14
Salto fuori dall’auto, corro subito al suo fianco.
«Cristo santo, Jo! Per poco non ti metto sotto…».
Anche se ci sono io a sorreggerla, si rimette in piedi a malapena. Le cede una caviglia e sfodera un sorriso così sghembo che capisco subito la verità: è ubriaca marcia.
«Pensavo fossi a Londra! Dai, ti accompagno a casa».
Tenendola per un braccio, la aiuto a montare in macchina. La puzza di alcol invade presto tutto l’abitacolo, il che mi dà una vaga idea di quanto possa aver bevuto.
«Sto bene, Kate. Davvero! Guarda quanto sono felice! Sto proprio bene…». Ma biascica e parla a voce troppo alta.
«Non è vero». Abbasso il finestrino e accolgo con gratitudine l’aria fredda che mi sfiora il volto. «Ce le hai le chiavi?».
Apre la borsa e rovista alla rinfusa per tutto il tempo che impieghiamo ad arrivare a casa sua. Prego Dio con tutto il cuore che ce le abbia, perché pare proprio che non ci sia nessuno. Così le prendo la borsa.
«Eccole». Gliele faccio penzolare davanti. «Andiamo. Ti accompagno dentro».
Apro la porta e procedo a tastoni alla ricerca di un interruttore. Inciampa sul gradino e per poco non finisce a terra.
«Ti preparo un bel caffè», le dico.
«Ci divertiremmo di più con un drink!», e cade a peso morto sul divano. Illuminata dalla luce elettrica, le vedo il viso coperto di chiazze e gli occhi iniettati di sangue. Si appoggia allo schienale e tira su le braccia. «Dai! Un po’ di vodka, Katie! Lasciati andare! Ubriachiamoci per bene…».
«A te non serve un altro drink, Jo. Perché non ti riposi un po’ qui? Stendi le gambe. Io vado ad accendere il bollitore».
La lascio in salotto a blaterare qualcosa su Neal che non ama i piedi sul divano. Neal, Neal. Neal… Ora che non mi guarda, prendo la bottiglia vuota di vodka e la butto nel cestino, poi uso il rubinetto sbagliato per riempire il bollitore. Apro l’acqua e corro subito a vedere come sta.
Mi siedo sul divano accanto a lei. «Che è successo, Jo? Perché non sei a Londra?».
Il sorriso ubriaco svanisce e gli angoli della bocca si piegano verso il basso. Il suo viso si contorce come se qualcuno l’avesse colpita con forza. Alla fine crolla.
«Oh mio Dio…». Scoppia a piangere, si copre il volto con le mani mentre il dolore la devasta. Geme. Lentamente alza gli occhi verso di me, li strizza, cercando di mettermi a fuoco. «Non mi vuole». Si mangia le parole, perciò non capisco bene. Quando le chiedo di ripetere, è come se le chiedessi di strapparsi il cuore dal petto.
In seguito, non dice molto. Sento solo lamenti e gemiti, mentre con la testa tra le mani piange scossa dai singhiozzi. Le preparo il caffè, ma non lo beve; e poi, prima che riesca ad accompagnarla a letto, si allunga sul divano e chiude gli occhi. In una manciata di secondi dorme come un sasso. Prendo due dei suoi bellissimi cuscini fatti a mano e glieli infilo sotto la testa. Cerco qualcosa di simile a una coperta da metterle addosso ma, non trovando nulla, provo di sopra.
È la prima volta che salgo qui e ho l’impressione di trovarmi in un albergo a cinque stelle: moquette spessa e chiara, mobili nuovi di zecca, immacolati e all’ultima moda. Sembra quasi che sia tutto fermo ad aspettare l’arrivo di una qualche personalità – un divo di Hollywood o forse una star musicale. Alla fine trovo una coperta, diversa da tutte quelle che ho posseduto in vita mia. Puro e morbido cashmere color crema. Scendo di sotto e la stendo sopra a Jo e poi, in punta di piedi, filo via.
Il giorno dopo so che probabilmente non avrà voglia di vedermi. Aspetto le nove, giusto per darle il tempo di smaltire la sbornia, e poi mi presento a casa sua, suono il campanello diverse volte. All’ennesimo squillo apro lo sportello della posta e chiamo: «Jo? Non ho intenzione di fermarmi. Voglio solo sapere se stai bene».
Suono il campanello diverse altre volte e rimango in piedi lì fuori per un’altra decina di minuti, e alla fine mi lascia entrare.
Mi chiudo subito la porta alle spalle. «Come ti senti, Jo? Stai bene?».
Scuote la testa. «No, penso proprio di no».
Ha un aspetto orribile. La prendo per mano e la porto in salotto, la costringo a sedersi sul divano, a quanto pare si è appena alzata. Solo ora noto i pezzi di stoffa verde, strappati e lacerati sul tappeto.
Il suo vestito da favola.
«Oh Jo…».
Si copre il viso con le mani. «Mi sento una scema. Davvero una scema».
«Non sei una scema, Jo. Non hai fatto niente di sbagliato».
Cerca le parole giuste o, forse, solo il coraggio di parlare.
«Neal non la pensa così», dice in un sussurro.
Non posso credere che si sia ridotta così per colpa sua. Di nuovo. «Cos’è successo, cara?»
«Ha detto che sono… brutta», borbotta. «Che sono… vecchia. Imbarazzante…». Devo sforzarmi per comprendere le parole.
Poi torna improvvisamente in sé, raddrizza la schiena e dice: «Non voleva che andassi a Londra con lui perché doveva incontrare un’altra, Kate. Ha un’amante».
«Non può essere». È assurdo. Questa donna è molto più instabile di quanto sospettassi. Voglio dire, anche con tutti i loro alti e bassi, Neal non può avere un’amante. «Di sicuro ti sbagli, Jo». Scuoto la testa. «Forse hai frainteso».
«Oh Kate», dice guardandomi con occhi tristi. «Pensavo che avessi capito. Non dirmi che anche tu sei così».
«Così come?». Non ho idea di cosa stia parlando.
«Non sopportate l’idea che io e Neal non siamo una coppia perfetta e devota. Sarebbe troppo difficile, troppo ingiusto, no? Dopo aver perso Rosanna, ci perdiamo anche l’un l’altra…».
Rimango senza parole. In realtà era proprio quello che ho pensato – certo che l’ho fatto, lo farebbe chiunque. Mi sono detta che almeno potevano contare l’uno sull’altra, che avrebbero trovato un minimo di conforto affrontando un tale dolore insieme. Che farlo da soli sarebbe stato insopportabile.
«Volete soltanto che tutto sia perfetto. Come lo siete voi», dice, guardando fuori verso il giardino.
Ma stavolta si sbaglia. «Credimi, Jo. Io sono tutto tranne che perfetta. Curo i giardini, che crescono ed evolvono con tutte le imperfezioni che li rendono bellissimi. E poi, il paradiso di una persona può essere un inferno per un’altra. È diverso per ciascuno. Penso soltanto che, be’, tu e Neal, dopo tutto quello che avete passato… di sicuro anche lui sarà convinto che sia meglio stare insieme che divisi, no?»
«Tu non capisci». Stringe i pugni e si alza in piedi. Quando parla la sua voce è aspra: «Nessuno può capire, Kate. Non è la prima volta. Lui è fatto così e io devo conviverci – perché non posso lasciarlo».
Passo gran parte del weekend a tirarla su di morale, ancora non so quali cose siano vere e quali pure elucubrazioni di una psiche chiaramente instabile. Ma più scavo a fondo, e più mi rendo conto che non riuscirò mai a capire la vita di Jo.
Angus ha qualche sospetto. «Sta’ attenta, Kate. So che sei preoccupata per lei, ma non potrai mai comprendere a pieno il suo mondo. E Delphine dov’era mentre accadeva tutto questo? Qualcuno ci pensa a lei?»
«Delphine sta bene. È da un’amica per il fine settimana. Il che è davvero una fortuna», gli dico. «Neal è proprio un bastardo. Se sapessi la metà di…».
«E allora perché non lo lascia? Non devono mica stare insieme per forza. Jo non è stupida, Kate. Nessuno gli starebbe intorno se fosse davvero così mostruoso».
«Lo so», rispondo sfinita. Angus ha ragione. «Ma non credi che, dopo aver perso una figlia, in un certo senso le regole cambino? Non sei proprio un tipo empatico, Angus. Dio, se fosse capitato a noi… se avessimo perso Grace…».
Rimane in silenzio, poi mi tira a sé e mi abbraccia forte, posando il mento sulla mia testa.
«Presto sarà a casa».
«Due settimane».
Due settimane… Manca poco alle vacanze di Natale, con tutte le decorazioni da allestire, i regali da incartare insieme, i piatti da cucinare e gli inevitabili acquisti dell’ultimo secondo – puoi organizzarti quanto vuoi, tanto si dimentica sempre qualcuno.
All’improvviso, Grace mi manca come l’aria che respiro.
È domenica mattina e sono da Jo. Sto riordinando la cucina mentre lei si concede un bagno al piano di sopra, quando inaspettatamente torna a casa Neal.
«Kate?», sembra sorpreso di trovarmi qui. «Che ci fai da queste parti? Jo sta bene?»
«Non proprio», rispondo con una certezza freddezza. «Ma non c’è da stupirsi, sai. Ci teneva davvero parecchio a questo weekend».
Neal appoggia il borsone a terra e rimane immobile, confuso. «Aspetta un attimo… Che intendi, esattamente?».
Lo guardo fisso in faccia, senza parole. Stupita da quella sua impassibilità.
E poi annuisce. «Oh, certo», bisbiglia a mezza voce. «Ti ha detto che è stata colpa mia».
Il mio sguardo si fa severo. Diverbi del genere non sono nel mio stile, ma dopo il fine settimana che ha passato Jo, non posso starmene qui senza dire niente.
«Mi ha detto solo quello che tu hai detto a lei, Neal».
Va verso la finestra e guarda fuori, di spalle, non riesco a vedere il suo volto. Quando finalmente si gira, è evidente quanto sia stanco anche lui di tutta questa storia.
«Quindi non ti ha detto tutto? Non ti ha detto che venerdì sera, prima che partissimo, era ubriaca marcia? Tanto da non riuscire a camminare, figuriamoci andare in un albergo e affrontare una cena di gala? Francamente, Kate, non poteva andare da nessuna parte in quello stato».
«Le hai detto che ormai è brutta. Che ti imbarazza. Santo cielo, Neal. È così fragile…».
Si volta e lentamente va a chiudere la porta del corridoio, voltandosi poi per guardarmi dritto in faccia. «È vero, le ho detto che era imbarazzante. E in quello stato lo era. Doveva essere una grande serata per me. Per noi. Un riconoscimento per tutto il lavoro svolto. E volevo che la mia bellissima moglie fosse al mio fianco. E lei che ha fatto? Si è ubriacata e ha rovinato tutto». Serra i pugni. «Sì, è incredibilmente fragile. Ma credimi, Kate…». Fa un respiro profondo. E quando rialza lo sguardo, tutta la rabbia è sparita.
«Io la amo. E farei qualunque cosa per aiutarla».
È così sincero. Non lascia spazio a nessun dubbio. Mi scuso ampiamente, borbottando qualcosa sul fatto che ci sono sempre due versioni di ogni storia e che sono veramente preoccupata per Jo, per poi filare via, mortificata. Ma quella conversazione continua ad assillarmi anche diversi giorni dopo, e pongo la questione prima ad Angus e poi a Laura.
«Se hai due versioni contrastanti ma ugualmente convincenti di una stessa storia, sostenute da due persone che si amano, come fai a capire qual è quella vera?»
«Sesto senso», risponde Angus, continuando a sfogliare il suo giornale.
«La verità è sempre nel mezzo», sostiene Laura.
«Probabilmente è una questione piuttosto semplice», continua Angus.
«Il punto è che quella che per una persona è la verità, potrebbe essere una bugia per l’altra. Esistono piccoli indizi che ci influenzano ma spesso non ce ne rendiamo nemmeno conto», prosegue Laura. «Il linguaggio del corpo, per esempio. Il contatto visivo. Devi essere un bravo attore per guardare negli occhi una persona mentre menti spudoratamente».
«Lo facciamo tutti», sostiene Angus. «Le cose che diciamo non sono mai la verità al cento percento. È nella natura umana».
«Ovviamente, bisogna tener conto di un altro fattore», dice Laura. «Il motivo della menzogna. A meno che uno non sia proprio un bugiardo patologico, ci sono sempre delle ragioni per cui si distorce la realtà».