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In un angolo della mia mente, c’è qualcosa che mi assilla. Non mi rendo conto di cosa sia finché non mi ritrovo seduta nella cucina di Jo a guardare il giardino fuori dalla finestra.
«Sai, Jo, quel piccolo melo… Ci ho pensato un po’ su. E non credo che quello sia il posto giusto. Pensavo di spostarlo, prima che le radici attacchino per bene».
Jo sembra sorpresa. «E perché? A me piace lì».
«Be’, da giardiniera, posso dirti che una volta cresciuto farà ombra a tutte le altre piante. E inoltre, non potrai raccogliere le mele senza calpestarle».
«A essere sinceri, non mi interessa delle mele», risponde Jo. «Mi piace lì dov’è. Se le piante dovranno essere spostate, farò venire qualcuno. Probabilmente hai ragione ma, ora come ora, ho ben altro a cui pensare».
Contro ogni mia etica del lavoro, alzo le spalle e lascio perdere. Il giardino è suo.
Ma quando tutto torna alla normalità, sento che qualcosa non quadra. L’altra sera Jo si è lasciata andare, rivelandomi tutti i suoi sensi di colpa con il cuore in mano. Mi ha detto che avrebbe dovuto essere una madre migliore e avrebbe dovuto sapere dov’era sua figlia, non riusciva a perdonare se stessa. E ora invece si comporta come se nulla fosse successo?
«Jo… è dall’altra sera che mi sento parecchio in pena per te. Come vanno ora le cose con Neal?».
Da come irrigidisce le spalle e trattiene il fiato intuisco di aver toccato un nervo scoperto.
«Oh… sì». Quando si volta, ha il viso rilassato. «Ne abbiamo parlato. Era arrabbiato. Tutti diciamo cose orribili in preda alla rabbia, no? Eravamo entrambi sconvolti. Sono così presa dal mio dolore che a volte dimentico che anche a lui manca Rosanna. Ah, sono imperdonabile». Per un momento, sembra affranta. «Capisco perché mi ha detto quelle frasi. Si sente in colpa tanto quanto me. Avremmo dovuto essere in grado di impedire quello che è successo. Lui non voleva ferirmi. È un uomo meraviglioso, Kate».
È quello che dice sempre. E sì, fa molte cose buone. Quindi probabilmente è vero. E inoltre stanno passando l’inferno peggiore che un genitore possa immaginare. Ma non riesco a non chiedermi: che razza d’uomo lascerebbe uscire sua moglie, sconvolta e in lacrime, senza correrle dietro? Una donna che ha il cuore spezzato e che ha appena perso una figlia?
E stavolta, provo a chiedere di più.
«Sono contenta, Jo. Eri davvero distrutta. So che state vivendo un vero incubo, però…».
Non mi lascia neanche finire. «Lo sai? No che non lo sai», mi risponde stizzita. «Grace è all’università e presto tornerà a casa. Tornerà sempre a casa. Rosanna se n’è andata per sempre. Per sempre… Davvero pensi di sapere come ci si sente?».
Se ne sta in piedi lì, scossa dai tremori e paonazza. Non sa quanto sono dolorosamente e insopportabilmente consapevole della sua sofferenza.
E poi le parole escono fuori da sole, spezzando ogni catena.
«È un inferno, Kate. Non hai idea… Un secondo penso di potercela fare, e il secondo dopo mi sento precipitare in un pozzo buio e senza fondo, da cui non c’è via d’uscita. È come se mi avessero tolto una parte di me… Fa male. È mia figlia…».
Allargo le braccia e mi avvicino per offrirle conforto, una spalla su cui piangere, ma lei raddrizza la schiena e quando riapre la bocca parla con voce fredda e piatta. Da perfetta sconosciuta.
«So che le tue intenzioni sono buone. Ma capisco perfettamente il motivo per cui sei qui. Tu pensi di proteggere la tua famiglia facendoti carico del dolore della mia».
Sento le guance raggelare mentre il sangue abbandona il mio volto. Mi rendo conto che è la rabbia a parlare, certo, che se la sta prendendo con me solo perché mi trovo qui… ma ha forse ragione? Tutto quel che faccio per lei, tutti i miei gesti che mi sembrano tanto utili e generosi, sono forse estremamente egoisti?
«Devo andare», mormoro, alzandomi con la borsa in mano, lasciando il tè lì dov’è. So che sta soffrendo, ma ho oltrepassato i miei limiti. Non posso aiutarla.
Al portone d’ingresso, mi fermo un attimo per guardarla negli occhi. «Mi dispiace se ho detto qualcosa di sbagliato, Jo. Volevo soltanto comportarmi da amica».
Mentre parlo, l’espressione sul suo volto cambia lentamente, il suo sguardo è sempre più disperato e tormentato. Ha i pugni serrati.
«Sono io quella che si dispiace…», sussurra. «Spero solo che trovino la persona che le ha fatto questo. Ti prego, Kate. Non avrei mai dovuto dirti quelle cose. Tu sei stata… una vera amica… Oh Dio, ma che ho combinato?».
Non avevo mai assistito a un mutamento d’animo così repentino. Mi supplica con le lacrime agli occhi. «Ti prego, non andartene. Ho bisogno di te».
Questo suo violento attacco mi lascia completamente senza parole. Ma poi lo vedo per quello che è. Ha fatto quella sfuriata perché lo stress inizia a presentarle il conto, perché prova un dolore insopportabile e perché io ci sono. Quello che è successo a Rosie sarebbe potuto accadere a ogni adolescente. Persino a Grace.
Anzi, potrebbe ancora accadere. L’assassino è a piede libero.
«Ti sei fatta coinvolgere troppo, Kate. Dalle un po’ di spazio», dice Angus quella sera, dopo aver sentito il mio racconto.
«Come puoi dire una cosa del genere?». Ancora ferita dalla sfuriata di Jo, non posso sopportare un’altra pugnalata. E da parte di Angus! Proprio lui che sa quanto ci sono rimasta male. In un certo senso, non significa forse che siamo buone amiche se Jo riesce a dirmi quel che vuole, a essere anche brutalmente onesta? La verità fa male, lo sappiamo tutti. Ma il dolore che prova Jo è diverso. Fa male in un modo che non possiamo capire.
«Ehi, non arrabbiarti. Ti sei dimostrata davvero una buona amica con lei, Kate. Ma non puoi cambiare le cose. Sembra fuori di sé, ed è comprensibile, dopo tutto quello che ha passato. E quello che ha detto è vero: nessuno di noi può capire sul serio quello che sta provando… Grazie a Dio».
Sospiro. «È solo che mi dispiace tanto per lei».
So perfettamente che ha ragione, ma non è così semplice. Forse il dolore di Jo è diventato anche il mio? Forse a un certo punto ho iniziato a sentirmi responsabile per lei?
«Vieni qui».
Lascio che mi stringa forte, con la testa appoggiata sulla sua spalla. Forse mi sono lasciata risucchiare troppo. Coinvolgere troppo. Magari è meglio fare qualche passo indietro. Soprattutto per me.
Una settimana dopo – una settimana in cui cerco di evitare ogni contatto con gli Anderson – vado al vivaio in cui compro le piante. Oggi organizzano uno dei loro rari eventi: una giornata aperta a tutti, in cui espongono le loro favolose piante autunnali, piene dei colori della natura. Ci saranno anche vasi di bulbi e piante invernali che aspettano solo di fiorire.
Ci voleva proprio. È quello di cui ho bisogno, quanto una mostra o un musical – solo che qui, invece di farti sommergere dalla musica o dall’arte, sei tu che ti immergi nelle piante, nei loro profumi, colori e forme. Sì, vado per comprare. Ma allo stesso momento nutro l’anima e l’immaginazione, nella mia mente porto via molto di più di ciò che compro: immagini sontuose, mille combinazioni, infine possibilità di quello che il tempo e la stagione possono creare.
«Buongiorno, Dan». Saluto il viso familiare che mi viene incontro. Conosco Dan da dieci anni, una continua fonte di insegnamenti. «Vi siete superati di nuovo! È magnifico qui!».
«Ciao Kate». Sembra compiaciuto. Lavorano tutti sodo per mettere su eventi come questo, ma è un toccasana per gli affari e, anno dopo anno, la loro fama è cresciuta attirando i designer di tutta la regione. «Ho dei nuovi bulbi da farti vedere. Potrebbero piacerti. Hai un minuto?»
«Certo». Sono davvero curiosa. Negli anni passati, le nuove varietà di Dan dettavano la moda – aveva sempre un occhio di riguardo per le tendenze in voga. E quello che proponeva lui andava sempre a ruba.
«Sono qui dentro».
Lo seguo in un corridoio riservato allo staff, onorata di far parte della sua cerchia di prescelti, di poter calpestare quel terreno sacro. Ma proprio in quel momento gli squilla il telefono.
«Scusa, Kate. Solo un minuto».
Respirando il familiare odore di terra, gironzolo lì intorno ed esamino una lavagna in cui sono esposti tutti i fiori. Tulipani, narcisi, amaryllis, giacinti – di certe sfumature che non avevo mai visto. Il mio cuore di giardiniere batte forte per l’emozione.
«Scusa, cara», dice Dan quando torna. «Hanno bisogno di me. Fa’ con calma e da’ uno sguardo in giro. E se vuoi ordinare qualcosa, parla pure con Alex laggiù».
Indica un ragazzo piuttosto giovane alla fine del corridoio. È girato di schiena, sta attentamente trapiantando delle piantine.
Poi torna a guardarmi e con un cenno del capo mi indica di avvicinarmi alla porta. Perplessa, lo seguo.
«Giusto per fartelo sapere, lavorava per la famiglia di quella ragazza che è scomparsa. Non dirgli niente, però. L’ha presa piuttosto male, mi sembra». Parla sottovoce, chiaramente non vuole farsi sentire.
Parola dopo parola, la mia curiosità cresce perché sono sicura di aver trovato il misterioso giardiniere di Jo. Non me ne andrò da qui senza avergli parlato.
Ma ho delle cose da sbrigare prima. Mi prendo del tempo per studiare le piante, rielaborando mentalmente il lavoro da fare e annotando le quantità necessarie. Ben presto sento dei passi alle mie spalle.
«Le serve aiuto?».
Alzo lo sguardo e così ho modo di osservare Alex da vicino. È più alto di me, avrà una ventina d’anni. I capelli sono neri e mostra la classica abbronzatura da giardiniere, il frutto di tante ore di lavoro all’aperto. È un bel ragazzo, ma ha lo sguardo diffidente e un atteggiamento circospetto nei miei confronti – forse non gli vado troppo a genio.
«Credo di aver finito», gli dico. «Ecco».
Gli passo la mia lista, lui la legge e poi annuisce lentamente. «È una bella composizione», dice. «Prima ho disegnato un allestimento, basandomi sulle stesse varietà. Se ha tempo, lo cerco e glielo mostro».
Lo osservo mentre rovista sul tavolo, dalla quale fa materializzare un foglio A4. Sono sorpresa: oltre a ideare giardini, ha un gran talento anche con il disegno. Se la cava molto meglio di me. Ha disegnato un’aiuola invernale da mozzare il fiato, e i tratti sarebbero degni di essere incorniciati e appesi a un muro.
«Narcisi bianchi, con gaultheria sullo sfondo», spiega. «Poi, quando i narcisi saranno appassiti, inizieranno a fiorire i tulipani rossi e i viburni verdi, e si prenderanno tutta la scena. Ho messo in mezzo anche qualche altro colore, solo qui e là. Un po’ di rosa e nero. Ho pensato fosse meglio optare per la massima semplicità».
«Meraviglioso», gli dico.
Alex fa spallucce. «Niente di innovativo. La gente crede di voler sempre qualcosa di originale, ma poi quando si tratta del proprio giardino tutti optano per la tradizione».
L’ho notato anch’io. Il cliente strano con i gusti d’avanguardia c’è sempre, ma gran parte delle persone preferisce il giardino all’inglese, con i soliti fiori di cui si conoscono i nomi e che si trovano ovunque.
«È proprio vero. Ma come mai lavori per Dan, se in realtà sei un designer?».
Non riesco a non chiedermi se quegli occhi scuri e impassibili non mi stiano per caso nascondendo qualcosa.
Alex corruga la fronte, e sento il suo sguardo affondare nel mio animo. «Te l’ha detto, non è vero?».
Annuisco, improvvisamente a disagio. «Scusa. L’ha fatto solo perché sa dove vivo».
Lui si limita ad alzare le spalle.
«In realtà, sono felice di averti conosciuto. Mi piace parecchio il loro giardino, soprattutto le aiuole».
Tento di dissipare la sua evidente ostilità e riportare la conversazione su un tono più amichevole, ma la sua espressione non cambia di una virgola.
«È facile quando i tuoi clienti hanno soldi da buttare». Ha un tono duro, quasi provasse risentimento nei loro confronti. «Non gli importava di spendere tanto, ma il giardino doveva essere “maestoso”. Nient’altro. E anche “costoso”».
Annuisco. “Maestoso” e “costoso” sono un’ottima descrizione degli Anderson ma, in fondo, perché no? Chiaramente possono permetterselo.
«Credo che là si senta parecchio la tua mancanza. Di sicuro la sente il giardino…». La mia vuole essere una frase del tutto innocua. Quasi buffa. Di certo, quello sguardo da funerale era l’ultima cosa che mi aspettavo di vedere.