2009: Lily, 12
Capisco che il papà è in casa appena varco la soglia dell’ingresso. Non parla e non si sente nessun suono, ma c’è qualcosa nell’aria. È difficile da descrivere. O forse è perché è sempre in casa quando torno da scuola. Ogni mattina dice che andrà a lavorare, ma poi non lo fa.
Lascio cadere lo zaino sul pavimento del corridoio e vado in cucina. Con ogni probabilità dovrò preparare la cena per entrambi anche stasera, quindi apro il frigorifero. Solo che… è praticamente vuoto. C’è una bottiglia di Coca-Cola a metà, una di latte quasi finita, qualche foglia marcia di insalata nel cassetto delle verdure, quattro o cinque fette di pane in un sacchetto di plastica e una fila di birre sul ripiano superiore.
«Ci sono le patatine nella dispensa».
Faccio un salto quando il papà appare dietro la porta del frigorifero. I suoi occhi sembrano stanchi, come se non avesse dormito molto.
«Come è andata al lavoro?», chiedo.
Si incupisce, ma ormai ha smesso di arrabbiarsi. A volte mi domando cosa potrei dire o fare per renderlo davvero furente.
«Domani», mi risponde, prima di aprire l’armadietto ed estrarne un pacco multiplo di patatine. Venti sacchetti, a quanto pare: bacon affumicato, sale e aceto, solo sale, e formaggio e cipolla.
«Non puoi mangiare le patatine per cena», gli dico.
Guarda il pacco e lo rimette dove lo aveva preso, poi guarda negli altri pensili. C’è un barattolo di senape – non saprei dire da quanto tempo sia lì – alcune spezie e odori, un tubetto di concentrato di pomodoro, una lattina di zuppa di pollo e un paio di scatolette di tonno.
«Pane tostato col tonno?», suggerisce.
«Non c’è altro?».
Apre i cassetti del freezer e comincia a rovistare tra le incrostazioni di ghiaccio, finché ne estrae una confezione di salsicce.
«Pane tostato e salsicce?».
È decisamente meglio.
«Okay… ci sono anche dei fagioli?».
Scuote la testa. «Andrò a fare la spesa domani», ribatte.
Evito di fargli notare che dovrebbe andare a lavorare, domani, e che aveva già promesso di uscire per le compere un paio di giorni fa.
Il papà prende una padella da uno degli armadietti in basso e l’appoggia sui fornelli come se stesse per iniziare a cucinare, ma mi fissa per tutto il tempo. Ci siamo già passati.
Dico che ci penso io e lui non si oppone; trascina i piedi fino al fondo della cucina e sbadiglia rumorosamente mentre separo le salsicce surgelate con il coltello più grande che trovo. Mi occorrono un paio di tentativi prima che si stacchino l’una dall’altra: il risultato è che due schizzano contro il muro e le altre rotolano sul pavimento. Le sciacquo tutte nel lavandino prima di metterle nella padella e accendere il fornello al minimo.
Dopo un altro sbadiglio, il papà mi chiede se ho dei compiti da fare.
«Non molti», rispondo.
«Puoi fare la brava bambina e rimanere nella tua stanza, più tardi?»
«Cosa succede?»
«C’è la finale di Champions League. Ho invitato alcuni amici per guardarla insieme».
Questo spiega le patatine. Il papà deve essere andato a comprarle stamattina, insieme alle birre. Nell’ultimo anno abbiamo messo a punto una specie di linguaggio in codice. Ho impiegato qualche secondo per capire che fare “la brava bambina” significa togliersi di mezzo e non far rumore. Funziona da entrambe le parti, almeno. Al papà non interessa leggere le comunicazioni scolastiche: le firma senza battere ciglio. Quando sono stata punita due volte, non si è preso la briga di chiedermene il motivo, ha solo scarabocchiato il suo nome per mostrare di aver visto la lettera. Posso mantenere fede alla mia promessa, se lo fa anche lui.
«Ho alcuni libri da leggere», rispondo.
«Bene… non faremo tardi».
Le salsicce hanno iniziato a sfrigolare e le giro con un cucchiaio di legno.
«Puoi prendere i cereali, domani?», chiedo. «Anche il latte».
Annuisce, poi sbadiglia di nuovo.
Controllo le salsicce e infilo un paio di fette nel tostapane.
«Abbiamo bisogno anche del pane».
«Puoi fare un elenco?».
Indico il frigorifero, dove c’è già una lista appiccicata alla porta con una calamita.
«Oh», commenta, come se fosse una novità. Abbiamo appeso le liste della spesa sulla porta del frigorifero da prima che io possa ricordare. La mamma la prendeva il giovedì per andare a fare la “spesa grande”. Ogni settimana, aggiungevo BISCOTTI e lei rideva, dandomi della sfacciata. Li comprava lo stesso, ma ora non c’è più speranza che succeda.
«Vuoi una salsiccia?», chiedo.
«No, mangiale tu. Ne hai più bisogno di me».
«Hai mangiato oggi?»
«Sì, ho mangiato… ehm… qualcosa, prima».
Non mi giro a fissarlo perché so che sta mentendo.
«Puoi guardare un po’ di televisione, se vuoi…».
Questo fa sì che mi volti, solo per verificare se sta scherzando. Non me lo propone mai, anzi, è raro che si alzi dal divano. A malapena metto ancora piede in soggiorno. La TV è accesa costantemente – notiziari o canali di sport. Non penso che gli importi qualcosa di quello che succede nel mondo, ma gli piace avere una voce in sottofondo. Ha smesso di riordinare e pulire molto tempo fa: la casa è piena di bottiglie vuote. Mi ci è voluto un po’ per capire che whisky e bourbon sono più o meno la stessa cosa. Una volta il papà mi ha detto che potevo assaggiarlo, e mi è bastata una sorsata per capire che non mi piace. Non so come lui possa berne bottiglie intere. Lui e chiunque altro lo faccia.
«Metto un po’ in ordine», mi dice. «Tu guarda quello che vuoi».
«Grazie».
Si sposta nel corridoio, fuori dalla mia vista, e sento il tintinnare degli oggetti che sta spostando. Mi chiedo cosa possa voler dire “metto un po’ in ordine”, poi capisco che è andato a prendere una confezione di birra in cantina. Chissà se è nuova o se era già lì da un po’. La lascia in soggiorno, poi torna nel seminterrato per un’altra cassa.
Dopo, porta nel salotto un grande sacco nero e inizia a buttare via i giornali vecchi e le bottiglie. Mentre compie quell’operazione, io continuo a cuocere le salsicce, finché non sono abbrustolite e sode. Non c’è ketchup nella dispensa, quindi lo aggiungo alla lista attaccata al frigorifero, insieme a fagioli, latte, cereali e pane. Quando ho finito, mi sposto in soggiorno.
So che non è molto, ma è davvero importante sentirsi padroni del telecomando del salotto. Il televisore ha diversi canali in più di quanti ne ho al piano di sopra. Impiego secoli a scorrerli tutti, mentre ceno. Il papà continua a spostare cose avanti e indietro, ma ha finalmente eliminato le bottiglie vuote. Chissà se è riuscito a mettere ogni rifiuto nel bidone della raccolta differenziata corretto. Di solito non è così e tocca a me spostare tutto da un bidone all’altro.
Ho quasi finito di cenare quando mi fermo su una trasmissione sugli elefanti. Il papà entra in soggiorno e rimane in piedi dietro la sedia, osservandomi per un paio di minuti, poi esce dalla stanza senza dire una parola. Lo sento salire le scale, poi silenzio.
Quando sono ormai le cinque del pomeriggio, mi alzo per lavare e asciugare il piatto e la padella. Alle sei, il soggiorno è ancora a mia disposizione.
Mi chiedo se il papà stia finalmente riposando. Certe notti non sale neanche in camera. Resta sul divano e non so se dorma o guardi la TV. A volte passano anche due o tre giorni in cui forse si alza dal sofà solo per andare in bagno. Non lo vedo mai mangiare o dormire, non fa altro che guardare la televisione.
La trasmissione sugli elefanti è finita da un po’ quando sento il papà che scende di sotto. Manca poco alle sette. Entra in salotto sbadigliando.
«Ora puoi fare la brava bambina?», chiede. Gli passo il telecomando. Per un istante le sue dita sfiorano le mie e in me riaffiora il ricordo della chiesa, del mio bisogno di stringere la sua mano. È passato solo un anno, ma sembra molto di più. Ero una persona diversa, allora: ero più piccola e c’erano un sacco di cose che capivo.
«A domani», mi dice, ed è tutto.
Mentre sono seduta a leggere nella mia stanza al primo piano, la porta d’ingresso si apre diverse volte. Voci maschili, poi solo il mormorio che si diffonde dal pavimento quando il papà tiene il volume della televisione troppo alto. Quando si addormenta davanti devo scendere in punta di piedi per abbassarlo.
Non passa molto tempo prima che mi giunga l’eco di un’esultanza rumorosa – qualcuno deve aver segnato. Provo a ignorarli: metto le cuffie, accendo la radio e cerco di continuare a leggere.
Probabilmente è questo il motivo per cui non mi accorgo che la porta della mia camera si è aperta, finché non vedo qualcuno ai piedi del letto. Faccio un salto dallo spavento, ma l’uomo avvicina il dito alle labbra, mentre chiude l’uscio. Tolgo le cuffie e mi rannicchio sui cuscini.
«Ciao», dice.
L’uomo è più alto di mio padre. È grosso, ma non grasso, sembra più un giocatore di rugby, con le spalle larghe e le gambe robuste. Quando i miei occhi si abituano alla luce, vedo che indossa una maglia da calcio rossa e ha le braccia tatuate.
«Ti ricordi di me?», chiede.
«No».
«Sono lo zio Alan. Eri una bambina l’ultima volta in cui ci siamo visti».
Sorride, sfoggiando i denti bianchissimi.
«Stai cercando il bagno?», domando.
«Non proprio… forse. Volevo passare a salutarti».
«Ah…».
Si siede sul bordo del letto; il materasso sprofonda sotto il suo peso. «Quanti anni hai adesso?», chiede.
«Dodici».
«Che bella età. Sei una ragazza molto carina. Te lo dice mai tuo padre?».
Si avvicina. Vorrei spostarmi, ma non ho spazio per farlo. C’è qualcosa nel modo in cui mi guarda che non ho mai visto prima. Come se fossi un regalo di Natale appena scartato. Per lui sono un essere misterioso ed eccitante.
«Dov’è mio padre?», chiedo.
Lo zio Alan si gira verso la porta chiusa e poi di nuovo verso di me, con un sorriso sottile. Non dovrebbe spaventarmi, ma lo fa. «È in salotto. Ma noi andiamo d’accordo, no?».
Una parte di me sa che quello che sta succedendo è sbagliato. Dovrei picchiare contro il pavimento e fare rumore, ma non ci riesco. Ho l’impressione di non riuscire a muovermi, e tutto per il modo in cui mi sta guardando. Mi ha congelata. Oltre a essere paralizzata, mi è impossibile anche pensare. Sono in trappola.
«Non dovresti essere qui».
Faccio una fatica enorme a pronunciare quelle parole. Ed è stato uno sforzo incredibile anche solo pensarle. Lui non ne è turbato, però. Sorride di nuovo, senza dire nulla. Poi allunga una mano verso di me.