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Penso di chiamare Carol, ma alla fine telefono ad Angus. Sono indecisa su cosa sia meglio per Delphine.
«Potrei andare a prenderla io a scuola», propone lui. «Può darsi che non trattengano Jo a lungo. Scusa, Kate, ho un’altra chiamata. Perché non aspetti che torni a casa? Proverò a uscire prima».
Delphine torna con l’autobus o è Jo che la va a prendere? Non ne ho idea. Alla fine, vado a scuola e aspetto fuori.
So che è impossibile distinguerli a prima vista, in teoria. I bambini che hanno l’infanzia segnata da un divorzio. Quelli più fortunati, per i quali il peggio che possa accadere è una punizione o un brutto voto. Sono cose che potrebbero capitare a tutte le famiglie ma, mentre osservo il parcheggio riempirsi di adolescenti, non posso fare a meno di chiedermi: quanti di loro hanno una storia simile a quella di Delphine? Una sorella morta, un padre assassino, una madre con un mucchio di problemi seri e una casa enorme e splendida, ma vuota e infelice. Non riesco proprio a immaginarmi nessun altro così sfortunato.
Quando penso che mi sia sfuggita, la vedo tra la folla. È sola, composta e impassibile mentre si guarda intorno. Quando mi vede, si avvicina. Ma il suo sguardo è ancora impassibile.
«Non so per quanto tempo la terranno ricoverata», dico a Delphine mentre l’accompagno in macchina a casa sua. Le ho suggerito di prendere dei vestiti puliti e tutto quello che vuole giusto per stare via qualche giorno. «Chiamerò l’ospedale più tardi. Nel frattempo puoi rimanere da noi, almeno finché non sappiamo come vanno le cose».
Seduta al mio fianco, Delphine non risponde, annuisce e basta.
«Non ti preoccupare, tesoro. Se la caverà. Credo che le servano delle cure appropriate e solo un po’ di tempo».
«Lo so», dice Delphine. «E non sono preoccupata in realtà».
È una strana affermazione, ma in fondo tutta la sua reazione lo è. Mi aspettavo lacrime, tristezza o persino rabbia – ma niente. Niente a parte la sua solita indifferenza passiva.
«Hai la chiave?».
Annuisce.
Parcheggio di fronte casa loro.
«Se vuoi vengo con te. Potrei aiutarti a portare fuori qualcosa».
Fa di sì con la testa e mi dice: «Grazie».
La seguo sul vialetto e all’ingresso, poi si ferma e va ad aprire la porta del garage.
«Devo togliere una cosa da lì dentro», è tutto quello che dice.
Mentre va al piano di sopra a preparare lo zaino io rimango ad aspettarla in salotto. Guardandomi intorno, noto che ci sono pile di giornali e riviste e vestiti ovunque, buttati alla rinfusa. Non è da Jo. Anche in cucina ci sono la credenza aperta e i piatti ancora da lavare. Poi vedo il bicchiere e una bottiglia vuota di vodka.
«Lei pensa che io non lo sappia».
La voce proviene da dietro di me. Quando mi giro, trovo Delphine che fissa la bottiglia.
«Beve quando si sveglia. E anche durante il giorno, quando sono a scuola o pensa che non me ne accorga». Parla con il solito tono piatto e privo di emozioni.
Sono esterrefatta di non averlo mai notato. Come ho fatto a non accorgermi che la mia amica è un’alcolizzata? «Mi dispiace tanto, Delphine. Non lo sapevo».
Delphine alza le spalle. «Nessuno lo sa. Non fa niente. Non c’è problema».
E il problema c’è, invece, ed è così grande che non so proprio cosa dire.
Per tutto il viaggio fino a casa non penso che a Jo e al suo alcolismo. Poi preparo il tè a Delphine, provando un po’ di nostalgia per i tempi in cui Grace era piccola e non faceva che parlare in continuazione in macchina e poi, una volta a casa, mangiava due o tre pezzi di torta, si metteva i pantaloni da cavallerizza e correva fuori dal suo amato Oz. Spensierata, felice e libera – come dovrebbe essere ogni bambino.
E so che lei non è Grace, ma è così silenziosa.
«Vuoi aiutarmi a dar da mangiare ai cavalli più tardi?»
«Sì, magari. Posso prendere in prestito i vestiti di Grace un’altra volta?»
«Certo. Sono ancora nella camera degli ospiti dove li abbiamo lasciati l’altra volta. Speravo proprio che li usassi ancora».
Delphine annuisce e continua a mangiare.
Lo speravo – ma non così.
Il potere dei cavalli è così forte che le fa tornare la lingua e la luce negli occhi. Le do una corda per prendere Reba e, quando torna, non si porta dietro solo lei, ma anche tutti gli altri.
Scorgendo un barlume di felicità nel suo volto, le passo una spazzola. «Inizia dalla parte più alta del collo e poi vai indietro», le dico. «Quando hai finito entrambi i lati, passa alla criniera e alla coda».
Osservo l’espressione beata di Reba mentre Delphine la striglia, e poi la lascio continuare da sola mentre vado a riempire l’acqua. La guardo di nuovo, vedo la sua testa chiara appoggiata al muso scuro di Reba. Ha gli occhi chiusi, ed entrambe restano immobili.
Passa un’ora, per lo più in silenzio. Quando ritorniamo verso il cancello, con il sole che si abbassa e si intrufola tra gli alberi ferendoci gli occhi, cerco di capire come arrivare a lei.
Una volta a casa, chiamo l’ospedale e poi vado a cercare Delphine.
È davanti alla televisione, quasi immobile. Il volume è basso. Quando entro, la spegne. Mi siedo accanto a lei e la prendo per mano.
«Ho appena parlato con l’ospedale. Terranno tua madre per un po’. È disidratata e parecchio confusa. Le hanno messo la flebo e le faranno qualche esame. Sono sicura che starà bene». Non distolgo mai lo sguardo dal viso di Delphine, cercando di decifrare una sua reazione. Ma niente, sembra lontana anni luce.
«Magari domani posso portarti a trovarla, dopo la scuola».
Per la prima volta, ottengo una qualche risposta. Scuote la testa con decisione. «No, grazie. Va bene così».
Non è certo quello che mi aspettavo. «Potrebbe farle bene vederti».
I suoi occhi affondano nei miei, ha uno sguardo penetrante. «Ma io non voglio. È colpa sua se sta male, no?»
«Credo che sia un pochino ingiusto parlare così, Delphine. È vero, deve smetterla di bere. Ma la morte di Rosie, i comportamenti di tuo padre – non è stato facile per lei. Lo capisci questo?».
Incrocia le braccia e rivolge lo sguardo alla parete. «La rimanderanno a casa?»
«Cosa?». Allora è questo che la preoccupa? Ha paura di perdere sua madre, oltre a tutto il resto? «Certo che la rimanderanno a casa. Non devi preoccuparti, Delphine. Davvero…».
«Non è questo». La sua voce è dura.
«Dimmi», rispondo gentilmente.
«È che non la voglio».
«Delphine, non puoi dire sul serio…».
«Perché no?». Gli occhi le brillano di collera. «Rovina sempre tutto. Perché la gente non riesce a capirlo? Non è una madre. È patetica».
Sono parole così gonfie di odio e risentimento che mi scioccano. Come può odiare la sua stessa madre?
«Sono sicura che lei non vorrebbe essere così, ma è malata, Delphine. Ha bisogno d’aiuto, proprio come una persona con una gamba rotta».
«Non guarirà mai. È sempre stata così».
«È per questo che vuoi vivere con tua zia?».
Lo dico nel modo più gentile e compassionevole del mondo, ma Delphine si volta comunque a guardarmi.
«Mi ha chiamato, tesoro. La settimana scorsa. È preoccupata per te. E per tua mamma».
E comincio anche a capire il motivo.
«Mamma la odia», risponde in tono piatto. «Dice che è una persona banale e stupida e semplice. Ma non è vero. È gentile e ama la gente. È una vera madre».
«Vuoi che le telefoni?».
Delphine esita e poi dice: «Ok».
«Va bene. Lo faccio subito. Sono sicura che sarà più che felice di parlarti».
Ma mentre vado verso il telefono, in un tono completamente diverso – quello di una bambina che soffre, una voce che mi spezza il cuore – dice: «Posso restare qui, Kate? Con te? Per favore».
È soltanto ora, con Delphine sotto il nostro tetto, che mi rendo conto della gravità dei problemi di Jo. In sua figlia vedo il riflesso di ogni sua ossessione: dal cibo che mangia al modo con cui sistema la stanza, così ordinata che non lascia alcuna traccia del suo passaggio. Si direbbe quasi che non ci sia mai neppure entrata.
«Non ho mai conosciuto una bambina come lei», dico a Rachael. «La maggior parte delle volte neanche ci si accorge della sua presenza».
«Dio. Povera piccola. Chissà che succede in quella testolina. Ecco, prendi un po’ di torta. L’ho nascosta ai ragazzi».
«Grazie». Prendo il piatto, accigliata. «Sa troppe cose per una bambina della sua età. Mi ha parlato lei dell’alcolismo di Jo. Era così calma che mi ha messo paura. E dopo ha sputato fuori tutte quelle offese, diceva che è colpa di Jo se ha un problema con l’alcol. Non vuole neanche andare a trovarla all’ospedale».
«Magari non le piace quel posto. Anche io lo detesto. Gli ospedali sono terrificanti». Rachael taglia un’altra fetta di torta.
Per un po’ resto in silenzio, pensierosa. «Ora che sono rimaste soltanto loro due dovrebbero essere più unite che mai, no? E invece non è affatto così».
Quel pensiero mi perseguita anche il pomeriggio seguente, quando vado all’ospedale. Dato che hanno spostato Jo nel reparto psichiatrico, mi aspetto di trovare delle stanze cupe, non delle camere soleggiate con vista sul giardino. Non sono del tutto sicura che vorrà vedermi, dopo quelle rivelazioni su Neal.
Appoggiata ai cuscini, Jo ha un’aria smunta, malata, esausta.
«Come ti senti?». Odio vederla così, l’ombra di quella mia amica coraggiosa e torturata, che ha sofferto così tanto. Scuote la testa, ma il collo non riesce a sorreggerla, sembra quasi che debba ricadere verso il basso. Capisco che è stata sedata.
Mi siedo lì accanto e le prendo la mano. «Non parlare, Jo. Volevo soltanto dirti che Delphine sta bene. Starà con noi. Non ti preoccupare per lei. La terrò d’occhio io. Ora concentrati soltanto su di te. Rimettiti in sesto».
Non sono certa che mi abbia capito, ma poi le sue labbra si muovono e mi sembra di sentire un bisbiglio, un flebile grazie.
Rimango finché non si addormenta di nuovo e il movimento del petto non si fa più lento e regolare. Poi vado alla reception.
«Mi scusi, sa indicarmi qualcuno con cui posso parlare di Joanna Anderson?».
L’infermiera alza lo sguardo. «Lei è una familiare?»
«Sono la cosa più simile a una famiglia che abbia», rispondo, e mi rendo conto di quanto sono vere le mie parole. «Mi prendo cura della figlia. Vorrei solo sapere che cosa sta succedendo».
Ci vogliono diverse richieste e un’ora di attesa perché un dottore mi dica che, finché non avranno fatto tutti gli esami psichiatrici del caso, Jo non se ne andrà proprio da nessuna parte. Non sa dirmi quanto tempo ci vorrà, né vuole rivelarmi di quali esami si tratta.
«È maledettamente frustrante». Telefono ad Angus dalla macchina, mentre aspetto Delphine fuori da scuola. In sole ventiquattro ore, siamo tornati indietro di qualche anno: a quando dovevamo stare ben attenti a cosa dire di fronte a Grace. Solo che stavolta è Delphine.
«Può rimanere con noi, vero?».
Lo sento sospirare dall’altra parte del telefono, sapendo già – ancor prima che mi risponda – quale sarà la risposta. È questa generosità che mi ha fatto innamorare di lui.
«Ti amo», gli dico. «Eccola che arriva. Vado».
Mentre Delphine sale in macchina, stampo silenziosamente un bacio sul telefono.
«Ciao! Com’è andata la giornata?»
«Ok». Come ogni altra cosa nella sua vita. Non c’è mai niente di fantastico o terribile. Solo e sempre ok.
«Ti va di cavalcare Reba più tardi?»
«Posso?».
I giorni seguenti passano in maniera simile. Jo è ancora nelle mani dei medici che la stanno curando, io cerco disperatamente di far uscire Delphine dal guscio in cui si è rinchiusa. Con ben pochi risultati. Quando non so più come aiutarla, chiamo Laura.
«Sono a un punto morto», le dico quando passa a trovarmi. «Non è come tutti gli altri bambini che ho incontrato. Si tiene tutto dentro».
«Da quand’è che sta con voi?»
«Quattro o cinque giorni». Sembra molto di più. È il potere magico del tempo, quando la vita ti scaglia addosso così tanti cambiamenti che prima e dopo all’improvviso sono lontani anni luce.
«È davvero bello da parte tua prenderti cura di lei», dice Laura. «Come sta?»
«Ok. È quello che dice di ogni cosa: “Tutto ok” – a parte in quei momenti in cui se la prende con la madre».
«Probabilmente si sente abbandonata», risponde Laura. «Non solo da Jo, ma dalla vita intera. Ha dodici anni, no? Io a quell’età, non mi preoccupavo di niente – be’, forse dei compiti. Quel genere di cose comunque. Non come lei».
«Non avevo realizzato che Jo avesse un serio problema di alcolismo. Del genere vodka a colazione».
Laura resta in silenzio per un po’. «Povera Jo. Ma alla fine c’era da aspettarselo, no? Dopo la morte di sua figlia, le sue insicurezze… E tutti i problemi che ha avuto. Probabilmente era l’unico modo che aveva per sopravvivere al matrimonio con Neal, senza parlare degli ultimi mesi».
Esita per qualche momento. «Il punto è che quando qualcuno passa quello che ha passato lei, non c’è un modo per aggiustare le cose. Ha sofferto le pene peggiori che possano mai capitare a una donna. Praticamente ha perso metà della sua famiglia. E come ti riprendi da una cosa simile?».
Non riesco a capire, però, come possa essersi dimenticata di Delphine, come se lei non contasse nulla. «C’è un’altra figlia che ha bisogno di lei. Non può semplicemente chiamarsi fuori, o sbaglio?»
«Oh», risponde Laura, «be’, lei ci riesce. Ah, hanno trovato Alex. A quanto pare non era stato del tutto sincero. Quella sera era con Rosie. Prima che accadesse tutto. Finché sua madre non l’ha chiamata dicendo che Neal stava arrivando – così ha detto».
«Ma Rosie era da Poppy».
Laura alza un sopracciglio. «Sì, be’, questa era un’altra bugia di Poppy. Suo fratello è stato arrestato per aver picchiato un tizio che le dava fastidio, quindi non c’è da stupirsi che non abbia molta voglia di collaborare con la polizia».
«E allora…», sto provando a elaborare il significato di queste ultime rivelazioni.
«Alex potrebbe essere stato con Rosie, o forse no. Potrebbe essere l’assassino, o forse no, te lo dico con sincerità. Poppy giura che sia innocente. Entrambi accusano Neal, ma non è questo il punto. E c’è ancora un’altra cosa che non abbiamo preso in considerazione».
«Cosa?», la guardo dritta negli occhi.
«E se i giornali avessero ragione, Kate? È una cosa che viene fuori di tanto in tanto: e se Rosie fosse stata davvero incinta?».