare. Le mie stesse clienti, per la maggior parte, non ne parlano. Alludono, se proprio alle strette minimizzano. Se ne vergognano. Al principio quasi sempre la giustificano. In ogni caso la sopportano molto a lungo e in forme sempre più gravi. Anche dopo, anche quando le evidenze della violenza devono essere esibite come prove in tribunale, mi pregano di evitare ogni pubblicità. Non vogliono che si sappia. Sono pochissime quelle che riescono a farsi aiutare dalle loro famiglie o dagli amici. In genere sono sole con la loro storia: l’avvocato sì, all’avvocato prima o dopo si deve raccontare ma solo perché ci vanno di mezzo i figli, i beni, la possibilità di continuare a vivere con decenza. All’inizio, quando ho cominciato, la violenza psicologica e fisica degli uomini sulle donne – dentro il matrimonio – era cosa da poveri o da ricchi, molto poveri e molto ricchi, in genere. Nel proletariato era una delle articolazioni del degrado umano e della privazione. Nei ricchissimi una sopraffazione, per così dire, codificata. Era come se ci fosse stato una specie di contratto di nozze in cui l’uomo con molto denaro che «acquistava» la moglie, in specie se acquistandola la sollevava da una più bassa condizione sociale, comprasse anche il diritto di tradirla, di picchiarla, di umiliarla, di lasciarla sola con le sue carte di credito e poi la sera di prenderla a botte. Le donne erano state educate a sopportarlo: l’umiliazione domestica era il prezzo da pagare in cambio di un nuovo status sociale. Questo le madri e le famiglie avevano insegnato loro. Ricordo, tra moltissime, la storia di una coppia che viveva ai Parioli. Lui bello, ricco e di successo, Ferrari e segretarie, lei di buona famiglia ma non ricca, straniera. Avevano due figli maschi stupendi, adolescenti. Il marito la massacrava di botte davanti ai figli. Lei beveva per sopportare. I ragazzi si allearono col padre, lui del resto li assecondava in ogni più assurdo desiderio e li riempiva di denaro: un giorno fecero trovare alla madre una scritta con lo spray sulla parete del soggiorno. «Mamma vattene, i deboli soccombono i forti vincono.» Volevano che se ne andasse di casa, l’hanno ottenuto. Nessuno nelle loro famiglie è mai intervenuto: era un fatto privato.

Da qualche anno e adesso ormai in modo capillare la violenza non è più polarizzata nelle classi sociali estreme. È diffusa nella borghesia, fra i trentenni e quarantenni colti, autonomi, consapevoli. È violenza borghese. La subiscono donne giovani, cresciute e a volte nate all’indomani delle grandi battaglie per l’emancipazione e l’uguaglianza, donne che si suppone abbiano respirato tutta la vita un’aria di parità possibile, abbiano goduto degli stessi diritti dei loro compagni. Eppure. Il successo femminile nel lavoro è la prima causa di reazione maschile violenta e dopo, molto dopo e non sempre, di separazione. Quando il successo è estremo, quando la donna conquista condizioni di prestigio e di reddito superiori a quelle del marito, la crisi della coppia è così frequente da apparire inevitabile. Gli uomini reagiscono in genere con una forma depressiva che si manifesta in reazioni violente, una specie di rabbia per il fatto di non essere all’altezza. È come se volessero ristabilire dentro le mura domestiche una condizione di superiorità e di potere venuta meno all’esterno. Le donne, davvero molto spesso, sopportano la violenza come se si trattasse di una sorta di calmante. Avevo una cliente che mi diceva non è nulla, lo faccio sfogare così poi dopo sta tranquillo. Lo «faceva sfogare» anche sessualmente, si sottoponeva a umiliazioni che, mi pare, in qualche modo le sembravano dovute per risarcirlo del suo successo, della sua autonomia. Come se la violenza privata fosse il prezzo da pagare per la libertà pubblica. Come se ci fosse bisogno di riequilibrare un «ordine naturale delle cose» violato dalla donna che lavora, che guadagna, che progredisce nella carriera e non ha bisogno dell’uomo per vivere. La maggiore istruzione delle donne non ha fatto declinare la violenza subita, anzi. Quel che è diverso ora è la consapevolezza: ora le donne sanno quello che stanno facendo, capiscono molto bene le difficoltà dei loro compagni e arrivano a usare la loro sottomissione consapevolmente. Mettono a disposizione i loro corpi, anche per le offese, in cambio della libertà. È una strana illusione: lasciarsi picchiare non passivamente ma attivamente, nella pretesa che questo basti e serva a colmare le fragilità maschili. Ho avuto una cliente trentenne, figlia di una madre ancora giovane, molto bella, ricchissima e affermata nel lavoro. La figlia aveva avuto da adolescente un problema grave di anoressia. Curata, seguita. Si è sposata con un uomo rozzo e violento, un uomo con la pistola. Hanno avuto un figlio. Lui la picchiava con regolarità e costanza. Lei perdeva il lavoro, poi ne cominciava un altro. Lui la ricattava dicendo che avrebbe fatto del male al figlio: faceva cose pericolose col bambino. Lei lo assecondava. Mi diceva, al principio: so io quando basta, so che non è pericoloso, so cosa devo dargli in cambio della sua tranquillità. Pensava di poterlo controllare con una «dose modica» di violenza concessa. Era una ragazza molto intelligente, molto capace, con tutti i mezzi per affrancarsi. Ho sempre pensato che questa sua presunzione di potere sul compagno, una presunzione autolesionista, somigliasse molto alla sua anoressia giovanile: allora controllava il suo corpo, ora pensava di poter controllare l’altro cedendogli il suo corpo. Chissà. È una materia da psicologi questa ma sarebbe interessante avere più dati sulla relazione fra disturbi dell’alimentazione – così frequenti in persone intellettualmente molto dotate e prive di problemi economici radicali – e l’inclinazione a sopportare «attivamente» la violenza coniugale. Purtroppo non ci sono dati, nessuno raccoglie queste informazioni perché le informazioni non circolano: bisogna basarsi, per ora, sulla propria esperienza di lavoro, di osservazione, di vita.

Il punto di rottura, il momento in cui la violenza si scatena coincide spesso con la nascita dei figli. Le donne che lavorano, in quel momento, sono stanche. Si sentono inadeguate, non ce la fanno. Mutano gli equilibri all’interno della coppia, tempo e attenzione per il coniuge diventano rari e faticosi. È qui che riemerge un modello atavico: il marito insoddisfatto, a volte frustrato e privo del suo ruolo di garante della sopravvivenza del nucleo familiare, scatena la rabbia picchiando. In questi casi, se ci sono figli, l’affidamento condiviso – salutato come un grande successo sulla strada della parità – può essere invece un potente strumento di ricatto o addirittura un modo per replicare ed enfatizzare la violenza attraverso i bambini. Esiste una sindrome già ben nota agli psicologi e ai giudici, la sindrome da alienazione parentale: la persona violenta stringe alleanza coi figli ai danni della vittima, in genere la madre, indicandola come la responsabile di tutti i mali, inadatta e colpevole, denigrandola, irridendola. I bambini assorbono la violenza verbale e non hanno gli strumenti per elaborarla, dominarla: manifestano spesso nel corso del tempo disturbi di relazione, di identità sessuale, di rapporto con l’altro sesso. Le madri, quando vedono questo accadere, capita che «lascino correre», che sopportino «per il bene dei figli». Per non dar loro altri problemi, per evitare traumi, per assorbire e contenere il danno già inferto dall’altro. Anche in questo caso si tratta di una forma di presunzione: quella di capire le ragioni della violenza e prevederne le conseguenze, addirittura. Di immaginare di poter sopportare la sopraffazione, di governarla a fin di bene. Come se la madre – la donna – anche quando è la vittima dei colpi del più forte restasse in realtà la regista della sua e delle altrui esistenze. C’è sempre un limite, per fortuna. Di solito è la paura. Quella vera, la paura di morire o di veder morire i figli. Tante, tantissime sono le donne laureate, di buon reddito e di bei modi che arrivano qui e mi dicono, per prima cosa: questa volta ho avuto davvero paura.