Capitolo ventiquattro
«Sei caduta nella tazza?».
Nattie ride mentre torno a sedermi sul divanetto, e solo allora mi rendo conto di essermi del tutto dimenticata di fare ciò per cui mi ero allontanata dal pub: andare in bagno. Un’intera pinta di Guinness mi sta aspettando, ma Rhys e Nattie hanno già finito il terzo giro. Sono stata via per venti minuti buoni e, ora che ci penso, la mia vescica sembra un pallone gonfio quasi fino a scoppiare.
Bofonchio qualcosa riguardo a una telefonata che mi ha distratta e mi scuso, dicendo che devo alzarmi nuovamente. Penseranno che abbia qualche infezione del tratto urinario, ma ho davvero bisogno di andare in bagno.
Non passa molto prima che io sia davanti al lavandino nella toilette delle signore per lavarmi le mani, la vescica finalmente vuota. Tornare di sopra sarebbe stato troppo faticoso.
Ogni volta che mi guardo allo specchio, sento il bisogno di ripetere il mio nome. È una specie di riflesso: «Olivia Elizabeth Adams».
Mi fermo, comincio a fare smorfie con la bocca per vedere come modificano i lineamenti del mio viso.
«O-li-vi-a».
La mia faccia si abbina al mio nome, ma non riesco ancora a rispondere quando qualcun altro mi chiama Olivia. Sono così abituata a un nome diverso che questo non sembra appartenermi.
Inoltre, la ricrescita scura comincia a essere evidente, e mi chiedo se valga la pena ossigenare i capelli di nuovo. La mamma ha i capelli tinti e solo di recente mi sono accorta che tanti bambini si scuriscono col passare del tempo. Essere biondi a sei anni non implica necessariamente che i capelli saranno dello stesso colore a sedici.
«Olivia», ripeto. «O-li-vi-a».
Mi piace la O iniziale. Il suo suono sembra annunciare l’intera parola, come se “Livia” fosse il vero nome. “Oh, Livia…”.
La porta si spalanca e io balzo all’indietro. È una donna sulla cinquantina e barcolla a piccoli passi, come il personaggio cattivo di un cartone animato che prova a intrufolarsi da qualche parte. Si dirige verso i gabinetti ma poi si ferma e rimane senza parole quando si accorge di me.
«Oh», esclama, e mi aspetto che continui con “Livia”. Invece, mormora qualcosa sottovoce e aggiunge: «Sei tu!».
Accenno un sorriso mentre mi asciugo le mani con una salvietta di carta. Ho letto spesso di celebrità avvicinate dai fan nei bagni – uomini che chiedono foto ai calciatori negli orinatoi; donne che domandano alle attrici informazioni sul loro stato sentimentale attraverso la parete divisoria di gabinetti adiacenti. È un po’ strano, non ho mai pensato che un giorno qualcuno avrebbe riconosciuto me.
«Olivia Adams», aggiunge. «Tu sei Olivia Adams».
«Esatto».
«Io sono Pamela».
Sta lì in piedi e mi fissa, come se quel nome dovesse risultarmi familiare. Butto via la salvietta di carta nel cestino e sono pronta ad andarmene, ma lei continua a parlare.
«Ero parte della squadra di ricerca», racconta. «Insieme a tutti gli abitanti della mia strada. Alcuni di noi sono rimasti fuori tutta la notte di sabato, poi abbiamo dormito per un paio d’ore e ricominciato. Me lo ricordo come se fosse ieri».
So che dovrei lasciar perdere, ma è difficile ignorare la possibilità di ottenere nuove informazioni quando sono disponibili con tanta facilità. Un conto sono gli articoli conservati nella scatola nella mia stanza, scritti da osservatori esterni, non da persone direttamente coinvolte. Ma questo è proprio ciò di cui Max e Ashley erano preoccupati: frammenti e pezzi di una storia che possono essere usati per dare vita a una narrazione fittizia.
La gente ama raccontare le proprie storie – che male c’è? Tutti sono gli eroi della propria fiaba.
Pamela si appoggia al telaio della porta del gabinetto.
«Sei tornata per rimanere?», domanda.
«Me lo chiedono tutti, ma non so ancora».
«Dove sei stata?»
«Preferisco non parlarne. È una storia lunga».
Mi fissa, nel tentativo di carpirmi qualche informazione, ma poi si rilassa e piega un po’ le ginocchia.
«Ho una figlia», continua. «Era un anno avanti a te a scuola. Joanie. Te la ricordi? È veramente un tipo».
Scuoto la testa. «Ho ancora molti buchi nella memoria».
«Credo che tu avessi solo cinque… o forse sei anni».
Smette di parlare e rimaniamo in silenzio per un paio di secondi. Non confermo né smentisco nulla. È un po’ strano. Una conversazione del genere sarebbe difficile in qualsiasi bagno pubblico, ma quello del Black Horse puzza come se ci fosse nascosto un cadavere. C’è la muffa negli angoli del soffitto e, nonostante fuori faccia caldo, la temperatura è bassa. Ha un suo microclima, diciamo.
Per un momento, mi domando se la conversazione sia terminata. Pamela apre la porta di uno dei gabinetti, ma poi si volta di nuovo verso di me. «Hanno arrestato mio marito. Lo sapevi?»
«Con quale accusa?»
«Pensavano che fosse stato lui a prenderti».
Dopo un po’, capisco a cosa si stia riferendo. Non ero mai riuscita a dare un senso a una frase dell’articolo originale: “un uomo di ventisette anni sta offrendo il proprio aiuto agli inquirenti…”.
Lo sconosciuto misterioso era stato menzionato solo nei resoconti dei primi due giorni, poi era sparito dalle notizie. Non ho mai visto fare il suo nome, e nessun altro articolo spiegava in che modo stesse aiutando la polizia.
«Non lo sapevo…».
Pamela annuisce lentamente. «Non sono infastidita, niente del genere. Non volevo metterti con le spalle al muro. Non ho intenzione di urlare e litigare, ma vedendoti qui ho pensato che dovessi saperlo».
«Ti dispiace se ti chiedo cosa è successo? Nessuno mi ha mai parlato di questa storia».
Capisco in quell’istante che è pentita di aver iniziato la conversazione. Se tutti sono gli eroi della propria fiaba, qualcuno deve essere per forza il cattivo – forse, nel suo caso, sono io.
«Non hanno preso solo lui», racconta Pamela. «La polizia ha parlato con un po’ di persone, al tempo. Non credo che siano state tutte segnalate, ma mio marito è stato il primo, quindi l’hanno saputo tutti».
«Come si chiama?»
«Mark. La sua macchina era parcheggiata di fronte a casa vostra». Si ferma. «La vostra vecchia casa. Mark mi aveva detto di essere al lavoro, e lì sono cominciati tutti i problemi. Aveva lasciato lì l’auto per andare a vedere la partita. Non appena si è saputo cosa ti era successo, la polizia ha cominciato a controllare chiunque si trovasse nell’area. La sua era una macchina sospetta perché non avrebbe dovuto trovarsi lì. Lui non voleva ammettere con gli agenti di essere stato al pub, per evitare che io lo scoprissi, quindi ha raccontato di essere andato al lavoro. Nel frattempo, io pensavo che lui fosse a lavorare. Stava cercando di sfuggire a un litigio con me, e si è ritrovato arrestato con l’accusa di rapimento».
Ci guardiamo l’un l’altra per un istante e so che vorrebbe che io mi scusassi. Ma non posso… almeno, non ancora. «Non sono sicura di aver capito».
«Abbiamo entrambi detto alla polizia che lui era a lavorare, ma dal suo ufficio non hanno confermato. Se solo avesse raccontato di essere andato a sbronzarsi, qualcuno al pub avrebbe testimoniato in sua difesa. Ma quando si è deciso a farlo, la notizia del suo arresto si era già sparsa per il paese. Si è creata questa situazione ridicola per cui una mezza dozzina di suoi amici sapeva benissimo che lui era al pub quando sei scomparsa, eppure, tutti hanno pensato che lui c’entrasse qualcosa. Il fango, poi, non va più via».
È una delle cose che ho sentito dire più volte su questa città.
«E tutto questo è accaduto perché la sua macchina era parcheggiata di fronte alla nostra vecchia casa?».
Pamela scoppia in una risata beffarda. «Esatto. Se avesse posteggiato qualche via più avanti, o se avesse preso l’autobus, tutto ciò non sarebbe successo. Eppure, è stato così. Chiunque aveva la paranoia che il proprio figlio sarebbe stato la vittima successiva».
Improvvisamente mi sento esposta, non voglio sentire altro. Ho la brutta sensazione di sapere quale sia l’esito.
«Non poteva più uscire di casa», aggiunge Pamela. «Nessuno di noi poteva. Una volta, al supermercato, una donna ha trascinato via la figlia da me. Non ha detto una parola, ha solo afferrato il cappuccio della sua felpa e l’ha allontanata, come se fossi pronta a prenderla».
Sospira.
«Io e Mark ci siamo separati e lui si è trasferito altrove. Le ultime notizie a riguardo lo davano in Galles. Si è messo con una tipa e sono andati chissà dove. Non posso biasimarlo».
Forse dovrei scusarmi. Ho questa sensazione, ma potrebbe essere solo senso di colpa britannico. Se c’è una cosa, come popolo, che sappiamo fare molto bene, è chiedere scusa. E stare in coda. E parlare del meteo.
Prima che io possa dire qualcosa, Pamela si dirige verso la porta. Esce, i suoi passi riecheggiano dal corridoio.
Per un momento rimango immobile, incredula dell’accaduto. Non mi aspettavo che questo paese dimenticasse ciò che è successo tredici anni fa, ma non pensavo che il retaggio di un evento potesse protrarsi così a lungo. La mia scomparsa ha cambiato il corso di così tante vite. Quel sabato pomeriggio è stato come una pietra lanciata in uno stagno. I miei genitori erano le increspature più immediate, profonde e mosse, ma l’onda ha continuato a propagarsi verso l’esterno.
Mi giro di fronte allo specchio, mi liscio i capelli e fisso il riflesso dei miei occhi.
«Olivia Elizabeth Adams».
Non sembra neanche più reale.