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Mi intrufolo all’interno della piccola stanza che Jo ha tutta per sé, mi chino sul letto cercando di non farmi vedere.
«Jo? Jo, mi senti?».
La osservo – una minuscola bambola di cera sotto lenzuola inamidate e piena di tubi di plastica che la tengono collegata a flebo e schermi. L’aria è carica del ronzio tipico degli apparecchi elettronici, sembra impossibile che qualcuno possa riuscire a dormire qui dentro. Ma lei è perfettamente immobile.
Controllo che non ci sia nessuno a portata d’orecchio fuori dalla porta, bisbiglio di nuovo il suo nome.
«Jo?».
E poi la vedo muoversi – un movimento appena accennato della testa e poi delle ciglia, come se stesse sognando.
«Jo? Tranquilla. Non sei stata bene e ora sei in ospedale».
Per un momento apre gli occhi, ma li richiude immediatamente. Intanto sento il rumore di passi alle mie spalle.
Il mio cuore smette di battere quando vedo la stessa capo reparto, irremovibile proprio come qualche minuto fa. «Per favore, se ne vada. Le ho già detto che non poteva entrare».
«E come le ho risposto prima, sono la sua più cara amica. E probabilmente l’unica persona che verrà a farle visita. Ha aperto gli occhi proprio ora. Mentre le stavo parlando».
Schiacciando il campanello, continua a guardarmi furiosa mentre la stanza si riempie di infermieri. Una dottoressa si fa largo e tenta di stimolare un’altra reazione in Jo. Invano.
Io me ne sto in piedi in un angolo, pregando che Jo riapra gli occhi mentre sento termini medici che non riesco a capire. Alla fine, quando la dottoressa sta per uscire dalla stanza, vado a parlarle.
«Mi scusi, mi può dire cosa sta succedendo?».
La dottoressa non risponde subito. «Lei sarebbe?»
«Mi chiamo Kate McKay. La sua più cara amica. Le sono stata vicina nei momenti peggiori. E ieri… sembrava che stesse bene. Altrimenti non l’avrei lasciata sola».
Non posso credere che sia successo solo ieri. Quando sono partita per Bristol.
«La sua amica è andata in overdose. Dovrebbe rimettersi, ma siamo ugualmente preoccupati per la sua situazione complessiva. Dopo tutto quel che le è accaduto, è possibile che stia riportando qualche disturbo post-traumatico da stress. Come sa, ha perso la figlia. Non potremo valutare come reagisce finché non riusciremo a parlarle».
«Devo dire che è stata piuttosto sorprendente», dico. «Ci sono stati alti e bassi, è logico, ma in qualche modo ha trovato la forza di andare avanti. Si era persino iscritta a un corso, non molto tempo fa. E stava lavorando per suo marito, prima che…». Mi fermo, chiedendomi cosa sa la dottoressa.
Annuisce. «Sì, la cognata mi ha informato. Il problema è: è riuscita a elaborare il lutto? Ha subito una grave perdita. E ora, senza considerare le circostanze, ha perso anche il marito…».
Di fronte a questo crudo riassunto, mi rendo conto di quanto mi sia abituata alle terribili difficoltà della vita di Jo. Quanto sono stata sciocca a immaginare che potesse superare tutto senza un qualche tipo di crollo! La perdita di una figlia non è un terremoto che si possa affrontare senza conseguenze. Da certe scosse non ci si riprende in qualche mese.
L’ho fatto di nuovo. Mi sono avvicinata troppo, non ho saputo vedere cosa c’era dietro il suo cuor di leone e la maschera coraggiosa, non ho fatto caso a quel che si nascondeva sotto. Jo non stava andando avanti; stava nascondendo la testa nelle insidiose sabbie mobili del dolore. E se ci fossi stata io al suo posto? Forse avrei fatto lo stesso. È molto più facile lasciarsi trascinare verso il basso, lasciarsi inghiottire dal gorgo. Non sarei mai stata capace di affrontare tutto. Da sola.
Quando torno a casa chiamo Laura, giusto per aggiornarla sulle novità.
«Sono andata a trovare Joanna. Volevo parlarle dei biglietti». Laura si rabbuia. «Credo sia stato il giorno in cui sei partita. Volevo solo chiederle se aveva idea di chi potesse averli scritti. Ho chiesto anche a Delphine».
«E che ti hanno risposto?»
«Joanna mi è sembrata piuttosto scossa quando gliene ho parlato. Tu credi che possa averli mandati lei stessa? È così stressata – magari era una sorta di grido d’aiuto, no?».
Alzo le spalle. «Non ne ho idea. Può darsi. Odia ammettere di aver bisogno d’aiuto…».
«Delphine non ha detto una parola», continua Laura. «Mi preoccupa quella ragazzina. Non si apre per niente».
«E ora?».
Laura scuote la testa. «Vediamo se te ne arriva un altro. È successa una cosa simile durante un altro caso che stavo seguendo. Ma si è scoperto che si trattava di un vecchio suonato convinto che la vittima avesse avuto quello che si meritava. Lettere d’odio postume, se le vogliamo chiamare così».
Non ci credo. «Ma chi mai farebbe una cosa simile?».
Laura ride. «Kate! Non ci sono solo persone buone al mondo! Esistono anche i malati e cattivi, sai. Pensa a Neal».
«È questo il punto», rispondo. «Se non fosse venuto fuori tutto il marcio, non avrei mai e poi mai sospettato di lui».
Laura annuisce. «Benvenuta nel mio mondo».