Capitolo ventuno

La porta d’ingresso si spalanca e la signora Winter – Janet – è in piedi a guardarmi. Impiega un attimo a mettermi a fuoco, ma poi il suo viso si illumina.

«Olivia, mia cara, sei tornata! Ho sentito tanto parlare di te. Mi chiedevo se ti avrei mai rivista. Avresti dovuto dirmi chi eri, quando sei venuta a chiedere di tua madre».

La donna, che ora possiede la casa dei miei genitori, è emozionata, come se alla sua porta ci fosse una rock star. Considerando la sua età e il fatto che non sembri avere una vita sociale, rappresenta un’ulteriore testimonianza della velocità con cui si diffondono le notizie in questo posto. Si rivolge all’uomo accanto a me, che a quanto pare non riconosce.

«Come posso esservi d’aiuto?»

«Speravo che io e papà potessimo dare un’occhiata alla casa. Non voglio disturbarla: sto solo cercando di portare alla luce qualche ricordo».

La signora Winter si gira e fissa il papà con sguardo inebetito. Non può credere che sia veramente lui – non riesce facile neanche a me. La barba è scomparsa, insieme ai vecchi vestiti informi. Ora indossa indumenti della taglia giusta e appare ripulito e in sesto. Dubito che sia lo stesso dentro di lui. È sottopeso e denutrito – ma basta l’apparenza. Sembra almeno più giovane di dieci anni rispetto all’ultima volta in cui l’ho incontrato. E, ancora più importante, non puzza più. Ora si può stargli accanto senza avere i conati.

«Buon pomeriggio, Janet», dice educatamente.

«Daniel… sei molto… diverso».

La vecchina tiene aperta la porta e ci dice di fare come se fossimo a casa nostra. Non appena entriamo in cucina, il papà mi fa notare come sia tutto molto grazioso. Sta rispolverando il fascino che aveva da giovane, di cui mi aveva raccontato Georgie. La cucina è stata rimodernata: i rubinetti sono in acciaio inossidabile e il piano di lavoro è spesso e solido. Il papà mi descrive il mobilio di allora, il sottile linoleum irregolare del pavimento, gli elettrodomestici in plastica. Racconta della perdita del rubinetto che causò un piccolo allagamento durante la notte.

Il soggiorno è pieno di ninnoli, cianfrusaglie e fotografie incorniciate. Il papà mi indica dove erano posizionati il televisore e la coppia di divani sfondati che occupavano più di metà stanza. Non fa che complimentarsi per l’arredamento con la signora Winter, che si riempie di orgoglio.

Ci domanda se vogliamo vedere il giardino e solo allora il papà esita. Mentre mi dirigo fuori, lui rimane sul ciglio della porta. La signora Winter è tornata in casa, sparendo da qualche parte.

«Sei sicura?», mi chiede, ma io sono già sull’erba. È perfetta come un campo da calcio, l’intero giardino è curato con zelo. Aiuole di fiori su tutti i lati e un piccolo melo nell’angolo più lontano. Sul fondo è chiuso da un cancello di metallo più alto di me, connesso a una siepe ordinata che percorre tutto il perimetro del giardino.

«Dài!», lo esorto, offrendogli la mia mano. Il papà azzarda un passo in avanti e l’afferra. Ci dirigiamo insieme verso il prato, finché non raggiungiamo il tavolo e le sedie in metallo. Siamo circondati dal verde, in un luogo che potrebbe trovarsi dietro lo specchio di Alice. Un vero giardino inglese.

Oltrepassiamo il tavolo e le sedie e continuiamo fino al cancello, appoggiandoci alle sue sbarre per guardare la strada adiacente. È fatiscente e malridotta, bordata da siepi e staccionate su entrambi i lati – il fango che la ricopre non si asciugherà mai completamente.

«È la prima volta in tredici anni che mi trovo qui», ammette sottovoce. Trema, come se qualcuno stesse camminando sulla sua tomba. La sua sicurezza e il suo carisma sono svaniti.

Non aggiunge altro, ma mi tira verso il tavolo, dove ci sediamo. Deglutisce, sembra sul punto di piangere, ma riesce a mantenere il contegno.

«È stata la nostra prima casa», racconta. «Pensavamo di dover pagare il mutuo per sempre, ma mi pare che poi non sia andata così in realtà».

Goccioline di sudore gli imperlano la fronte. La giornata è afosa, e lui è calvo. Forse dovrebbe indossare un cappello. È strano preoccuparsi per lui.

«Come vi siete incontrati?», gli domando.

Si volta verso la casa e sbatte le palpebre, poi si riconcentra su di me.

«Durante una festa a casa di qualcuno», dice. «Avevo venti o ventun anni, qualcosa del genere. Sarah era un po’ più giovane. Mi ero trasferito qui in paese solo un paio di settimane prima e uno dei nostri vicini aveva un figlio più o meno della mia età. Non conoscevo nessuno a Stoneridge e pensavo che sarei rimasto seduto in un angolo da solo tutta la sera».

Le sue labbra assumono la forma di una O e si gratta il mento. «La maggior parte dei ricordi sbiadisce», continua, calmo. «A un certo punto non sai più con certezza se quello che ricordi sia successo davvero. Aver passato tanto tempo così… be’, hai capito… non mi ha di sicuro aiutato. Ma ricordo quando ho visto Sarah. È stato – ping! – come se qualcuno avesse acceso la luce. Non ci sono state presentazioni imbarazzanti. Ho detto “ciao”, lei ha risposto “ciao”, poi abbiamo passato l’intera serata a parlare di tutto e niente. Le piaceva sentire i racconti di luoghi lontani da qui».

«Me l’ha detto».

Sgrana gli occhi. «Davvero?»

«Credo che lo ricordi anche lei».

«Oh… non lo sapevo». Si ferma e guarda la casa. «Mi diceva spesso di sentirsi intrappolata qui, perché conosceva tutti, e tutti conoscevano lei. Facevamo lunghissime passeggiate, seguendo il fiume per chilometri, prima di tornare indietro. Non avevamo soldi per fare altro. Non passò molto prima che rimanesse incinta».

«Mi ha detto che inaspettata non significa non voluta».

Il papà mi guarda e annuisce lentamente. «Un ottimo modo per spiegarlo. Suona tremendo, come se fosse stato un enorme incidente ed eccoti lì – ma non è andata così. Eravamo giovani. Non abbiamo mai parlato di figli, matrimonio e cose del genere. È successo, sembrava giusto. Pensavamo che avremmo vissuto qui per sempre».

«Tu e la mamma non avete mai pensato di trasferirvi altrove?».

Inarca le sopracciglia. «Perché avremmo dovuto?»

«Hai detto che alla mamma piaceva sentire i racconti di altri posti e di vite differenti, eppure non si è mai mossa da qui».

«Oh…». Si incupisce, poi si passa una mano sulla testa. «Penso che il discorso non sia mai saltato fuori. Non lo so. È cambiato tutto così in fretta che non credo ci sia venuto in mente di trasferirci. Stoneridge era casa nostra».

«Ricordi il giorno in cui sono nata?».

Il papà non risponde subito, perché la signora Winter trotterella sul vialetto con un piatto di tramezzini e fette di torta. «Ho pensato che aveste fame», dice. «Questi sono con tonno e cetriolo, gli altri con uova e maionese».

Appoggia il piatto sul tavolo, poi torna con una brocca di quella che chiama «ginger beer fresca fatta in casa». I cubetti di ghiaccio galleggiano in superficie e immagino di non essermi mai sentita più inglese prima d’ora.

«È così piacevole avervi qui», continua la signora Winter. «Passate a trovarmi ogni volta che volete».

La ringraziamo, dopodiché la vecchina torna in casa, lasciandoci nuovamente soli in giardino. Il papà prende un tramezzino con le uova e lo lascio fare. Non c’è dubbio che abbia più bisogno di me di mangiare. Chissà quando è stata l’ultima volta che ha consumato un vero e proprio pasto.

«Sei arrivata il giorno del termine previsto», racconta il papà. «Tutti hanno degli aneddoti che riguardano bambini nati in anticipo o in ritardo, o per qualche complicazione durante la gravidanza. Non noi. Sei arrivata puntuale, peso nella norma, perfettamente sana. È andato tutto bene».

Un momento di silenzio. Si sentono gli uccellini cinguettare in lontananza, il ronzio delle api e delle mosche tra le aiuole fiorite. Spira una leggera brezza.

«Perché mi credi?», gli chiedo, sorprendendomi.

È la domanda sbagliata – stupida e pericolosa – ma sono impaziente di rivolgerla a qualcuno. Si tratta di una fede cieca, come una questione religiosa? Non c’è nulla di sbagliato a credere nell’esistenza di una forza superiore, ma allo stesso tempo è impossibile da dimostrare. Si basa tutto sulla fede. È così anche per i miei genitori con me? Sono un’idea a cui vogliono disperatamente credere, perché consente loro di trovare un senso agli ultimi tredici anni?

Il papà si morde un labbro. «Vedo tua madre in te», afferma.

È più o meno la stessa cosa che ha detto lei quando parlava dei miei occhi. Riconoscersi – non credo di riuscire a capirlo. È una cosa da genitori? Ci sono delle somiglianze fisiche tra me e mia madre, ma sono sufficienti?

I miei sentimenti sono contrastanti. Voglio che la gente mi metta alla prova, eppure non voglio raccontare niente. Non capisco come entrambe le cose possano coesistere.

«Non in senso fisico», aggiunge. Sbatto le palpebre, colpita dal fatto che mio padre sia riuscito in un certo senso a leggermi nel pensiero. «Hai in te la sua essenza. Il modo in cui parli, in cui cammini, come… sei».

Ho la mia risposta, che mi piaccia o no. Io sono la figlia di mia madre.

«Mi sono sottoposta a un test del DNA, stamattina».

Il papà si ferma con il sandwich ancora in bocca. «Tu cosa?»

«Le persone sono estremamente sospettose, quindi io e la mamma ci siamo sottoposte al test del tampone. I risultati arriveranno lunedì».

«È stata lei a spingerti a farlo?»

«No, non è stata una sua decisione. L’ho voluto io».

«Oh…». Il tramezzino rimane a mezz’aria ancora per un momento prima che lui ne prenda un altro morso.

Restiamo in silenzio; mi chiedo a cosa stia pensando lui. C’è una certa tracotanza nelle mie azioni. Fiducia in me stessa. Fare il test di mia spontanea volontà è stata un’affermazione.

«Avevo un impiego al comune», continua, cambiando discorso. «Sarah lavorava al supermercato. Non era come adesso, con i prezzi delle case alle stelle. Riuscivamo a cavarcela, mettendo via abbastanza soldi per il matrimonio. La madre di Sarah, tua nonna, non voleva avere nulla a che fare con noi – comunque è morta qualche mese dopo che ci siamo sposati».

Fruga in una tasca, estrae il portafoglio e me lo porge. Contiene una versione rimpicciolita della foto di nozze che avevo già visto. La mamma, il papà, Georgie e due damigelle di tre anni. Non gli chiedo perché la porti ancora con sé dopo tutti gli anni trascorsi dal divorzio.

«Una bella giornata», aggiunge. «Soleggiata, semplice. Il parroco della chiesa ha celebrato la funzione gratis perché conosceva Sarah fin dalla nascita. Penso fosse stata anche battezzata lì. Così abbiamo risparmiato sulle spese. Mi piacerebbe avere altri aneddoti da raccontarti, ma andò tutto liscio come l’olio. L’unico problema fu che tua nonna non si presentò – ma Sarah disse a tutti che non stava bene, per non sentire questioni». Fa una pausa, poi continua: «Non era neanche una bugia».

«E tuo padre?».

Il papà finisce il tramezzino e ne prende un altro. Dovrebbe mangiare tutto ciò che c’è nel piatto. Ora che ha tagliato la barba, si vedono le guance scavate. Sembra un prigioniero di una di quelle vecchie foto della guerra.

«È morto a una settimana circa di distanza dalla madre di Sarah. All’improvviso. Sembrava in buona salute, e lavorava in studio. Conduceva una vita molto sana – non fumava, non beveva, mangiava bene e correva ogni mattina –, ma poi ha avuto un cancro al cervello. È morto sei o sette settimane dopo».

Lascio andare un lungo fischio. È difficile trattenerlo. Deve essere stato devastante.

Il papà apparentemente riesce di nuovo a leggere i miei pensieri. «Poteva andare peggio», ribatte. «Una morte lunga, lenta e dolorosa sarebbe stata terribile. Almeno il suo corpo non ha ceduto a poco a poco. Penso che sia stato meglio così».

Finisce il secondo tramezzino mentre rifletto sulle sue parole. Ha ragione. Non credo di aver mai ragionato in questi termini prima.

«La mamma mi ha detto che avete discusso…».

Non ho bisogno di altre spiegazioni perché il papà sa che sto parlando del giorno della scomparsa.

«Non mi ha mai perdonato».

«Era sconvolta…».

Scuote la testa. «Io non mi sono mai perdonato. Non avrei dovuto lasciarti da sola. Tua madre e io ci siamo detti le cose peggiori. Ogni giorno in cui non tornavi era un giorno in cui diventavamo sempre più cattivi. Non penso che esistesse un modo per rimettere a posto le cose, dopo. Anche se tu fossi riapparsa una settimana più tardi, avevamo già superato il limite. Siamo rimasti sposati per un altro anno circa, ma ormai era tutto finito».

Il papà finisce un altro sandwich – al tonno stavolta – e prende il quarto.

«Max?».

Mi aspetto disprezzo e risentimento, ma non ce n’è traccia. Il papà si limita a mordere il suo tramezzino e masticare. «C’è sempre stato qualcosa tra loro», racconta. «Innamorati fin da bambini, hai presente? Il primo amore. Non era un problema, ma sapevo che lei aveva un debole per lui, ricambiato. Lo capivo e non mi dava fastidio. Vivendo qui, era impossibile non imbattersi l’uno nell’altro. Vedevo Max e suo fratello, ma non abbiamo mai avuto problemi».

«Non ti hanno reso la vita difficile?».

Il papà scuote la testa. «No… però erano sempre attorno quando sono iniziate le ricerche. Tutta la comunità conosceva i fratelli Pitman, e Ashley è diventato il centro di tutto. Non penso che ti avesse mai vista – a parte quando eri in giro con tua madre. Ma, dopo, quando è arrivata la polizia, quando è arrivata la stampa, si è trasformato in una specie di portavoce del paese. Non lo biasimo: tua madre e io eravamo troppo impegnati a litigare tra noi per accorgercene, ma credo che sia iniziato tutto in quel momento. Ashley e Max erano parte della squadra di ricerca, e Sarah interagiva con loro per quel motivo. A un certo punto credo che fosse diventato inevitabile. Io e Sarah ci siamo lasciati, lei ha iniziato a vedere Max».

«Non ti dava fastidio?».

Prende il tramezzino numero cinque, e me lo offre, ma scuoto la testa. Ne rimane solo uno, e spero che mangi anche quello.

«Avevo altra compagnia a quel punto».

Sto per chiedere “chi?”, ma poi realizzo che non sta parlando di una persona.

«Volevo solo che lei fosse felice», aggiunge. «Se Max la rendeva felice, allora era perfetto. Noi non lo saremmo stati mai più». Guarda in alto e sorride tristemente. «Sono contento che tu sia tornata», conclude.