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Questo Natale ha un non so che di diverso – sarà l’invito a prenderci cura dei nostri cari che ci rivolge il prete durante la messa di mezzanotte, sarà che all’improvviso tutti hanno più tempo per il prossimo. Per altri aspetti, però, è un Natale come gli altri: cibo in abbondanza, vin brûlé e riunioni di famiglia. Tuttavia c’è un’allegria rinnovata. L’ultimo dell’anno lo passiamo da Rachael e Alan, una festa selvaggia e spensierata prima che Angus faccia ritorno al lavoro e io riaccompagni Grace a Bristol. Dopo di che, per la prima volta da un mese, sono da sola.

Una parte di me si gode il silenzio, i giorni in cui devo occuparmi della mia vita e basta, in cui mi fermo solo per cucinare un pasto per due quando Angus torna a casa e poi vado a letto e via di nuovo da capo. Ma è tutto calmo. Troppo calmo.

E prima che possa abituarmi al nuovo ritmo, si cambia di nuovo.

«Vogliono che vada a York per un po’», mi dice Angus. È tornato tardi da lavoro, ancora. Le borse scure sotto gli occhi gli conferiscono uno sguardo scheletrico, da zombie. «Il capo ha preso e se n’è andato, così. Sono davvero nei guai, Kate».

«E per quanto tempo?». Sapevo che aveva più lavoro ultimamente, ma non mi immaginavo questo.

Angus alza le spalle e poi sbadiglia, tutto in un unico movimento dettato dalla stanchezza. «Non lo sanno. Un paio di settimane probabilmente. Forse di più. Ma sarò a casa nei weekend».

«Non può andarci qualcun altro?». Non mi piace l’idea di avere due vite completamente separate. So che c’è gente che lo fa ma, a parte qualche giorno ogni tanto, io e Angus non ci siamo mai separati a lungo.

Dopo un minuto di silenzio, aggiunge: «Potrebbe anche essere una buona mossa per la mia carriera, Kate. Dirigerei un intero ufficio. E poi il problema è che non c’è davvero nessun altro».

 

Da quel momento sembra che il tempo voli fino alla sua partenza. Sono di un umore nero, mi manca più di quanto avessi osato immaginare, e vado a trovare Rachael.

«Quanto sei fortunata». La sua esplosione di concretezza è proprio ciò di cui avevo bisogno. «Guarda questo posto. È un porcile. Anzi, no. I maiali vivono in condizioni migliori».

Sappiamo entrambe che sta esagerando. La sua cucina è un macello, è vero – file di piatti da lavare, avvisi di scuola, i resti della colazione sul bancone – ma è quel genere di disordine che sa di famiglia, bambini e obiettivi, tutte cose che mancano a casa mia.

«Laura è ancora convinta che il colpevole sia Alex», dice, guardandosi alle spalle come se temesse di vederlo entrare dalla porta. «Delitto passionale. Alex voleva tornare con Rosie, lei ha accettato di incontrarlo, ma quando non gli ha dato quel che voleva è andato fuori di testa». Alza le spalle. «Mi sembra uno scenario plausibile. Ma mancano le prove».

«E quindi?»

«Ci penserà la scientifica, credo. Prima o poi. Siamo di nuovo tutti in attesa, no? Però promettimi una cosa, Kate: so che vai spesso al vivaio dove lavora, ma se ci ricapiti, stai lontana da lui, ok? Ti va un caffè?».

Si gira e comincia a rovistare nella lavastoviglie. «Sempre se riesco a trovare due tazzine».

Nel frastuono di piatti, i miei occhi scivolano verso la piccola televisione. Noto un volto che mi pare di conoscere.

«Rachael! Corri! Vieni a vedere…».

Lascia perdere quel stava facendo mentre io alzo il volume, appena in tempo per sentire la voce di Neal. Ma non è come la scorsa volta, adesso non si tratta di Rosie. Sta facendo un resoconto obiettivo eppure penetrante di come si sopravvive nelle zone di guerra.

Io non parlo, lo guardo e basta, quasi incredula. Dalla sua espressione, dal tono di voce, non si direbbe mai che abbia subito una perdita così grande.

«Dio», dice Rachael quando finisce di parlare. «A vederlo così nessuno potrebbe immaginare nulla, no?».

 

Pian piano, riscopro il piacere della quotidianità e la cosa non mi dispiace affatto. Un buon libro o un programma in TV che Angus non vorrebbe mai guardare. L’ordine sul mio tavolo da lavoro. E poi il tempo, per fare qualsiasi cosa senza dover controllare l’orologio in continuazione o pensare al prossimo pasto. Il tempo stesso diventa quasi un dono. Quando piove, faccio le pulizie. E quando il cielo schiarisce e il sole torna a splendere, infilo gli stivali e vado nell’orto a pulire le erbacce, spargere il concime e preparare il terreno per i prossimi semi. E con i giardini dei clienti da progettare e i cavalli a cui badare, la vita va avanti. Solo, un po’ diversamente.

Per caso, incontro Laura al mercato della domenica. Dopo il Natale passato dai suoi a New York, è tornata per un paio di giorni per rimettersi in pari con il caso di Rosie – sono passati cinque mesi e ancora niente indizi e niente progressi. Per quanto ne sappiamo noi, almeno.

«Pensi che Rachael avrà da ridire se pianto qualche fiore?», mi chiede, guardando il banco pieno di narcisi e giacinti.

«Hai già qualcosa», rispondo, ripensando al terreno su entrambi i lati della sua porta. «Ma è solo fine gennaio. Devi aspettare un altro mese per vedere i fiori».

Naturalmente, se non trovano l’assassino e lei non se ne va prima.

Mentre andiamo insieme verso il parcheggio, sospira: «Continuo a pensare che qualcuno, da qualche parte, deve pur avere una prova. Per forza. Solo che non lo dice».

«Tu pensi davvero che sia stato Alex, non è vero?».

Laura annuisce. «Devi ammettere che ogni cosa punta contro di lui».

Aggrotto la fronte. «Ma se fosse stato lui, qualcuno l’avrebbe scoperto. E l’avrebbe detto alla polizia – soprattutto con la morte di un’innocente di mezzo».

«Credimi, Kate, ci sono un mucchio di persone che non direbbero nulla. Mettiamola così: immagina, per un attimo, che Angus abbia fatto qualcosa di tremendo. E lo sai solo tu».

La guardo come se fosse impazzita, poi penso ad Angus, che torna a casa per il fine settimana e si gode un po’ di meritato riposo. È impossibile immaginarlo mentre fa del male a qualcuno. «Mi dispiace, non funziona. Non con Angus».

«Ok, forse non è l’esempio adatto». Resta in silenzio per qualche momento. «Ma quando qualcuno viene continuamente esposto a violenze, per tanto tempo, ciò che è scioccante diventa via via meno scioccante. E ovviamente, se lo vuoi, puoi inventare scuse per chiunque. Roba del tipo: non è colpa sua, suo zio abusava di lui da piccolo, sua madre la picchiava e la chiudeva in camera».

E anche se so che queste cose accadono davvero, sono così lontane dalla mia vita che mi fanno rabbrividire.

Laura parla con voce estremamente seria. «Tu non sai di che cosa è capace la gente, Kate. Il problema è che per molti, soprattutto i più vulnerabili, è più facile aggrapparsi a qualcosa che conoscono – per quanto orribile e brutale – che andarsene o cercare un cambiamento, come probabilmente faremmo io e te. Il male che già conosci vince sempre».

«Resta il fatto che la spiegazione più plausibile è che Rosie sia stata assalita da uno sconosciuto che l’ha uccisa».

«È possibile», risponde Laura pensierosa. «La vera domanda è come ci è finita nel bosco, così lontano dalla città, prima di essere uccisa. Non ci sono neanche segni evidenti di lotta».

Il che può significare solo una cosa.

Una cosa che non mi era venuta in mente, e che preferisco pensare piuttosto che dire ad alta voce. Ma quel pensiero mi attraversa tutta la spina dorsale: se Laura ha ragione, Rosie doveva conoscere il suo assassino. E qui il cerchio si chiude.

Su Alex.

 

«Laura ha detto una cosa che mi ha fatto riflettere», dico ad Angus più tardi, quella sera stessa. Dopo aver cenato di fronte al camino, stappiamo una bottiglia di vino. «Dato che Rosie è morta così lontano dal paese, secondo lei doveva conoscere il suo assassino».

«La polizia ci starà lavorando». Angus si butta sul divano, leva le scarpe e appoggia i piedi sul tavolino da caffè. «Quanto mi è mancato il camino».

«Uhm». Il pensiero che qualcuno che conosceva – qualcuno di cui doveva fidarsi – possa averle fatto una cosa simile continua a tormentarmi. E tutta punta sempre di più contro Alex.

«Mi sono scordato di dirtelo. Abbiamo trovato un appartamento», continua a dire Angus. «Ora che anche Ally e Nick sono stati trasferiti su».

«Come, scusa?». Improvvisamente ha tutta la mia attenzione.

«Andrò a convivere con Ally e Nick in un enorme appartamento di lusso».

«Convivere?», ripeto, mentre rielaboro l’informazione e cerco di capire cosa provo.

Lui annuisce. «È un palazzo enorme. Ti piacerà. Si vede tutta la città».

«Sembra bello». Mi rimangio ciò che davvero vorrei dirgli – perché in realtà non mi sembra per niente bello. Ally è una ragazza giovane, carina e molto ambiziosa, e fino a qui niente di male. Ma ho visto come guarda Angus, ho notato il suo linguaggio del corpo quando lui le apre la porta. E anche se dubito che lui se ne sia accorto, non mi fido affatto di quella ragazza.

«Non vedo l’ora di fartelo vedere», dice allegramente.

 

Laura mi chiede di tenere gli occhi e le orecchie ben aperti. Ma quando incontro di nuovo Alex al vivaio, lo avvisto solo da lontano, mentre sono tutta presa a comprare nuove piante. Non mi aspettavo di trovarlo – è ancora un sospettato d’omicidio dopo tutto. La sua presenza mi rende nervosa, non vado a parlargli. E in effetti, mi sembra che anche lui se ne vada alla svelta per evitarmi.

 

Poi vado a trovare Jo.

Non so se è merito del nuovo anno, del fatto che è sopravvissuta al Natale o dei nuovi superpoteri che ha trovato dentro di sé, ma mi sembra molto più calma e serena, come se avesse voltato pagina e stesse per iniziare un nuovo capitolo.

«Devo fare qualcosa di più», mi dice. «Voglio dire, sono ancora qui. Non dovrei sprecare la mia vita, no? Ho deciso di frequentare un corso».

Sì, ha perfettamente ragione. Sprecare il resto dei suoi giorni non riporterebbe di certo indietro Rosie. La vita è già troppo breve e imprevedibile così. Eppure è passato così poco tempo e l’assassino di sua figlia deve ancora essere trovato… Jo non si starà spingendo un po’ oltre il limite?

«Buon per te. Dico sul serio. Hai già qualcosa in mente?».

Sembra preoccupata. «Ecco, mi sono già iscritta a un corso di informatica. Non fare quella faccia! Non è una cosa di cui parlo spesso perché me ne vergogno tanto, ma non ho mai capito nulla di computer. Non li ho mai dovuti usare molto, a parte scrivere qualcosa per Neal. Ho l’obbligo di frequenza, una settimana e poi un’altra più in là. In seguito sarà tutto a distanza. Che ne pensi?».

Penso a Delphine, senza sua madre, ancora una volta.

Nota la mia incertezza. «Oh, lo so. Avrei potuto trovare qualcosa più vicino a casa. È solo… che mi serve, Kate. Andare via. Distrarmi».

I suoi occhi mi supplicano di capirla.

«Sembra fantastico», le dico, mettendo a tacere ogni dubbio. È chiaro che ha bisogno di sentirselo dire. «E poi, quando sarai un’esperta, verrai a insegnare a me!».

Sorride, ma è un sorriso che vacilla subito. Quando torna a guardarmi, la solita immensa e devastante tristezza è tornata nei suoi occhi.

«Puoi essere sincera con me, Kate. Pensi sia una cosa brutta? Proprio ora? Così presto…». La voce le si spezza.

«No, Jo, certo che no…». Allungo una mano e le stringo il braccio. «E comunque non spetta né a me né a nessun altro decidere cos’è giusto. Se anche servisse solo a distrarti, sarebbe comunque una cosa positiva. Non c’è proprio niente di sbagliato».

«È difficile capire cos’è meglio», risponde a bassa voce. «Tutti amano dirti quello che devi e non devi fare. E arrivi a un certo punto che hai solo voglia di urlare. Se rimango in questa casa diventerò pazza, questo lo so». C’è una punta di panico nella sua voce. «Sto per scoppiare, Kate. E questo corso forse riuscirà a farmi sopravvivere a un’altra orrenda settimana, mi darà altro a cui pensare. Forse è troppo presto, ma sento che devo provarci».

Fa un respiro profondo. È combattuta, lotta con se stessa. Mi si spezza il cuore.

«Dimmelo se posso aiutarti in qualche modo, va bene? Magari con Delphine. O qualunque altra cosa… Me lo dirai, sì?».

Annuisce. «Grazie, Kate. Ma dovremmo cavarcela. Neal si prenderà un periodo di permesso». Un’espressione ansiosa si posa per un momento sul suo volto. «È ora. Ha bisogno di staccare – sai, dopo tutto quanto…».

«Ne sono felice, Jo. Magari vi farà bene. E dillo anche a lui, ok? Per la prossima settimana, intendo. Non deve far altro che chiedere…».

 

E poi, presa dal lavoro, mi dimentico del viaggio di Jo e della mia offerta d’aiuto, finché una mattina di metà settimana Neal viene a bussare alla mia porta. Sono nel bel mezzo di una chiamata con una nuova cliente, sto cercando di convincerla che so cosa è meglio per il suo giardino, quando compare alla finestra della cucina e mi saluta. Lo faccio entrare.

«Un minuto», mimo con la bocca, scarabocchiando qualche appunto mentre lo osservo. Guarda fuori dalla finestra a braccia conserte.

«Scusami», dico quando riaggancio. «Stavo parlando con una cliente sfuggente che inseguivo da giorni. Come stai?»

«Bene, grazie. Non avevo idea che fossi così impegnata. Non è urgente, posso sempre ripassare…».

«No! Prendiamoci un caffè. Va tutto bene?». Gli do le spalle per riempire il bollitore e cercare due tazze, ma percepisco lo stesso il peso della sua presenza che sovrasta la mia cucina.

Sento che si accomoda su una sedia. «Grazie. Sono in fase di adattamento, per così dire».

«Latte e zucchero?»

«Solo latte. Non sono sicuro che il mio lavoro con l’ente di beneficenza sia una buona idea». Non sembra affatto felice.

«Quale? L’orfanotrofio?», gli chiedo.

«Me ne sono tirato un po’ fuori, almeno per ora». Resta in silenzio qualche secondo. «Non so cosa ti ha detto, Kate, ma la verità è che in questi giorni non posso proprio lasciare sola Joanna».

Mi manca il fiato. «Pensavo se la stesse cavando bene. Soprattutto ora che ha iniziato questo corso».

«Tu credi?». È restio a parlare. «Non so, magari hai ragione. Ma il momento è sbagliato, quanto meno. Tanto per dirne una bisogna pensare a Delphine».

«Starà bene, no? Ci sei tu a casa adesso».

Neal mi osserva a occhi socchiusi. Gli si vedono le rughe intorno alle palpebre. È uno sguardo così diretto che per qualche ragione mi rende nervosa. «Di’ pure che sono troppo all’antica, Kate, ma ho visto centinaia di bambini rimasti orfani. In Afghanistan. Hanno assistito agli orrori più terribili che si possano immaginare. Hanno il cuore spezzato, hanno perso la casa e la famiglia. Che abbiano tre, nove o quindici anni, non fa differenza: non hanno più niente. E dovresti sentirli, Kate. Come urlano cercando la madre. Vogliono sempre la madre».

Abbassa gli occhi. «Hai ragione però, su Delphine. Non è la stessa cosa».

«È stupendo quello che fai per quei ragazzi, Neal». Per me, che raramente mi avventuro fuori dal mio piccolo mondo, la sua crociata contro guerra e povertà, mettendo a rischio la sua stessa vita in nome dell’umanità, è un atto supremo di abnegazione.

«Vorrei fare di più», dice. «Vuoi la verità? Se non avessi Jo o Delphine, tornerei là. Una volta per tutte. Ne farei la mia vita».

Parla come se ogni parola gli venisse dal cuore. Appoggiando le tazze sul tavolo, mi siedo di fronte a lui.

«Grazie», dice. «E poi c’è un’altra cosa: faccio davvero schifo in cucina».

«Perché tu e Delphine non venite a cena?», dico con entusiasmo. «Cucino solo per me in questi giorni… be’, durante la settimana».

«Ah sì?»

«Angus sta lavorando a York», gli spiego. «Dal lunedì al venerdì. Quindi, sul serio: siete più che benvenuti».

Mi scruta per bene. «E a lui non dispiacerebbe?»

«Ad Angus?». Quando colgo l’allusione – lo sto invitando a cena mentre mio marito è fuori – rispondo con una profonda incredulità. «No, certo che no».

Ed è qui che godo della versione integrale del caloroso sorriso di Neal Anderson. «Allora grazie. Ci piacerebbe molto».

 

Cuocio un pollo a fuoco a lento, preparo patate arrosto e verdure che ho raccolto direttamente dal giardino. È così facile aggiungere un cotorno all’ultimo minuto che mi verso un bicchiere di vino. Riordino la stanza e apparecchio per tre. Non ho scelto i vestiti migliori: ho solo infilato un paio di jeans puliti, poi un’ombra di trucco e profumo. In fin dei conti, è solo una cena informale tra amici.

Ma quando apro la porta, rimango sorpresa nel vedere che Neal è venuto da solo.

«Delphine ha da fare stasera», spiega. «Me ne ero completamente scordato quando ci hai invitato. Senti, se preferisci, possiamo fare anche un’altra volta. Lo capirei se…».

«Ma no, certo che no. Entra pure. Ho già cucinato…». Sono troppo entusiasta, un po’ sopra le righe. Cerco di nascondere quello che lui ha già intuito. La verità: l’idea di restare da soli mi innervosisce. Non so bene perché, ma mi sembra una cosa un po’ troppo intima. E ora come ora, non so più come la prenderebbe Angus. O Jo. Ma poi una ferrea determinazione scaccia via ogni altro pensiero: è solo una cena, santo Dio. E Angus è a York, no? Di certo non mangerà sempre da solo.

«Fantastico. Apro questo». Mi mostra una bottiglia. «Ho pensato ti piacesse il rosso, va bene?»

«Sì, il rosso è perfetto. Grazie».

Gli passo il cavatappi, riempiendo un silenzio imbarazzato che non accenna a sciogliersi nonostante tutti gli sforzi di Neal. È stato un po’ ingenuo da parte mia invitarlo qui? Ma non è andata così, ripenso. Io ho invitato anche Delphine.

«Allora, dov’è Delphine?», chiedo.

«Da una compagna di scuola», taglia corto. «Non sono molto bravo con gli impegni di famiglia. Se ne occupa sempre Jo, anche perché io sono spesso fuori».

«Santo cielo, sei proprio come Angus», rispondo, prendendo il bicchiere che mi porge.

Mi guarda con occhi scintillanti. «Noi uomini – siamo tutti uguali, eh? Salute!», sbatte il calice contro il mio.

«Salute! Non siete poi così male, dai», intendo la categoria degli uomini in generale, non solo Neal. Butto giù il vino piuttosto velocemente. Qualcosa nella sua presenza qui mi sconvolge. «Mangiamo?»

«Buona idea. C’è un odore fantastico, comunque. Non puoi immaginare cosa sono capace di combinare io in cucina. Comunque, come sta tua figlia?»

«Grace? Molto bene. Adora l’università. E a me manca da morire, ovviamente…». La voce mi si strozza in gola mentre servo il pollo.

«È tutto ok», dice con dolcezza quando gli porgo il piatto. «L’ho chiesto io. E poi non è sbagliato parlare di lei. È tua figlia. Devi sentirti libera di farlo».

«Sai perché non ne parlo mai?», rispondo, chiedendomi perché riesco a dire queste cose a lui ma non a sua moglie. «Perché quando pronuncio il suo nome di fronte a Jo mi sento così in colpa».

Scuote la testa. «Non dovresti, davvero», dice gentilmente. «Non è colpa tua se Rosanna è morta. Né di nessuno di noi. La vita va avanti. Deve andare avanti, Kate. Ho bisogno di crederlo. È l’unica cosa che mi spinge ad affrontare tutto questo».

«Deve essere uno strazio. Non sapere», dico con un fil di voce.

Resta in silenzio per qualche secondo, e poi: «Sì».

Mangiamo senza dire una parola; poi quando guardo nella sua direzione, dall’altra parte del tavolo, sento un legame quasi tangibile, una connessione di empatia – è così coraggioso, così forte. E non ha nessuno vicino a sé che sia forte per lui.

È come se mi leggesse nel pensiero: mette giù forchetta e coltello, mentre il mio cuore batte forte. Sul tavolo, in qualche modo, le nostre mani si intrecciano.

«Come ci riesci?»

«A fare cosa, a prenderti per mano? È facile, Kate. Le mie dita si chiudono sulle tue, in questo modo, e…».

Ha un tono di voce leggero, ipnotico. Le sue dita sono forti e calde intorno alle mie. Come può un semplice tocco essere così intenso?

Che cosa sto facendo?

«Non intendevo quello». Vorrei ritrarre la mia mano, ma c’è una sorta di forza che mi trattiene lì, la stessa che mi fa tremare le dita, battere il cuore e capovolgere lo stomaco. Cerco di ignorare le mie sensazioni, mi concentro. «Volevo dire come fai a sopravvivere, a rimanere così forte. Come puoi, dopo quello che è successo?».

Sospira. «Oh. Quello. È che a volte, Kate», dice, «non ti resta davvero altra scelta».

Io non rispondo alle sue tentazioni e il sipario cala. Lentamente ritira la mano e poi si alza in piedi, si offre di rimettere a posto controllando l’ora.

«Non ti preoccupare, grazie», gli rispondo. «C’è davvero poco da lavare».

Perlustra la cucina con lo sguardo: per un istante mi sembra di poterla vedere attraverso i suoi occhi. Piccola e disordinata, non perfettamente pulita come la sua; legno anziché acciaio lucente. I piatti da lavare ammucchiati nel lavandino, tutti gli ingredienti sparsi sulle superfici da lavoro. Ma poi smetto di fare paragoni, perché questa è casa mia e io la adoro in ogni suo disordinato centimetro.

«È stata una cena fantastica», dice alla fine.

«Scusa, avrei dovuto preparare un dolce. Però posso fare il caffè, se ti va». Ma è un’offerta palesemente svogliata.

Cade il silenzio, carico di parole non dette. E alla fine mi fa: «Forse è meglio che vada. Grazie per la serata, Kate».

Fa un passo avanti. E proprio come mi tremavano le dita poco prima, sento il mio cuore da traditrice che affonda nel petto.

«Non c’è di che. Davvero».

Non dico: «Dovremmo rifarlo», sono troppo consapevole dell’effetto che ha su di me. E prima che possa fermarlo, si china. Avvicina le labbra. Che toccano le mie.