2011: Lily, 14

Tre ragazze mi passano accanto e sono come gemelle: gambe lunghe e abbronzate che incedono decise sotto la gonna, la cui lunghezza sicuramente viola le regole dell’uniforme scolastica. È un codice che, a quanto pare, viene fatto rispettare solo a discrezione degli insegnanti. Gonna troppo corta: ignorata. Ragazzo con i dread: spedito a casa. Ragazza con orecchini pendenti: rimandata dai genitori. Ragazzo con i calzini bianchi e non neri: redarguito.

Dipende tutto da chi sei, non da come ti comporti. Queste tre ragazze sono tra le migliori in tutte le materie e prendono ottimi voti. Alzano il posizionamento dell’istituto nella tabella del rendimento medio, quindi a nessuno importa se la loro gonna è troppo corta. Be’… interessa all’insegnante di religione – ma facciamo finta che nessuno abbia notato gli sguardi che lancia loro di soppiatto, quando sono sedute in classe ai primi banchi.

Gli studenti rimandati a casa per il mancato rispetto delle regole sull’uniforme sono quelli nelle fasce più basse, con i voti peggiori. È un sistema fortemente corrotto, e lo sanno tutti.

Ma non è questo il motivo per cui rivolgo alle gemelle la mia migliore espressione da “cosa-cazzo-avete-da-guardare?”, mentre sogghignano in mia direzione. Nessuna di loro parla; si voltano all’unisono e continuano la marcia verso la loro classe.

Il corridoio è pieno di studenti che si affrettano nelle rispettive aule. Il chiacchiericcio risuona ovunque, ma io sono lontana dal centro dell’attenzione. Mi limito a stare seduta su una sedia fuori dalla porta, in attesa di conoscere il mio destino.

Stavolta, potrebbe andare molto male.

Dopo un minuto o due, il brusio si acquieta, trasformandosi in un silenzio quasi totale. Le sedie strisciano sul pavimento, le porte delle classi si chiudono e sopraggiunge un senso di pace che permarrà fino alla campanella dell’ora successiva.

Continuo a fare anticamera.

Magari è una tattica: mi lasciano in sospeso finché non perdo la pazienza. Quando finalmente potrò a parlare, sarò così frustrata dall’attesa che non riuscirò a trattenermi.

Sul muro di fronte a me, un orologio ticchetta senza sosta. Tic, tac, tic, tac. Ogni scatto pare più forte del precedente. Come può qualcuno sano di mente aver ideato un tale oggetto? È tanto difficile costruire un orologio che segni i secondi senza fare rumore?

Deve essere un altro strumento per sfinire gli studenti. La vergogna di essere visti da tutti coloro che passano tra una lezione e l’altra, la lunga attesa per rimuginare sulle proprie azioni e il ticchettio del maledetto orologio.

La porta a fianco a me si apre di scatto, salto in piedi d’istinto. La preside Vincent si staglia imponente, le braccia dietro la schiena e il mento alto.

«Signorina Armitage», chiama, indicando il suo ufficio mentre tiene la porta aperta.

Sulla parete alle spalle della sua scrivania è appesa una grande foto della scuola, che deve essere stata scattata da un aereo o da una mongolfiera. Si vede tutto il plesso e ogni volta che la guardo mi stupisco da quanto verde ci circondi.

Intorno alla foto campeggiano innumerevoli certificati a testimoniare vari successi scolastici e un’altra fotografia – questa volta di tutti gli studenti riuniti nel cortile alla fine dello scorso anno. Il fotografo era stato costretto a salire su una scala molto alta per immortalarci tutti insieme.

Mi siedo scomposta su una delle due sedie e la preside Vincent si accomoda nella sua poltrona in pelle, dietro la scrivania.

«Le ho detto di sedersi?», domanda secca.

«No, signora».

«Allora si alzi».

Ubbidisco, alzando visibilmente gli occhi al cielo.

«Per favore, si sieda», mi ordina, al che mi stravacco ancora di più, sbuffando, per sottolineare l’inutilità grottesca di quella messinscena.

La preside guarda il monitor del suo computer e batte qualcosa sulla tastiera, prima di rivolgersi a me. È seduta rigidamente, le dita intrecciate. Non sono mai in grado di darle un’età. Ha i capelli castani raccolti in uno chignon ma, nonostante l’apparenza giovanile, si esprime come una persona con grande esperienza.

«È vero?», domanda.

«Cosa?»

«Ha tirato i capelli di Jane Binny, le ha spinto la testa in uno dei water dei bagni femminili e ha tirato l’acqua?».

I suoi occhi castani, a essere onesti, sono molto più spaventosi di quanto potranno mai essere quelli di mio padre.

«È ciò che le ha raccontato?», rispondo.

«Non le ho chiesto questo».

«Jane è una stronza».

Silenzio.

So che non dovrei guardare nella sua direzione, ma sembra che la preside Vincent stia tirando dei fili invisibili con me. Non riesco a resistere e, quando mi giro di nuovo, i suoi occhi sono ancora su di me, in attesa della mia risposta.

«Sì», ammetto.

«E perché l’ha fatto?»

«Ha detto che mia madre si è suicidata per non essere più costretta ad aver a che fare con me».

La preside annuisce in modo appena percettibile. Senza giudicare, semplicemente prendendo atto delle mie parole.

«Temo che le regole scolastiche siano molto chiare, riguardo a questo comportamento», afferma. «Verrà sospesa. Non frequenterà le lezioni per tre giorni».

«E così, io non voglio venire a scuola e la sua punizione è concedermi ciò che desidero?». Rido, ma la preside Vincent non reagisce. Aspetta che io finisca.

«Io penso che lei voglia venire a scuola», commenta. «So che è molto più intelligente di quanto i suoi voti lascino pensare. So che le piacciono i libri, che capisce le cose molto più in fretta di quasi ogni altro suo coetaneo. Credo anche che sia molto brava a tenere nascosto tutto ciò ai suoi compagni di classe».

Lascia queste parole sospese a mezz’aria – e fanno più male di un ceffone.

«Questo dimostra quanto lei ne sappia…», cerco di schernirla, ma non prendo in giro nessuno, soprattutto me stessa.

«Anche la signorina Binny sarà punita», aggiunge. «Ho delle dichiarazioni rilasciate da tutti i presenti. So di preciso cosa è stato detto e da chi. Ma sarò chiara: la violenza non è tollerata in questa scuola, e non è certo una risposta appropriata alle parole che non gradisce. Questo vale tra queste mura, come nella vita reale. Mi sono spiegata?»

«È…».

«Mi sono spiegata?»

«Sì, preside».

Si calma un po’, la schiena non è più così rigida e le spalle si rilassano. Poi scrive qualcos’altro sul suo computer e fissa lo schermo per alcuni secondi.

«Sa che potrà prendere il diploma tra due anni?», dice senza guardarmi.

«È ciò che mi ripetono tutti».

«Non ha molto tempo. I suoi voti continuano a peggiorare. Dovrebbero almeno mantenersi costanti».

Alzo le spalle. Che senso ha negare la verità?

«Va tutto bene a casa?».

La preside Vincent mi pone quella domanda come se sapesse già la risposta – anche se non dovrebbe essere così. Ma c’è qualcosa nella sua voce, quel tono compiaciuto da “so-tutto-io”.

«Come crede che possa andare?», rispondo, strafottente. «Mia madre è morta tre anni fa, l’attività di mio padre è fallita, viviamo di sussidi e i miei compagni si incazzano perché a scuola ho i pasti gratis». Sto urlando. Mi sono alzata in piedi. Appena me ne accorgo, mi blocco e mi rimetto a sedere. Reggo lo sguardo della preside: per la prima volta, non ho intenzione di abbassare gli occhi.

Sono io a vincere.

Si appoggia allo schienale della sua poltrona e lancia nuovamente un’occhiata al monitor, prima di voltarsi ancora verso di me. «Non dica “incazzarsi”», commenta.

«Perché? È una parola. Incazzarsi-incazzarsi-incazzarsi-incazzarsi-incazzarsi».

Si ferma. «Ha finito?».

Mi tiro la cravatta, allentandone il nodo e lasciandomela cadere in grembo. Se sono sospesa, non devo più sottostare alle regole dell’uniforme.

«Se desidera parlare, sono qui», continua la preside.

Mi rialzo e afferro il mio zaino, me lo metto in spalla e mi muovo verso la porta.

«Lily», mi richiama.

Mi giro. «Che c’è?»

«Sono qui. Tutto ciò che vorrà dire, rimarrà rigorosamente tra noi».

Tiro su il cappuccio del mio giubbotto e faccio sparire la cravatta nella tasca. Faccio un altro passo verso la porta. Mi blocco. Penso.

Poi la mando a quel paese e me ne vado senza voltarmi.