Capitolo ventidue

Sono qui da meno di una settimana e ho già l’impressione di essermi abituata alle serate passate a bere con Nattie. Stavolta c’è anche Rhys, e ce ne stiamo spaparanzati sul solito divanetto del Black Horse. Anche le ordinazioni sono sempre le stesse: Guinness per me e Rhys, sidro per Nattie.

Nattie aveva il turno pomeridiano al bar, dopo il prelievo del tampone a casa di mia mamma, stamattina. Non mi ha chiesto di cosa ho parlato in cucina con Max, ma è interessata a sapere come sia andata con il papà nella nostra vecchia casa. Chiacchieriamo un po’, ma non c’è molto da raccontare. Mi domanda se sia affiorato qualche ricordo, però devo rispondere di no. Nattie afferma di non conoscere molto mio padre – il che non mi sorprende. Sembra proprio che lui abbia avuto una sola relazione importante per diverso tempo.

Il pub è più affollato che mai, quasi tutti i tavoli sono occupati e molte persone sono in piedi negli angoli. Il videopoker emette un profluvio di suoni, per non parlare del brusio delle voci.

Non è semplicemente paranoia: non c’è dubbio che io sia stata notata. La gente che passa per andare in bagno guarda in continuazione verso di noi. Altri ci fissano da dietro la loro pinta, o coperti dagli amici. Vedo persone che mormorano con i presenti e poi si girano nella nostra direzione, prima di voltarsi di nuovo velocemente. Stanno tutti cercando di guardarmi senza essere visti, ma è così palese che anche Nattie e Rhys se ne sono accorti.

«Abbiamo un’amica famosa», esclama lei, colpendo lui con il gomito.

«Avevi già portato alla ribalta il paese una volta», ribatte Rhys, «ci stai riuscendo di nuovo. Non ti scorderai degli amici, vero?».

Nattie cerca di fare scivolare un sottobicchiere sul tavolo verso di noi, ma si blocca a metà percorso. «Mi fai un autografo?», chiede.

Ridono, e nonostante io stia al gioco mi sembra che ci sia troppa confidenza. Non sono sicura di cosa mi aspettassi.

È il momento di cambiare discorso. «Cosa c’è da fare in paese?», domando.

Nattie e Rhys rispondono all’unisono: «Questo!».

«Stare al pub? E basta?»

«Qualche volta andiamo in città», aggiunge Nattie, «ma è una gran rottura. Non ci sono autobus, i taxi costano troppo, e se vuoi bere un po’ non puoi prendere la macchina. La maggior parte del tempo lo passiamo qui. Se siamo al verde andiamo al parco, ma a volte la polizia ci fa sloggiare anche se stiamo solo seduti a parlare. È come se avessimo ancora quattordici anni – ci sono un sacco di vecchi in giro e non hanno niente di meglio da fare che lamentarsi. Sembra di vivere in una casa di riposo».

«Non mi stai proprio invogliando a restare…».

Nattie ride e finisce il suo bicchiere. «È diverso», spiega. «Non male, ma neanche per forza bene – solo diverso. Stoneridge è composto perlopiù da famiglie. Le persone che nascono qui finiscono per vivere tutta la vita nella stessa strada».

«Hai presente le soap? Vivere qui è così certe volte. Si creano dispute veramente stupide. Famiglie che odiano altre famiglie per fatti avvenuti trent’anni prima. Nessuno si ricorda neanche più cosa fosse successo, ma sanno solo che devono odiarsi. C’erano due bambini a scuola con me che litigavano sempre, avevano sei o sette anni. Non avevano nulla l’uno contro l’altro, ma uno dei loro padri sosteneva che il genitore dell’altro gli avesse venduto una bicicletta sfasciata quando loro erano bambini. Era una questione morta e sepolta, ma non hanno mai smesso di discutere. Questa è Stoneridge, se lo chiedi a me. Sembra un luogo tranquillo e assopito finché non inizi veramente a viverci. Poi capisci il dramma costante».

«Hai vissuto a Londra», continua Nattie. «Com’è lì?».

Prendo tempo bevendo una lunga sorsata di birra. «Enorme», rispondo. «Sempre piena di gente. Sempre in movimento».

«Immagino che o la si odi o la si ami», commenta Nattie. «Se sei una persona di città, allora va bene. Qualche volta penso che potrebbe piacermi, ma quando vado a fare shopping in un posto un po’ più grande di qui, mi viene voglia di prendere a calci le persone perché camminano così lentamente. Ci dovrebbero essere delle corsie preferenziali. È come se tutti quelli che camminano piano fossero attratti dalle città. Posso farne a meno. Finirei per beccarmi una denuncia per omicidio».

«La faresti franca», ribatte Rhys. «Qualsiasi giuria lo prenderebbe come un motivo valido».

Ridiamo, poi lui raccoglie i bicchieri vuoti e si dirige al bancone. Avviso Nattie che vado in bagno; sono nel corridoio quando mi ricordo che quello nella mia stanza, di sopra, è molto meglio della toilette del pub. La scatola piena di ritagli di giornali e fotografie che mi ha dato la mamma è anch’essa di sopra, e una pausa in bagno è il momento perfetto per dare una rapida occhiata a ciò che è in cima alla pila. Sono attirata dalle informazioni.

Le scale scricchiolano un sacco, ogni gradino cigola mentre salgo. Infilo la chiave nella toppa, la faccio girare, e apro la porta con un movimento netto.

Appena entro nella stanza, mi impietrisco. L’istinto mi dice che qualcosa non va, ma i miei occhi impiegano qualche momento prima di individuare il problema.

Poi, alla fine, lo vedo.

Chris è accucciato vicino al letto, intento a rovistare nella scatola degli articoli e delle foto, inconsapevole del fatto che io sia lì.