Capitolo quindici

La mamma ha un dito appoggiato sulle labbra quando mi apre la porta. Deve avermi vista arrivare. «Harry sta dormendo», sussurra, spostandosi di lato per permettermi di entrare. «È stato sveglio quasi tutta la notte».

«Come mai?».

Chiude la porta e mi abbraccia. «Chi lo sa? Era lo stesso anche con te. Dormivi solo quando volevi. A volte non chiudevi occhio per l’intera notte. Mi facevi impazzire».

Lascio la mia borsa nel corridoio e mi dirigo verso la veranda. Harry è nella culla in un angolo, all’ombra di una tendina. La mamma si agita quando mi chino su di lui per guardarlo. Dorme come un angioletto, con il pollice in bocca.

Non appena mi allontano, mia madre tira un sospiro di sollievo. Sbadiglia scomposta, prima di scusarsi.

«Cos’hai fatto in questi giorni?», domanda.

«Ci siamo viste solo ieri».

«Lo so… solo che…». Si interrompe, poi ricomincia: «Sono contenta di rivederti».

«Sono uscita con Nattie», racconto.

«Sei andata a trovare tuo padre?». Parla con disinvoltura, come se fosse normale.

«Sì».

Apre la bocca per dire qualcosa, poi la richiude, limitandosi a un cenno del capo.

«Ho anche visitato il mio monumento in memoriam. Quella specie di ghirlanda sull’albero».

La mamma inarca le sopracciglia. «Nessuno sapeva cosa fare», spiega. «Eri stata dichiarata morta… e lo sei ancora, credo. Non volevo una lapide vera e propria, perché mi sembrava troppo definitiva. Alcune bambine della scuola hanno realizzato la ghirlanda di legno e inciso il nome sull’albero, e così è diventato ufficialmente il tuo monumento non ufficiale. Lo visito un paio di volte all’anno e qualche volta lascio dei fiori ai piedi dell’albero. Ci sono andata a ogni tuo compleanno, da quel giorno…».

Mi chiedo se questo non sia un invito a eliminare del tutto ogni minuscolo seme di dubbio che possa ancora esistere, dimostrando che conosco il giorno del mio compleanno.

«La vigilia di Natale», ribatto.

Sembra che qualcuno abbia alleggerito le spalle della mamma di un peso enorme. Si raddrizza, espira. Ho ragione. Certo che ho ragione. «Esatto. Fa sempre così freddo. I fiori non duravano a lungo. Ho pensato di portare altri generi di cose – pelouche, o simili – ma venivano sempre rubati».

«È il pensiero che conta».

Annuisce e accenna un sorriso.

Mi piace l’immagine dell’albero circondato da piccoli pupazzi e fiori. I media avranno perso interesse, così come le persone, ma c’è sempre un angolo di questo paese che si ricorda di me.

«Possiamo parlare di papà?», domando.

La mamma guarda nella mia direzione, ma i suoi occhi sono persi nel vuoto, come se le avessi chiesto di un morto. Rilassa le spalle e lascia andare un profondo sospiro, dopo quella che sembra un’eternità.

«Un tempo, lo amavo», mi risponde.

Lo dice così dolcemente che è impossibile dubitarne. Si accomoda sul divano, poi rivolge un’occhiata a una foto di lei e Max appoggiata su una mensola, come se parlare di mio padre equivalesse a un tradimento nei confronti del marito.

«Era un bravo ragazzo», aggiunge. «Io frequentavo poche persone, tutte cresciute qui, in questo paesino… Penso che allora non mi rendessi conto di quanto potesse essere limitante».

Sono appoggiata alla credenza; lei mi lancia un’occhiata, poi unisce le mani.

«Era come se esistesse solo questo angolo del pianeta, questo paesino insulso, il gruppo di persone che frequentavo, e nient’altro. Finisci col dimenticare che c’è un mondo al di fuori, e Dan è stato il primo a farmelo capire. Non era originario di qui e non aveva frequentato la nostra stessa scuola».

Non ne sapevo nulla.

«E da dove proveniva?», mi informo.

«Da Londra, ma non te ne saresti mai accorta dall’accento. Suo padre era un dentista e si era trasferito qui per aprire uno studio. Dan aveva diciotto anni quando ha deciso di seguirlo. Io ne avevo diciassette, forse diciotto appena compiuti, e lui quattro di più». Fa schioccare le dita, e mi rendo conto che è un’abitudine che ho anche io. «Ci siamo subito trovati bene», continua. «Un attimo prima non ci conoscevamo, quello dopo eravamo inseparabili. Mi ricordo un giorno, all’inizio: stavamo scegliendo dove andare a mangiare qualcosa. Io ho proposto il chiosco degli hamburger in paese, come facevo di solito, e lui mi ha domandato invece se non ci fosse un posto per mangiare il sushi. Lo guardai come se avesse detto una cosa estremamente stupida. Sapevo solo che si trattava di pesce crudo, ma non l’avevo mai assaggiato. L’idea mi sembrava disgustosa, ma lui sosteneva che fosse molto buono. Era l’uomo più esotico che avessi mai incontrato».

«Hai mai assaggiato il sushi?».

La mamma ride. «Sì. Aveva la macchina, e ha guidato per chilometri e chilometri per portarmi in un locale che aveva scoperto. Non sapevo usare le bacchette, quindi ho usato una forchetta. Era molto buono, non me l’aspettavo proprio». La mamma distende un braccio, con un sorriso malinconico. «Non credo che qui in paese aprirà un ristorante giapponese a breve».

«Potresti aprirne uno tu».

Sbuffa. «Fallirei nel giro di un mese. Sai come si dice, no? Le abitudini son dure a morire. Avresti dovuto vedere l’agitazione della gente quando Tesco ha chiesto l’autorizzazione per aprire un nuovo supermercato. Pareva che stessero chiedendo dei sacrifici umani».

Harry si muove nella culla e la mamma si blocca. I suoi occhi corrono da una parte all’altra, temendo il peggio, ma il piccolo sta ancora dormendo. Un sospiro di sollievo.

Tutto ciò che mi è stato raccontato di mio padre è l’esatto contrario di ciò che ho visto. Non era particolarmente esotico mentre dormiva circondato da bottiglie vuote ed escrementi di topo.

«Ci frequentavamo soltanto da qualche mese quando sono rimasta incinta di te», va avanti la mamma. Sembra che stia guardando oltre un vetro invisibile. «Non l’avevamo previsto, ma nessuno dei due l’ha presa male. Eravamo giovani, ma non voglio che tu pensi di non essere stata ben accetta. Non previsto non vuol dire non voluto».

Mi è difficile rispondere perché non mi aspettavo questa onestà. A nessuno piace essere il frutto di “un incidente”, ma ha ragione: non previsto non significa non voluto. Il problema è che so molte più cose di quante lei pensi.

«Lo capisco».

Sono le due parole più difficili che io abbia mai pronunciato – e non so se ne saprà mai il motivo. Una pausa. Ne ho bisogno. La mamma rivolge lo sguardo verso Harry e ne approfitto per scacciare le parole che ho sulla punta della lingua. Ho così tanto da raccontare, ma so di non poter farlo.

Lei non sembra accorgersene. «L’educazione sessuale, ai tempi, non era come quella odierna», spiega. «Eravamo ingenui. A scuola siamo rimaste incinte in quattro a pochi mesi di distanza l’una dall’altra. Dan e io abbiamo detto a suo padre che avremmo tenuto il bambino e per lui andava bene». Si ferma. «Oddio, non bene, credo. L’ha accettato. Mia madre non ne era così felice, ma ormai non me ne importava più. Io e tuo padre ci siamo trasferiti nella vecchia casa che conosci, e abbiamo fatto funzionare le cose. Quando abbiamo messo via abbastanza soldi, ci siamo sposati e siamo diventati una famiglia».

Un altro fruscio dalla culla, stavolta seguito da un vagito che attira l’attenzione della mamma. Non proprio un pianto, ma abbastanza per capire che Harry è sveglio e vuole essere accudito. La mamma si incupisce e si alza lentamente dal divano. Sembra che le zampe di gallina intorno ai suoi occhi siano diventate più profonde durante la notte.

«Posso provare?».

La mamma sbatte le palpebre e si blocca. «Oh… mmm… credo di sì. Se vuoi…».

Mi dirigo verso la culla, Harry sta agitando le braccia sopra la testa in attesa che la mamma lo prenda. Farfuglia qualcosa, la saliva gli scorre fino al mento. Appena mi avvicino, si attacca alle mie mani e le stringe; lo sollevo dal lettino e lo appoggio sulla mia spalla. Non so se sia grande o piccolo per avere due anni, ma è sicuramente pesante – ma la cosa non gli interessa, a quanto pare, mentre affonda la sua testolina nell’incavo del collo e si abbandona al calore del mio corpo.

Dopo poco, è di nuovo addormentato.

«Non ci posso credere», afferma la mamma.

Sono in piedi, intenta a cullare Harry con dolcezza avanti e indietro. La mamma ci guarda, con un sorriso che le invade gentilmente il viso. Mi chiede di aspettare, poi si fionda nell’altra stanza per tornare con il suo smartphone e scattare una serie di fotografie. Quando riguarda lo schermo, le lacrime le riempiono gli occhi, e gira il telefono per mostrarmi le immagini.

Sono belle: Harry ha gli occhi chiusi e si succhia il pollice, con la testa proprio sotto la mia.

«C’è un negozio in paese che stampa le fotografie direttamente dal cellulare», si illumina la mamma.

«Max non ne sarà dispiaciuto?».

Mi guarda e mormora qualcosa che non capisco, non so neanche se parlasse con me.

«Ma abbiamo passato dei bei momenti», aggiunge.

«Tu e Max?».

Scuote la testa. «Noi tre: tu, tuo padre e io». Mi domanda se posso continuare a tenere Harry e mi conduce al piano di sopra, di nuovo nella stanza degli ospiti. Mi spiega che la sera prima ha trovato un’altra scatola di ricordi. Mi siedo sul letto mentre mi mostra un vecchio album di fotografie. Gli scatti hanno solo tredici o quattordici anni, ma sembrano appartenere a un’epoca lontana. I bordi sono consunti e polverosi – ma non è solo questo. I vestiti sono troppo vivaci e ampi rispetto alla moda odierna, e i loghi delle marche sembrano dozzinali rispetto a quelli raffinati che adornano gli abiti nelle vetrine del centro.

Ogni foto ha una storia, e la mamma sembra felice di raccontarmela: la prima volta che il papà ha cambiato un pannolino, la prima gita al mare, allo zoo…

C’è uno scatto in particolare su cui si sofferma. Passa le dita sulla stampa, come a voler rendere il ricordo più nitido. Il papà è una persona decisamente diversa da quella che ho conosciuto in quella casa squallida. È alto e abbronzato, con gli zigomi pronunciati. Bello, a detta di tutti.

«Ti portava sempre sulle spalle», spiega la mamma, indicando la bambina che si regge al collo del padre.

«Eravamo a Blackpool quando è stata scattata», aggiunge. «L’estate prima della tua scomparsa. Abbiamo affittato una villetta sulla costa e tutti i giorni facevamo il lungomare a piedi, avanti e indietro. Ti portava per l’intero tragitto sulle spalle, e al ritorno compravamo le patatine. La nostra prima vacanza in famiglia». Si zittisce per un attimo, poi conclude: «E anche l’ultima».

Chiude la copertina dell’album e lo ripone in uno degli scatoloni che ha recuperato nel solaio. L’incantesimo si è rotto, e Harry sta cominciando a essere più pesante. La mamma dice che possiamo rimetterlo nella culla. Torniamo al piano di sotto e faccio una fatica enorme per adagiarlo sul materassino. Si gira su stesso, con gli occhi ancora chiusi, quando la mamma lo copre. Poi mi asciuga la maglietta, pulendo il più della saliva ormai secca.

«Ti rassegni a lavare i vestiti tutti i giorni finché i tuoi figli non hanno quattro anni», commenta.

Ci sediamo sul divano e per un paio di minuti restiamo in silenzio. La mamma guarda nervosamente la culla ma Harry non dà segno di svegliarsi. Non è facile conversare, perché abbiamo un unico argomento da affrontare: noi. Non riesco a immaginare noi due che chiacchieriamo in tono leggero come faccio con Nattie.

Solo in questo momento mi balza in mente che così è come dovrebbe essere un rapporto tra madre e figlia. Nonostante gli anni di lontananza, è normale che ci siano segreti e cose da non condividere. Forse ci comporteremmo allo stesso modo anche se non avessimo trascorso quegli anni separate.

Le madri e le figlie che giocano a fare le sorelle sono l’eccezione. L’eccezione strana. Madri che dovrebbero essere più sagge ma si rifiutano di crescere, e figlie che non riescono a trovare amiche della propria età. Deve essere una prerogativa femminile. È pieno di padri immaturi – ma nessuno di quelli che ho conosciuto esce con i propri figli come se fossero fratelli.

«Ti ricordi di quel giorno?», domando.

Non ho bisogno di specificare quale, perché ce n’è uno solo. “Il Giorno”. Quello in cui tutto è cambiato.

Risponde dopo qualche istante. Fissa lontano, nel vuoto, come a rievocare quel momento. «Ero al lavoro», dice. «Facevo qualche ora part-time in un supermercato; ero alla cassa, quando il manager è arrivato e mi ha avvisata che c’era una telefonata per me. Era la prima volta che succedeva una cosa simile, i telefoni cellulari non esistevano ancora. Non ho capito bene cosa stesse accadendo. Quando sono andata nello spogliatoio, ci ho trovato Dan: mi ha detto che eri scappata dal giardino e non riusciva a trovarti».

Stringe i pugni e tutto il suo corpo si irrigidisce.

«Mi ricordo di essermi sentita stordita. Come se avessi un formicolio ovunque. Per un attimo ho pensato che fosse un sogno. Quelle cose potevano succedere solo ad altre persone. Non rammento cosa ho detto a tuo padre o al mio capo – ho un vuoto. Non ricordo neanche di essere tornata a casa in macchina, ma devo averlo fatto. La prima immagine che ho in mente è io in casa e auto della polizia ovunque. I vicini sono tutti in strada. Quello è stato il momento orribile in cui ho capito che era successo qualcosa di molto grave. Quando ho compreso che non eri in casa e ho intuito che non ti avrei più rivista».

All’improvviso parla molto velocemente; le sue mani tremano.

«Tuo padre era all’esterno con uno degli agenti di polizia; mi ricordo che qualcuno raccontava che lui era dentro a guardare la partita quando sei sparita. Il poliziotto chiedeva a Dan: “Era in casa?” – quel genere di cose. Dopo, è tutto nitido nella mia testa. Ricordo ogni cosa ancora adesso. Perfettamente. Ho iniziato a inveire contro di lui di fronte a tutti, chiedendo come avesse potuto farlo. Come aveva potuto lasciarti da sola? Come aveva potuto scegliere il calcio e non sua figlia? Gli agenti hanno provato a farci rientrare all’interno perché si era formato un capannello, ma era troppo tardi ormai».

Si ferma per respirare – del resto, sta parlando così in fretta. Poi ricomincia, più calma.

«Il fatto è che, anche se tu fossi tornata a casa allora – se ti fossi allontanata per giocare a nascondino, o qualcosa del genere –, credo che il nostro matrimonio sia finito in quei pochi secondi. Sono stata io e non ho potuto evitarlo: avevo bisogno di dare la colpa a qualcuno».

Le prendo la mano e, per la prima volta, mi sembra di essere un vero e proprio fardello, di costringerla a rivangare cose che sarebbe meglio non ricordare. La mamma mi stringe le dita e si scusa, sebbene non ne avesse motivo.

«Lui non è stato un rimpiazzo…».

Impiego un attimo per capire a chi si riferisca: la mamma sta guardando verso la culla di Harry.

«Non mi è mai venuto in mente».

Non sono sicura che abbia sentito, perché sta continuando a parlare: «Non ho mai smesso di sperare che tu tornassi. Sei stata dichiarata morta, ma ho continuato a sognare». Si ferma per passarsi la lingua sulle labbra. Un silenzio malinconico cala nella stanza, ma non saprei cosa aggiungere alle sue parole.

«Sei riuscita a fare qualcosa, poi?», continua, dopo un po’.

«Tipo?»

«Guidare? Trovare un lavoro, cose così».

«Ho un numero di previdenza sociale grazie all’altra famiglia – e i documenti di base, compreso il certificato di nascita. Ho sempre pensato che appartenessero a una persona deceduta. Non ho mai voluto fare troppe domande, perché tutto ha cominciato ad avere un senso solo di recente. Non sono ancora abituata a sentirmi chiamare Olivia».

«Olivia», ripete la mamma. Sorride come se ci fosse dell’ironia. In un certo senso, credo che sia così.

«È bello sentirtelo dire», le rispondo – ed è vero.

«Come ti chiamavano? Karen?»

«Qualcosa del genere».

Si incupisce per un momento, ma non insiste. Per molti versi, non ha più alcuna importanza.

Veniamo interrotte dal rumore della porta d’ingresso che si apre. La mamma scatta in piedi e si affretta fuori dalla stanza. Nell’ingresso, una coppia di voci maschili viene zittita subito. Ritorna da sola poco dopo, sbircia brevemente nella culla di Harry e poi si rimette a sedere sul divano.

«Sono così rumorosi», sussurra.

«Max e Ashley?».

Annuisce e poi mi tocca la coscia. «Hai poi deciso se rimanere in paese o…».

«Non ancora. È troppo presto. Ma mi piace ascoltare le storie su te e papà».

Mi alzo dal divano e mi metto in punta di piedi per poter guardare Harry senza avvicinarmi. Si sta ancora succhiando il pollice, ha gli occhi chiusi, il suo petto si alza e riabbassa con la più grande serenità.

«Ora vado», le dico.

«Vuoi prendere un caffè, domani? Possiamo incontrarci al bar».

Rispondo che è un’ottima idea; le manderò un messaggio con l’ora quando avrò capito quali sono i miei impegni. Ci abbracciamo di nuovo e, quando provo a liberarmi, lei mi stringe per qualche secondo in più. Le sue labbra sono schiuse, non appena ci separiamo, sembra che voglia dire qualcosa. Esita per un istante, ma anche se avesse voluto parlare, il momento è interrotto da un vagito di Harry. La rassicuro dicendole che non c’è bisogno che mi accompagni all’uscita e imbocco il corridoio per raggiungere la porta.

È allora che scopro Ashley intento a frugare nella mia borsa.