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Passo alla stazione di polizia per lasciare il biglietto misterioso all’agente Beauman, poi alzo il volume dello stereo e parto per Bristol, sentendo il cuore più leggero di chilometro in chilometro mentre fantastico sul fine settimana che trascorrerò con Grace.

La trovo seduta fuori ad aspettarmi.

«Non hai idea di quanto sia felice di essere qui!». È vero. Potrò passare un po’ di tempo insieme a lei, e non solo: stare così lontano da casa mi aiuta a guardare da un’altra prospettiva Jo e tutti i suoi problemi.

Le brillano gli occhi. «Lo so, anch’io. Pensavo di andare in un ristorante italiano stasera, ti va? Non è caro».

Colgo al volo l’allusione al suo nuovo status di studentessa squattrinata.

«Non preoccuparti, Grace. Offro io! È bellissimo qui, comunque. Mi piace molto come hai arredato la stanza».

Quando apre la porta, lo spazio vuoto in cui l’avevamo lasciata diversi mesi fa è completamente diverso. Tutto mi ricorda la sua vecchia camera, tranne qualche nuova foto di lei e altri amici che devo ancora incontrare alle pareti. E poi i fiori. Quando nota che li sto guardando, diventa tutta rossa.

Alzo un sopracciglio. La domanda è implicita.

«Mamma…! Ok». Alza gli occhi al cielo. «Me li ha regalati un ragazzo. Si chiama Ned ed è un tipo in gamba. Ti piacerebbe».

Ned. È il primo Ned che incontro in vita mia. Chissà com’è fatto, se è il tipo giusto per lei.

«Ecco». Mi mette il telefono sotto il naso. «È lui».

Il viso gentile e sbarbato di un ragazzo mi restituisce lo sguardo. Forse è un po’ più grande di Grace? Ma se è una cosa seria, prima o poi lo conoscerò.

«Viene con noi?»

«Oh no, certo che no. Forse lo vedo più tardi, dipende».

Wow, rinuncia addirittura alla sua vita sociale per passare qualche ora con me, prima di rigettarsi nella mischia.

«C’è una festa?».

Annuisce. «Sì, ma non è importante. Non devo andare per forza, mamma».

«Vai pure. Sono contenta di andare a dormire presto».

 

Grace mi porta a fare un giro del campus, mentre chiacchieriamo dei club a cui si è iscritta e dei film che ha visto ultimamente; poi andiamo in macchina in città, dove trovo il Bed & Breakfast che ho prenotato. La mia stanza è pulita e accogliente, con un letto morbido e una vista panoramica sui tetti punteggiati di comignoli. Camminiamo per le strade della città fino a raggiungere il ristorante che ha scelto, legno vivo e mattoncini. Mangiamo pasta e beviamo vino rosso e, dopo averla aggiornata sugli ultimi avvenimenti di Jo e Neal, improvvisamente sfinita, cambio argomento. Voglio dimenticarmi di loro, di tutto ciò che mi sono lasciata alle spalle – almeno per un po’.

Ho prenotato la stanza per tutto il weekend, anche se so che Grace ha altre faccende da incastrare: avevo bisogno di cambiare aria e, per fortuna, qui non ci sono né visite né intrusioni. Sono felice di poter passare del tempo con lei, ma mi basta anche soltanto girare per negozi, oziare e concedermi del tempo per me stessa.

La mattina seguente, cedendo a un capriccio, vado a farmi la manicure. L’estetista è una ragazza di nome Mollie, davvero carina e molto truccata, che gira e rigira le mie mani dicendo di non aver mai visto nulla di simile.

«Fammi indovinare», aggiunge, fissandole con attenzione. «Cavalli».

Annuisco, impressionata.

«E giardinaggio. Lo so. Ci metto un po’ di questa crema. Vedrai, non le riconoscerai neanche quando avremo finito. È fatta con ingredienti fantastici, come calendula e olio di mandorla…».

Le dico che è la prima volta che faccio una manicure e poi la lascio continuare, appoggiando la testa allo schienale e ascoltando di sfuggita le chiacchiere inutili che si levano intorno a me – vacanze, reality show, televisione… Finché una frase non mi riporta di colpo sulla Terra.

«Sai quel giornalista che ha ucciso la figlia?», dice una voce con il classico tono da pettegolezzo. «Be’, sembra che sua moglie abbia provato a suicidarsi…».

«Cosa?», mi volto di scatto, togliendo la mano da quella di Mollie. «Puoi ripetere?»

«Quella Joanna, o come si chiama. Era sul notiziario, cara».

Mi volto di nuovo verso Mollie, frastornata. «Scusami, ma devo fare una telefonata», dico tirando fuori il cellulare e cercando il numero di Laura in rubrica. Vedendo la faccia perplessa di Mollie, aggiungo: «È una mia amica».

 

Il tempismo è ironico – o forse no? Assalita dai sensi di colpa, mi domando se sarebbe accaduto lo stesso se Jo avesse saputo che ero lì, a qualche chilometro di distanza anziché a ore e ore di macchina. E adesso che Neal è fuori dai giochi, chi si occuperà di Delphine?

Mi scuso con Grace, sentendomi incredibilmente in colpa anche nei suoi confronti per la delusione che le sto dando. Continua a ripetermi che non c’è problema, che capisce, che abbiamo passato una splendida serata e che adesso può andare alla festa senza dispiacersi per me. Eppure il rammarico non svanisce.

«Sarei potuta venire con te», la stuzzico, vedendo lo sguardo di terrore nei suoi occhi prima che scoppi a ridere.

«Avresti odiato tutti, mamma. La birra, il fumo. Detesti le ochette. E anche gli adolescenti ubriachi…».

«Sì, ma avrei potuto conoscere Ned», le faccio notare.

«Se proprio ci tieni, lo porterò a casa. A Pasqua. Se stiamo ancora insieme, ovviamente».

Penso alle vacanze di Pasqua. La primavera. Grace. E forse anche Ned… Tutte cose vivaci e meravigliose, piene di vita e speranza. E poi mi viene in mente Jo, fragile e tormentata, ancora incosciente ma fuori pericolo, secondo l’infermiera con cui ho parlato. E ovviamente, in mezzo a tutto questo c’è Delphine.

È tardo pomeriggio quando arrivo all’ospedale, sembra che il mondo intero si sia riunito qui. Nel parcheggio a pagamento (un vero e proprio furto) non c’è spazio e, dopo un giro assurdo tra i vari corridoi appesantiti dall’odore di disinfettante, trovo finalmente il piano e l’entrata. E mi scontro con il muro umano della capo reparto.

«Mi dispiace, ma la signora Anderson non può ricevere visite», afferma con voce imperiosa.

«Non credo che lei abbia capito la situazione», cerco di spiegare. «Sono l’amica più intima che ha – soprattutto da quando è sola. Non credo le farebbe piacerebbe sapere che non mi ha fatto entrare».

Cerco di non pensare al fine settimana con mia figlia andato a monte, alla fame e alla preoccupazione che mi divorano. E al fatto che Jo non ha nessun altro che tenga a lei abbastanza da essere qui.

La capo reparto non mi guarda neanche, scrive qualcosa su una di quelle tabelle che ha davanti e mi dà le spalle. Aspetto, spiando la lavagna dove è segnata la stanza di Jo, e quando la capo reparto sparisce dalla mia vista sgattaiolo in camera sua.