Capitolo sei

Il Black Horse è uno strano mix tra un intimo pub di campagna e una specie di bettola. Gli interni in pietra grigia dall’aria antiquata sembrano usciti da una guida turistica dell’Inghilterra. Riesco a immaginare i turisti americani che scattano fotografie alle robuste travi in legno del soffitto e al placido camino, salvo poi rimanere sconcertati dalla birra calda e schiumosa e dall’assenza di ghiaccio nelle altre bevande. Non dispone di un menu con cocktail raffinati o cibo sofisticato – solo fish and chips, pasticcio di manzo con patatine fritte e piselli e pollo arrosto con lo stesso contorno.

Chi non apprezza le patatine fritte o i piselli è fottuto.

I tavoli e il bancone sono piuttosto appiccicosi – non proprio collosi, ma abbastanza affinché il sottobicchiere vi rimanga fermamente ancorato come se fosse stato bloccato con il nastro adesivo.

Il fatto che ci sia una stanza a uso bed and breakfast al piano superiore è tipicamente inglese – dopotutto, chi non vorrebbe prendere in affitto una camera con un pub proprio alla fine delle scale?

Peter, il padrone, sembra abbastanza amichevole. Ha più di trentacinque anni, si direbbe single, e gestisce il locale da solo. Quando lo oltrepasso sul pianerottolo diretta al piano di sotto, sta tenendo in equilibrio su una spalla uno scatolone di patatine aromatizzate al bacon. Mi chiede se va tutto bene di sopra, gli rispondo di sì.

La serata è appena all’inizio, il locale è tranquillo. Due tizi infilano una monetina dopo l’altra nel videopoker piazzato in un angolo; al bancone si trovano un paio di avventori più anziani: il loro sguardo vitreo e il fatto che non stiano conversando mi inducono a pensare che trascorrano molto tempo qui.

Peter è ancora impegnato a trasportare scatoloni da una parte all’altra del locale, quindi è un altro ragazzo a servirmi. È più grande, e talmente strabico che non riesco a capire dove stia guardando. L’aspetto già abbastanza particolare è reso ancora più inusuale dal viso, che appare rasato solo per metà: una parte è butterata e sfregiata da un’eruzione cutanea violacea e brufolosa, l’altra appare scurita da una lieve barba incolta.

È tutto molto strano.

Mi chiede cosa desideri ma impiego qualche istante a capire che si sta rivolgendo a me. Ordino una Guinness e aspetto seduta su uno sgabello, evitando di appoggiare mani e braccia sulla superficie appiccicosa del bancone.

Chiaramente è un giudizio personale, ma credo che la Guinness sia una delle più grandi invenzioni dell’uomo. Una pietanza arrosto in un bicchiere: non c’è bisogno di mangiare, prima di berla, perché risolve da sola i problemi di appetito.

Il barman comincia a spillare la mia media, poi la appoggia per lasciare riposare la birra. Continua a guardare me – o intorno a me; è difficile dirlo – con un’aria sempre più indisponente. Quando mi serve la Guinness, prendo il bicchiere e vado ad accomodarmi in uno dei divanetti nell’angolo, per poi nascondermi dietro il cellulare. La funzione migliore di uno smartphone non è la possibilità di chiamare o inviare messaggi, e neanche la connessione Internet: è la barriera che può rappresentare. Fissare uno schermo è un chiaro segnale ai potenziali disturbatori: lasciatemi in pace!

O, perlomeno, così dovrebbe essere.

Sono impegnata a cercare il nome “Ashley Pitman” su Google quando un’ombra oscura il tavolo: un uomo corpulento con una pinta di Guinness in mano. Sembra che abbia appena smontato dal lavoro – ha le unghie sporche e un baffo di gesso, cemento o qualcosa di simile su una guancia. Le maniche arrotolate della camicia mettono in mostra due braccia robuste; i capelli biondi e arruffati ricordano un nido. Uno stile apparentemente sciatto, ma in realtà studiato fin nei minimi dettagli.

«Tutto bene?», dice, ma non mi sta chiedendo se sto bene. Ogni tanto mi domando cosa pensino gli stranieri di alcune espressioni usate nel nostro Paese che possono rivestire i più diversi significati: “Tutto a posto?”, per esempio, può voler dire qualsiasi cosa, da un semplice saluto fino ad “Alzati dal mio posto prima che ti stacchi la testa”. L’omone, in realtà, vuole sapere chi io sia.

«Ciao», rispondo, sorridendo senza convinzione. Mi fa piacere staccare per un po’, come se avessi avuto una lunga giornata di lavoro, anche se non è così.

«Non ti ho mai vista qui prima d’ora».

«Eh, no».

Ha un’aria impacciata. Accenna con il capo al divanetto di fronte a me.

«Ti dispiace se mi siedo?».

Guardo oltre le sue spalle tutti i tavoli e le sedie ancora liberi.

«Sono Rhys», aggiunge, infilandosi nel posto davanti a me senza aspettare una risposta. Indica il mio bicchiere. «Non c’è niente come questa per finire la giornata».

Devo riconoscere che questo tizio è molto tenace. Appoggio il telefono e alzo lo sguardo per inquadrarlo come si deve. Ha qualche anno più di me, ma non supera i venticinque.

«Come ti chiami?».

Sogghigno: «Non vuoi saperlo davvero».

«Ah, è così? Una sconosciuta misteriosa entra in un bar…».

Sorride, ed è difficile rimanere impassibili. Il suo entusiasmo è contagioso.

«Chi è il ragazzo dietro al bancone?», chiedo.

Rhys si gira a guardare e il tipo che mi ha servito la Guinness distoglie lo sguardo – ci stava fissando.

«È Chris», mi informa Rhys. «Lui, be’… ecco… ha dei problemi. Un tempo trascorreva tutto il giorno al parco».

Rhys controlla di nuovo alle sue spalle. Il barista strabico ci sta ancora guardando, ma con un po’ più di prudenza: asciuga i bicchieri puliti con uno strofinaccio e di quando in quando lancia un’occhiata verso di noi.

Quando si rigira, Rhys beve un sorso di birra e un baffo di schiuma gli imperla il labbro superiore. «Chris ti sta dando fastidio?»

«No, in realtà no. Quando ieri ho affittato la stanza mi ha guardata salire le scale e ho pensato che fosse un po’ strano. Pete sembra abbastanza gentile».

«Pete è un bravo ragazzo. Manda avanti questo posto da anni. Se Chris dovesse infastidirti, diglielo».

Prendo anche io una sorsata, poi indico a Rhys che ha qualcosa sul labbro. Lui si pulisce con il dorso della mano, poi si riappoggia allo schienale del divanetto.

«Quindi… stai di sopra?»

«Esatto».

«C’è qualche motivo particolare? Non sei in vacanza, vero?»

«E se lo fossi?».

Alza le spalle. «È solo che… be’, ci sono posti migliori di questo. Molti negozi continuano a fare solo mezza giornata il giovedì, altri rimangono chiusi del tutto. Non mi è sembrato strano finché non ho iniziato le superiori e ho capito che succede solo in questo paese. È uno strano ritorno all’applicazione di una legge di inizio Novecento – ecco quanto siamo antiquati…».

«Ma tu sei ancora qui».

Sorride e beve un altro sorso. «Vero, ma io ci sono nato. Lavoro al cantiere, ma non sceglierei mai di trascorrere le ferie qui».

«Non sono in ferie».

Nell’angolo, i due uomini hanno finalmente abbandonato il videopoker. Uno dei due lo colpisce con una mano – deve aver perso –, poi si dirigono al bancone. Il pub si è popolato senza che me ne accorgessi. Una famiglia con figli è seduta al tavolo davanti al camino spento e consulta il menu. Spero che a loro piacciano le patate e i piselli.

«Hai intenzione di dirmi il tuo nome?».

Mi giro verso Rhys, le cui sopracciglia sono inarcate, in attesa. Non sono venuta per fare nuove amicizie, eppure… c’è qualcosa di piacevole e di normale in queste attenzioni. La giusta attenzione.

Chris ora sta servendo la coppia del videopoker ma non smette di guardarmi di tanto in tanto.

«Sei sicuro di volerlo sapere?»

«Non potrei chiedere altro».

«Non sono certa che tu sia in grado di reggere la notizia».

Ride. «Mettimi alla prova».

«Quanti anni hai?»

«Ventiquattro».

«E hai vissuto sempre qui?»

«Esatto».

«Sto per lasciarti a bocca aperta».

Rhys stringe le labbra ed è chiaro che non si aspetta minimamente che ciò succeda davvero. Ma il gioco lo sta divertendo.

«Spara», mi dice.

«Sono Olivia Adams».

Rhys mi guarda pensieroso. Posso quasi vedere gli ingranaggi che si attivano e i ricordi che si ricompongono. Poi appare tutto nei suoi occhi, e lui sa esattamente cosa significhi.

«Tu sei Olivia Adams?»

«Ti ho detto che non saresti stato in grado di reggere la notizia».

La sua pinta è a mezz’aria tra il tavolo e la sua bocca, bloccata così da alcuni secondi. Finalmente porta il bicchiere alle labbra ma non beve, poi lo riappoggia sul tavolo. Infine si volta, si sporge oltre lo schienale del divanetto e chiama qualcuno che non riesco a vedere.

Il fatto che possa aver attirato l’attenzione di qualcuno mi getta nel panico, ma, poco dopo, al nostro tavolo si avvicina la cameriera del bar. Indossa una minigonna rossa e una maglietta bianca aderente. I capelli rossi le arrivano alle spalle. Ci scruta entrambi, poi si concentra su Rhys.

«Cosa vuoi?», chiede.

«Lei è Nattie», dice lui, prima di indicarmi. «E lei, invece, non lo indovinerai mai».

La ragazza si gira a guardarmi, e le sue labbra formano una O. Non sembra molto interessata. «Eri al bar, prima».

«Esatto».

«Hai abbandonato il tuo tè».

«Mi dispiace».

Nattie scatta di nuovo verso Rhys. «Allora?».

Lui sogghigna. «Be’, il nome del bar in cui lavori è ispirato a lei…».

Nattie si rigira lentamente verso di me, gli occhi sgranati. «Non ci posso credere…».