Capitolo ventisette

Non credo che mi abituerò mai a guidare per le strettissime stradine di campagna che connettono Stoneridge al resto del mondo. Per qualche motivo, le corsie sembrano diventare sempre più anguste a mano a mano che le curve si ristringono. Le persone si lamentano sempre di quanto siano diventate severe le leggi sulla salute e sulla sicurezza, eppure paiono ritenere accettabili curve di novanta gradi con siepi alte, carreggiata unica e limiti di velocità a cento chilometri orari.

Secondo le indicazioni di Pete e il navigatore del mio telefono, sono solo ventisette chilometri di distanza, ma impiego quasi un’ora per arrivare a Winton Bridge.

In teoria è un paesino, ma è talmente piccolo che lo attraverso quasi tutto prima di rendermi conto di essere a destinazione. Noto il cartello GRAZIE PER LA GUIDA PRUDENTE, ma devo aver perso quello con la scritta WINTON BRIDGE DÀ IL BENVENUTO AGLI AUTOMOBILISTI ATTENTI.

Nonostante siano solo poche vie, un ruscello e una buca delle lettere, continuo a perdermi in cerca dell’indirizzo che mi ha fornito Pete. Che il luogo sia una zona d’ombra per i telefoni cellulari, di certo non aiuta. Anche una sola tacca di campo è un sogno, sembra che l’intera area sia un bunker di piombo.

Parcheggio nella strada deserta, immaginando di essere magari più fortunata a piedi, quindi inizio a camminare. Ci sono solo una trentina di case che punteggiano il borgo; la brezza trasporta rumori e odori tipici delle fattorie. Nonostante i canestri appesi e i muretti a secco, il paese mi sembra una versione ridotta di Stoneridge. Meno persone, superficie minore, molto più verde.

È al secondo tentativo che trovo per caso la casa che cerco. La facciata in pietra è ricoperta di edera e c’è un’auto malconcia abbandonata nel vialetto: con le ruote sporche di muschio e fango, ha l’aria di non venire usata da due decenni.

La vecchia porta di legno sembra talmente solida che se qualcuno bussasse troppo forte, si romperebbe le nocche. La colpisco con il palmo, temendo per la mia mano. Dopo un attimo, dall’interno proviene un vago fruscio poi un grugnito e, infine, una voce maschile che borbotta: «Un attimo».

Quando l’uscio si apre, appare un uomo su una sedia a rotelle. È certamente un mio pregiudizio, ma fa sempre un certo effetto vedere una persona in sedia a rotelle. Non può avere più di trentacinque anni, e ha lunghi capelli neri con la riga di lato, quasi sia uscito da una pubblicità di moda.

«Posso esserti d’aiuto?», domanda.

«Sei Iain?».

Guarda in alto, cercando di riconoscermi. «Tu chi sei?», ribatte.

«Ho qualche problema con un uomo chiamato Ashley Pitman, e mi hanno detto che tu puoi aiutarmi…».

Mi fissa per un po’, poi si sposta di lato per aprire di più la porta. «Entra».

La casa è stata adattata a un portatore di handicap, con un corrimano lungo il corridoio appena più basso del solito. Ci sono chiavi, monete, un paio di libri e altri oggetti potenzialmente utili sparso in giro. Il soggiorno è simile, con un tavolo da pranzo di qualche centimetro più basso di quelli che si trovano nei negozi e scaffali da terra zeppi di giornali e libri.

Iain si spinge dietro di me e si muove verso il televisore. C’è un divano a due posti, e mi ci accomodo.

Inizia lui. «Non so con chi tu abbia parlato, ma non c’è alcun modo in cui possa aiutarti».

«Ma conosci Ashley Pitman…».

Alza gli occhi al cielo con fare drammatico. «Puoi ben dirlo».

«Puoi raccontarmi qualcosa a riguardo?».

Iain lascia che la sedia scivoli avanti di qualche centimetro, poi la riporta indietro. Lo fa un paio di volte prima di fermarsi. «Cosa vuoi sapere?».

Potrei raccontargli tutta la storia, certo. Bambina scomparsa, tredici anni, nuova-vecchia famiglia, ma la versione corta va altrettanto bene. «Credo mi stia pedinando. Ma non ne sono completamente certa».

«Oh». Iain smette di dondolarsi con la sedia e la blocca con il freno. Poi si sfrega il mento. «È stato Pete a fornirti i miei contatti, vero?»

«Io…».

«È tutto a posto. Nessun problema». Indica la porta. «Ti va una passeggiata?».

Mi è impossibile non guardare le ruote, e Iain ride ragliando.

«Be’, tu cammini e io resto seduto. Puoi aiutarmi nei tratti più ripidi».

Acconsento e, dopo qualche minuto, siamo di nuovo alla luce della sera. Winton Bridge non sarà un granché, ma il borgo sembra sempre sotto il sole.

Iain mi conduce fino al torrente, dopodiché iniziamo a costeggiarlo fino a quella che pare un’alzaia abbandonata.

«Ero in classe con Ashley, a scuola», esordisce Iain.

«Sembri molto più giovane».

È una strana sensazione guardare qualcuno dal basso verso l’alto, ma vedo che lui sorride.

«Geni buoni», commenta. «Anche se non riesco più a entrare nei jeans aderenti».

Non reagisco, non sono sicura di poter ridere.

«Vivevi a Stoneridge?»

«“Il posto da cui non si può scappare”». Ride. «Lo chiamavo il Triangolo di Stoneridge. Sono riuscito a spostarmi di ventisette chilometri, ma sì, vengo da lì. Ti sei trasferita di recente?»

«Una settimana fa».

«Caspita. Cosa hai fatto di male per meritare una tale punizione? Non ci sei andata per scelta, vero?»

«Più o meno».

«È più silenzioso di una congrega di muti in una chiesa».

«Non mi sembra che Winton Bridge sia esattamente uno sballo…».

Iain ride a lungo e ho l’impressione che lo faccia spesso. La sua risata è contagiosa.

«Colpito, colpito», commenta. «Non posso darti torto. In ogni caso, non sai cosa succede qui, dietro queste porte chiuse. Sono sicurissimo che al numero 13 abiti una coppia di scambisti. Il venerdì e il sabato sera tardi si presenta ogni genere di coppia, e se ne va all’alba. Bastardi fortunati. Poi al numero 19 invece c’è un flusso costante di pacchi e spedizioni. Tre o quattro al giorno. Cioè, di cosa possono aver bisogno? So che si può fare shopping su Internet, ma così è assurdo. Credo proprio abbiano un’attività di sex toy a domicilio».

«E su cosa si basano queste ipotesi?»

«Pure, semplici congetture».

Stavolta rido.

Proseguiamo per un breve tratto, poi Iain riprende: «Ashley e io non eravamo amici», racconta. «Avevamo la stessa età, e il paese era abbastanza piccolo perché ognuno conoscesse tutti gli altri bambini, anche solo di nome».

«Non sembra molto divertente».

«Puoi dirlo forte – specialmente se sei un adolescente che sa di essere gay». Agita una mano in aria, come a voler scacciare il pensiero insieme alla polvere.

«Comunque, qualche anno dopo, tutti avevamo lasciato la scuola. Avevo diciannove o vent’anni, qualcosa del genere. Tu quanti ne hai?»

«Diciannove o venti, qualcosa del genere».

Ride. «Mi piaci», dice. «Comunque, sai che sono gli anni delle sbronze, no? C’è l’età della stupidera – più o meno da zero a undici-dodici anni, in cui non sai veramente niente e vai in giro come una specie di idiota imbranato. Poi c’è l’età del disagio, che arriva fino ai diciassette anni, in cui sei troppo imbarazzato per parlare di qualsiasi cosa. Infine c’è l’età delle sbronze, che, se sei fortunato, dura fino a circa venticinque anni. Dopo quella, c’è l’età della realtà devastante. Poi la fase della perdita di peso, la crisi di mezza età e la morte. Comunque: età delle sbronze. Vai all’università o trovi un lavoro di merda, spendi tutti i tuoi soldi al pub. Anni magnifici».

«Ho passato una quantità di tempo abnorme al pub, questa settimana».

Iain schiocca le dita. «Vedi? E ci credi che non sono neanche un esperto antropologo? Potrei essere il nuovo Stephen Hawking». Si ferma e imita una voce robotica: «In ogni caso, dove eravamo?»

«Avevi diciannove o vent’anni, qualcosa del genere».

Uno schiocco di dita e la sua voce torna normale.

«Giusto. So che potrebbe sembrare strano – non sono il tipico omosessuale –, ma giocavo a rugby nella squadra di Stoneridge. Ero un’ala».

Due cigni appaiono come dal nulla, planando verso il basso e atterrando sull’acqua. Succede tutto così all’improvviso che ci fermiamo entrambi quando gli uccelli mettono per la prima volta la testa sott’acqua per poi voltarsi come a voler dire: “Cosa avete da guardare?”.

Nessuno di noi ha alcuna voglia di lottare con un cigno, quindi proseguiamo fino a raggiungere un ponte di legno sul canale. Iain chiede se lo posso aiutare, perciò lo spingo finché non siamo sull’altra sponda e ci dirigiamo di nuovo verso Winton Bridge.

«È successo durante l’allenamento», continua Iain. «Abbiamo fatto una partitella tra noi. Dodici contro dodici, qualcosa del genere. Ashley giocava centrale. L’ho placcato in ritardo, dopo che aveva già passato la palla. È stato un incidente, ma ormai avevo già preso lo slancio per atterrarlo. Onestamente, era troppo veloce per me».

«Cosa è successo?»

«È saltato su e mi ha spinto via. Avevo le mani alzate in segno di scusa, ma lui mi ha affrontato a muso duro. “Vuoi davvero fare queste cose, ragazzino gay?”, e cose simili. Ripetevo senza sosta: “Mi dispiace”, ma lui continuava a incalzarmi, fino a quando tutti i nostri compagni di squadra hanno cercato di separarci. Ho pensato che fosse finita lì. Qualche scontro succedeva sempre durante gli allenamenti. Avevamo giocato una partita quel weekend, poi ci eravamo allenati la settimana successiva, e poi un’altra partita. Avevo dimenticato l’episodio, ma una sera ero al pub con alcuni amici non del gruppo del rugby».

Iain si spinge abbastanza velocemente ma la sua andatura cala. Mi ritrovo un passo più avanti di lui e devo rallentare.

«Stavo tornando a casa da solo a piedi», racconta. «Era tardi, l’una di notte, più o meno. Poi quello che so è che mi sono svegliato in ospedale».

Non lo faccio apposta, ma afferro la maniglia della sedia a rotelle di Iain. Ci fermiamo entrambi e mi ritrovo a guardarlo.

«Non sono sicura di capire».

«Neanche io lo ero. È come se qualcuno avesse inventato il teletrasporto. Un minuto prima ero in strada, quello dopo in un letto d’ospedale». Schiocca le dita un’altra volta. «Così. Con l’unica differenza che, invece di essere teletrasportato in un istante, ho impiegato quattro giorni. E ho perso l’uso delle gambe».

Sono abbastanza certa che la mia bocca sia spalancata. Per un attimo mi chiedo persino se non stia scherzando. Ogni frase della nostra conversazione ha avuto una battuta finale, ma non questa.

«Cosa è successo?»

«Non lo sa nessuno… Cioè, almeno una persona lo sa, ma io no». Si volta e si sposta i capelli, mostrando una spessa cicatrice violacea che percorre a zig-zag la sommità della sua testa. È così estesa che sento il bisogno di toccarla.

«Puoi farlo», mi rassicura – mi rendo conto che deve essere molto semplice leggere i miei pensieri.

«Sei sicuro che non ti scocci?».

Mentre tiene i capelli scostati, faccio correre le dita lungo il tessuto cicatrizzato. È squamoso come la pelle di una lucertola.

«Non hai idea di quanti ragazzi ho rimorchiato grazie a questo sfregio», aggiunge Iain, lasciando ricadere i capelli al loro posto.

«Cosa l’ha causata?»

«Non ne sono certo. Qualcosa di affilato – un machete, forse la punta di una vanga, un oggetto simile. Deve avermi steso con un colpo solo. Mi ha fratturato anche cinque o sei costole. Il dottore ha detto che qualcuno doveva essere saltato sul mio petto mentre ero a terra».

«E le gambe?»

«Mi ha investito una macchina. Erano sfracellate. Sono un miracolo per la medicina: è incredibile che sia sopravvissuto». Dà un colpo al ginocchio con il pugno. «Sono come quel fottuto di RoboCop qui sotto – e non la nuova versione: quello anni Ottanta».

Continuiamo lungo l’alzaia e in qualche modo mi ritrovo a spingere la sedia a rotelle. Mi chiedo se farlo sia offensivo o d’aiuto. In ogni caso, Iain non dice niente.

«Stai insinuando che è stato Ashley?»

«Non è mai stato perseguito, se è questa la tua domanda. Il fratello ha giurato e spergiurato che avevano trascorso tutta la serata insieme a casa sua». Si interrompe per un momento, poi aggiunge: «Io so chi è stato. Lo sapevo allora e lo so adesso. L’ho capito dal modo in cui mi ha sempre guardato in seguito».

Un’imbarcazione è ferma davanti all’accesso di una chiusa, un uomo anziano sta armeggiando con la paratoia. Gli do una mano, mentre Iain mi incoraggia ridendo: «Metticela tutta». L’uomo ci ringrazia entrambi – probabilmente me per lo sforzo fisico e Iain per i commenti – dopodiché salta di nuovo sulla barca.

«Hai detto che Ashley Pitman ti sta pedinando?», mi chiede.

«Qualcosa del genere».

Ora il suo tono è molto serio, la commedia è temporaneamente sospesa: «Sei finita a Stoneridge per qualche motivo? Amici? Famiglia?»

«Forse…».

«Be’… se vuoi il mio consiglio, eccolo. Se i Pitman dimostrano un interesse nei tuoi confronti, allora o corri dalla polizia, o corri e basta».