Capitolo dodici

Sto attraversando l’area del bar del Black Horse quando Pete mi rivolge un cenno dal bancone. Presumo che la notizia della mia identità si sia ormai diffusa, ma dev’esserci dell’altro.

«Conosci Ashley Pitman?», chiede.

«Più o meno».

«Ha chiesto di te».

Sono sorpresa. «Quando?»

«In pausa pranzo. Voleva sapere da quanto tempo alloggiavi qui, fino a quando ti fermerai, con quale nome ti sei registrata…».

Pete sembra confuso quanto me. Parla sottovoce per evitare che i tizi in fondo al bancone origlino la nostra conversazione.

«Cosa gli hai detto?», domando.

«Non molto. Anche perché è stato bandito dal pub, quindi l’ho invitato ad andarsene».

«È stato bandito?»

«Non preoccuparti, è una vecchia storia. Sei nei casini?».

Scuoto la testa. «Nient’affatto. È una situazione complicata, ma lui non c’entra nulla».

Pete stringe gli occhi. Intuisco che i problemi non gli mancano.

«Non voglio storie con i Pitman, qui dentro», mi dice.

«Neanch’io».

«Bene. Perlomeno siamo d’accordo». Si guarda intorno e abbassa ancora di più la voce. «Posso dire che Ashley Pitman non sia proprio il mio migliore amico».

«Come mai?»

«Lui e suo fratello hanno una certa nomea in paese. Qualcuno li ama, qualcuno no. Io appartengo a questo secondo gruppo».

Nattie ha detto qualcosa di simile ieri sera, ma non ha aggiunto molti dettagli.

«E perché la gente non li ama?», domando.

Pete controlla alle mie spalle, per assicurarsi che non ci sia nessuno nelle vicinanze. Come se stessimo chiudendo la vendita di una partita di droga. «Ora hanno una compagnia di taxi, mi prima si occupavano di altri affari. Max e Ashley gestivano un’autofficina con il padre. In tanti pensavano che truffassero la gente, ma davano lavoro a molti del posto, quindi alcuni li consideravano dei benefattori. A un certo punto hanno avuto problemi con la camera di commercio e sono stati costretti a chiudere. Ciò ha ovviamente causato delle ricadute, perché Ashley andava in giro ad accusare persone a caso di averli segnalati alle autorità. Avevano anche molti debiti – e la gente di qui ha la memoria lunga».

«Non ne sapevo niente».

Alza le spalle. «Ora lo sai. Voglio solo dire… fa’ attenzione, con quella gente».

Mi appresto a rispondere, ma realizzo che non so cosa dire. Mia madre, adesso, è parte di quella gente, e quindi lo sono anche io.

Lo ringrazio per il consiglio e mi dirigo al piano di sopra con la scatola di articoli presa a casa della mamma, che leggerò più tardi. C’è anche la foto ricevuta da Georgie. Mi cambio rapidamente e scendo. Nattie è giù ad aspettarmi, davanti a un bicchiere di vino. Lo beve tutto d’un fiato, poi mi prende sottobraccio e mi accompagna fuori.

«Mia madre vuole più bene a te che a me», scherza.

«Non ha fatto altro che offrirmi cibo».

«Anche con te?! Non so cosa non vada in lei, ma non è felice se la gente intorno a lei non mangia».

Nattie mi conduce nella direzione opposta alla chiesa, verso la parte più malfamata del paese.

«Dove stiamo andando?», domando.

«Vedrai. È una sorpresa».

«Non sono sicura che le sorprese mi piacciano».

«Ma questa sì… Be’, forse. Probabilmente. Anzi, di certo». Fa una pausa. «Diciamo probabilmente».

Quando arriviamo ai piedi della collina, ci addentriamo in una viuzza angusta che si snoda dietro alcuni cottage. Attraversiamo un ponte di pietra che supera la parte più stretta del fiume, poi vedo una serie di porte da calcio al centro di un campo. Superiamo il retro della sede del circolo locale e ci inoltriamo lungo un altro sentiero, finché non sbuchiamo in un piccolo parco giochi. Un cartello recita: RIDGE PARK. Ci sono delle altalene, una giostrina e un paio di strutture per arrampicarsi, sopra un tappeto elastico nero. Per un momento penso che la nostra meta siano le altalene, ma Nattie le supera, dirigendosi verso un albero nell’angolo più lontano del campo.

«Ta-da!», esclama.

Sono confusa. «Un albero».

Mi avvicino finché finalmente vedo quello che sta indicando. Sul tronco spesso c’è un grosso nodo sporgente, con una specie di ghirlanda intorno al bordo.

«È il tuo monumento commemorativo», dice.

La ghirlanda è molto più complessa di quanto sembrasse. È intrecciata come un cestino di vimini, con rami e schegge di legno ritorti insieme per creare una specie di corona. Piccole gocce di vernice la punteggiano dappertutto, come pietre preziose.

«Non è una cosa ufficiale del paese», spiega Nattie. «L’hanno realizzata dei bambini qualche anno fa».

Sul nodo del tronco da cui pende la corona è stato intagliato il nome OLIVIA.

«Cosa ne pensi?», chiede Nattie.

«È un po’ strano…».

Ride. «Certo che ora lo è. Tutti pensavano che tu fossi morta. Quando eravamo piccoli venivamo qui a parlare di te. Come ti ho detto ieri, pochi si ricordavano bene di te, ma eri una specie di mito, quindi spesso raccontavano storie di fantasmi sotto questo albero».

Non so se dovrei esserne lusingata. Forse sì.

«Sono stata di nuovo da mia mamma, stamattina», dico. «La mia e la tua, una dopo l’altra».

Nattie emette un lieve sibilo e si siede a terra, appoggiando la schiena contro il tronco. La imito, e ci ritroviamo a guardare il parco giochi deserto. È un altro giorno di cielo terso, tiepido ma non troppo caldo. La chioma dell’albero fornisce una piacevole ombra.

«Tua madre non è male», commenta. «Mi paga sempre con puntualità e quando glielo chiedo mi lascia uscire prima. Salda anche gli straordinari. Non si infuria se si rompe qualcosa. Una volta ho fatto cadere un intero vassoio di tazze e bicchieri e non me l’ha neanche scalato dallo stipendio».

«La conosci bene?»

«Non direi. Le nostre madri, loro sì che si conoscono – è il motivo per cui ho avuto il lavoro. Ma non si frequentano più molto, ormai».

«Come mai?».

Nattie armeggia col telefono per comporre un messaggio. Parla senza alzare la testa. «Onestamente?»

«Onestamente».

«Se te lo dico non corri a raccontarglielo, vero? Mia madre darebbe di matto se sapesse che ti rivelo queste cose».

«Sono brava a tenere i segreti».

Nattie si volta verso di me e sogghigna. Le piace quello che ha sentito. «Non sopporta il tuo patrigno e suo fratello. Li chiama Scemo e Più scemo».

«Chi è chi?».

Nattie mette giù il telefono e ride. «Non ne ho idea. Mi sembra tutto abbastanza squallido».

«In che senso?»

«Il tuo patrigno usciva con tua madre quando erano adolescenti, più o meno, e finiscono per sposarsi quindici anni dopo? Dài, sembra una brutta commedia romantica. Una di quelle davvero brutte…».

Si schiarisce la voce e sbadiglia, prima di stendersi sull’erba e chiudere gli occhi.

«Il tuo fratellino è forte. È venuto a casa un paio di volte. Si è aggrappato a uno strofinaccio sul ripiano della cucina, facendo cadere il pacco di riso – aperto – che era appoggiato sopra. Me la sono quasi fatta addosso dalle risate. Poi la mamma mi ha fatto pulire tutto: ha detto che lo avevo incoraggiato». Fa una pausa. «Comunque è stato divertente».

«Penso che stamattina mi chiamasse “uovo”».

«Uovo?»

«Un’abbreviazione di Olivia, credo. Chissà…».

«Sono stata al battesimo. Cerimonia in chiesa e poi un buffet nella sala consiliare. Sono andata solo per il cibo». Distende un braccio. «C’era un sacco di roba da mangiare. Ho finito due pizze da sola. Rhys deve aver mangiato mezzo maiale. C’era uno di quegli spiedi portatili. Anche la torta. Poi sono andata a vomitare in bagno». Si rizza sui gomiti e si gira verso di me. «Scherzo, eh».

Nattie si sdraia di nuovo e per un momento restiamo in silenzio. Le mie gambe nude sono esposte al sole, che è magnificamente caldo sulla mia pelle. Non ho mai avuto un’amica come Nattie, qualcuno con cui sia tutto così naturale. Sembra che non riesca a nascondere niente. Lei è così, prendere o lasciare. È talmente aperta e sincera che lascia sorpresi. Ho paura che mi scappi qualcosa di bocca, perché lei è così. Potrebbe essere pericoloso, eppure desidero continuare a passare del tempo insieme a lei.

«Il tuo patrigno si è incazzato».

«Quando?»

«Al battesimo. Anche suo fratello. Come si chiama?»

«Ashley».

«Sì, lui. Non riusciva a stare in piedi ed è caduto dalle scale davanti alla sala. Tutti i maschi sono finiti a fare questa noiosa messinscena da amici». Continua con voce profonda. «“Sì, amico”. “Stai bene, amico?”. “Scommetto che riesco a saltare più in alto di te, amico”. Si sono messi a fare questa gara di salto in alto da fermi, fuori sull’erba. Tua mamma li ha mollati lì ed è tornata a casa da sola». Nattie si blocca. «Be’, più torta per me».

Il pomeriggio è così tranquillo che potrei rimanere sdraiata qui con lei per il resto della giornata. Non si sente il cinguettio degli uccelli, niente brusio del traffico, nessuna traccia del costante andirivieni della gente. È magnifico. Chiudo gli occhi e mi stiracchio. Lei accarezza il dorso della mia mano con la sua e ridacchiamo. Sembra che alle persone piaccia toccarmi. Forse lo fanno per assicurarsi che non sia una specie di fantasma.

«Max e Ashley non piacciono a molta gente», dico.

«Mia madre dice che Max seguiva sempre lei e tua mamma. Se loro camminavano verso casa, lui era lì. Se andavano al cinema o a giocare a bowling, ecco comparire i fratelli Pitman».

«Ma non uscivano tutti insieme?»

«Credo che questo succedesse prima, quando avevano quattordici o quindici anni. La mamma dice che Max chiedeva a tua madre di uscire di continuo, finché lei non ha finalmente ceduto».

«Lei ha ceduto?».

Non è esattamente la versione che mi ha dato Georgie.

«Lo so. È inquietante, vero? Insisti con qualcuno finché non cede».

«Ma tu sai perché si sono lasciati, innanzitutto? Mio padre e mia madre si sono sposati a ventun anni».

Nattie dà un altro colpetto alla mia mano ed entrambe ci rizziamo su sui gomiti. «Probabilmente non dovrei raccontarti tutte queste cose», dice. «La mamma me le ha confidate solo dopo il battesimo, perché aveva bevuto troppi gin tonic. Falla ubriacare, e ti racconterà tutto ciò che desideri. Secondo lei, tua madre è scomparsa per un’estate e poi tutto è cambiato».

Mi siedo con le gambe incrociate e fisso Nattie. I suoi capelli stanno iniziando ad arricciarsi e sfilacciarsi come quelli di sua madre.

«È scomparsa per un’estate?».

Nattie alza le spalle. «Non chiedermelo. Non ne ho idea. Domandalo a mia madre».

«Ti dispiace se lo faccio?».

Un’altra alzata di spalle. «Come vuoi. È la tua famiglia, no?».

E ha ragione. Che mi piaccia o no, Max e Ashley Pitman sono la mia famiglia.