2012: Lily, 15

«Armitage?».

Ricordo di essere sempre stata la prima sul registro di classe. Una volta speravo che arrivasse qualcuno chiamato “Aardvark” a cambiare le cose.

«Sì, prof».

«Banner?»

«Sì, prof».

L’insegnante continua l’appello, mentre la litania dei «sì, prof» in risposta continua incessante.

Quando arriva a Nurse, Zoe, seduta accanto a me, bofonchia il suo «sì, prof», e rimaniamo sedute in silenzio finché anche Young non risponde affermativamente. Oggi la classe è al completo… ma non per molto.

Il nostro coordinatore di classe ci informa di una simulazione d’esame e del divieto di accedere al campo sportivo. La ragione mi sfugge. Zoe è impegnata a scarabocchiare sul retro del suo quaderno cuori con il nome JOE all’interno. È anche molto brava a disegnare gatti, a dire la verità, sebbene non ne possegga neanche uno. Mi ha persino confessato che preferisce i cani ma, per qualche motivo, ha un talento particolare nel ritrarre felini. I suoi libri sono tappezzati di innumerevoli disegni a biro di cuori e gatti – un mix curioso per chiunque non la conosca.

Finalmente suona la campanella, mettendo a tacere l’insegnante; tutta la classe prende gli zaini, impaziente di uscire. Io e Zoe ci incamminiamo fuori, trascinandoci insieme all’orda di zombi. La scuola comprende una dozzina di edifici, ma non ci sono percorsi al coperto per spostarsi da uno all’altro. Ciò si traduce in corse disperate nei giorni di pioggia, ma anche angoli ciechi, invisibili dalle finestre delle aule.

Io e Zoe aspettiamo il nostro momento, rallentando e senza bisogno di parlare. L’abbiamo fatto talmente tante volte che ormai ci viene naturale. Non appena non c’è più nessuno dietro di noi, ci dirigiamo con calma verso la siepe al lato del sentiero e ci facciamo strada. Basta una manciata di secondi ed è fatta – siamo fuori dal perimetro.

Scavalchiamo con un salto una macchia d’erba viscida e ci troviamo subito su una stradina dietro a una fila di case. Se ci fosse qualcuno alle finestre del piano superiore potrebbe di sicuro vederci, ma, come sempre, abbiamo via libera. Ci schiacciamo contro la staccionata, sfruttandone l’altezza per ripararci dalla vista, quindi Zoe si toglie la cravatta e sbottona la camicia. Per un attimo rimane con addosso solo il reggiseno, ma estrae prontamente una T-shirt dallo zaino. Sostituisce le calze e la gonna con un paio di jeans, dopodiché è il mio turno. Indosso anche io dei jeans e una felpa e ci incamminiamo verso le altre case.

Forse avere uno zaino sulle spalle potrebbe dare nell’occhio, ma senza l’uniforme il fatto che abbiamo bigiato non appare così ovvio. L’ultima volta che siamo uscite di soppiatto ci è passata accanto una volante della polizia. Abbiamo continuato a passeggiare come se nulla fosse, e l’auto non solo non si è fermata, ma non ha nemmeno rallentato.

Non abbiamo di queste preoccupazioni, stavolta, e prima di accorgercene siamo arrivate al parco. Joe ha la nostra età, ma frequenta un’altra scuola, qualche chilometro più distante. Sta già aspettando sulle altalene mentre ci avviciniamo: ondeggia dolcemente avanti e indietro. Ha ancora addosso l’uniforme, ma senza la cravatta – anche se pantaloni scuri e camicia bianca, per lui, potrebbero essere abbigliamento da ufficio. Ma non sembra interessato a tali dettagli.

«Dove siete state?», ci urla, quando siamo più vicine. Zoe si getta su di lui, spingendolo giù dall’altalena sul pavimento, poi gli si siede sul petto. Si china per baciarlo velocemente sulle labbra e si rialza, divincolandosi e ridacchiando.

C’è anche un ragazzo seduto sulla giostrina. Ha la pelle scura come Joe, e i capelli raccolti sulla sommità del capo. È più robusto e muscoloso ma, appena mi avvicino, comprendo che sono fratelli. Hanno le stesse labbra sporgenti e lo stesso naso.

«Ma tu guarda…», dice, indicando Joe e Zoe. «Come ti chiami?».

Mi siedo su un altro seggiolino della giostra e lascio cadere a terra il mio zaino. «Lily».

Ripete il mio nome, lo fa suonare più ruvido di quanto io sia mai riuscita.

«Sono Lincoln», dice, annuendo e strizzando un occhio allo stesso tempo.

«Vai a scuola con Joe?».

Scoppia a ridere. «Nah. Ho diciotto anni, non si vede? Non ne ho bisogno».

Lincoln infila una mano nella tasca del giubbotto e ne estrae una scatoletta di latta. Mi ci vuole un attimo per capire che sta rollando una sigaretta – in realtà, non è proprio così.

«Fumi?», mi domanda, tenendo la canna dritta davanti a me insieme a un accendino.

Zoe e Joe approfittano del momento per rialzarsi dopo essersi strusciati sul pavimento e vengono a sedersi sulla giostrina con noi. Zoe mi risparmia l’imbarazzo, prendendo la canna e accendendola in modo troppo disinvolto perché sia la sua prima volta. Fa un lungo tiro, trattiene il fumo nei polmoni e chiude gli occhi, prima di passarla. Io sono la prossima, ed è fuori discussione che io ammetta di non averlo mai fatto. Provo a copiare i movimenti di Zoe: mi brucia la gola, ma riesco a evitare di tossire.

Non che qualcuno stia prestando attenzione a me. Ora che è apparsa la canna, tutti sono più tranquilli. Fa un paio di giri tra noi, prima che Lincoln la finisca; poi schiaccia il mozzicone contro la struttura della giostra e lo lancia nell’erba.

Adesso Joe è sopra Zoe e spinge il suo corpo contro quello della ragazza, finché il fratello non intima loro di smetterla.

Zoe chiede che ore sono e quando Lincoln la informa che sono passate le dieci, ci dice che possiamo andare da lei perché la madre è sicuramente uscita per andare a lavorare. Girovaghiamo per strade laterali e vicoli che conoscono solo quelli del posto, aggiriamo un paio di complessi residenziali, finché non arriviamo al cancello sul resto di casa di Zoe. Lei apre ed entra per prima, chiamando sua madre. Quando ha la conferma che non ci sia nessuno, ci fa cenno di entrare con un sorriso malizioso.

Non facciamo in tempo a varcare la soglia, che lei e Joe spariscono al piano di sopra. Sentiamo chiudersi la porta della camera da letto, e poi un colpo sul pavimento.

Io e Lincoln ci ritroviamo da soli in cucina; lui apre il frigorifero. «Vuoi una birra?», mi chiede.

«No, grazie».

A casa mia si beve già abbastanza birra senza che inizi a farlo anche io.

Lui prende una bottiglia di Bud e la stappa con l’apribottiglie appeso all’anta della credenza. Si sente un altro colpo provenire dal piano di sopra, e delle risatine sommesse. Lincoln lo ignora; apre e chiude gli armadietti finché non trova una confezione multipla di patatine. Studia la selezione, mi domanda se desideri qualcosa, e quando gli dico che non mi va nulla sceglie un pacchetto al gusto sale e aceto.

Sono già stata in questa casa un paio di volte, e lo conduco nel soggiorno. Lincoln accende immediatamente il televisore, adagiandosi su una poltrona. Allunga le gambe sul poggiapiedi e inizia a fare zapping tra i canali.

Ha in bocca una manciata di patatine quando riprende a parlare. «Hai un ragazzo?»

«No».

«Sei una leccafighe?»

«Non so cosa sia».

Sono sul divano e lui si gira per strizzarmi l’occhio, prima di appoggiare il telecomando. «Che cosa vuoi fare?»

«Non lo so».

È la verità – non lo so davvero. Una parte di me vorrebbe prendere l’uniforme nello zaino e tornare a scuola.

«Quanti anni hai?»

«Quindici».

Si morde un labbro, valutando come continuare la conversazione, poi torna a fissare la TV. «L’hai mai fatto?».

Sono solo quattro parole. Una frase detta tanto per dire. Nessuna delle parole ha più di cinque lettere, eppure quella domanda ha un significato enorme. Scommetto che viene rivolta a tutti, prima o poi.

Rispondo senza aver ancora pensato alle conseguenze. È come un riflesso: «Certo». Indifferente e adulta, come se nulla fosse. Ovvio che l’ho fatto. Chi non l’ha fatto? Perché porsi il dubbio?

Il televisore rimanda le immagini di una specie di trasmissione per bambini – pupazzi fosforescenti su uno sfondo verde – e Lincoln non si premura neanche di cambiare canale, mentre abbandona di nuovo il telecomando. Fa qualche passo nella stanza e mi mette una mano sulla coscia.

«Lily», dice. «Mi piace».