Capitolo trentatré
Non sarà Ashley Pitman, ma ci va molto vicino.
Max ha la torcia in una mano e un enorme coltello da caccia nell’altra. Il nero dei suoi capelli ha una venatura blu alla luce della luna, e lui stesso sembra più robusto e forte di quanto mi ricordassi. Probabilmente, è sempre stato così, ma accanto al fratello sembrava più piccolo.
Dietro di lui si estende la ghiaia di un autoparco deserto. La luna è nascosta dalle chiome degli alberi che ci circondano e che lasciano filtrare solo un bagliore bluastro.
Indica il terreno. «Questa è per te».
È una pala, incrostata e arrugginita, come un attrezzo abbandonato a lungo in un cantiere.
«Cosa devo fare?».
La sua calma è inquietante. «Per ora, prendila».
«E poi?»
«Scavi. Pensavi di essere più intelligente di tutti gli altri, ti ricordi?».
Raccolgo la vanga e mi stupisco di quanto sia pesante. Il manico è spesso e massiccio, l’estremità solida e con i bordi squadrati.
«Non ci pensare neanche», afferma Max.
Ha ragione – mi ha dato qualcosa che potrebbe essere usato come un’arma, ma solo perché ha entrambe le mani occupate dalla torcia e dal coltello. Potrebbe arrivare il momento di usarla – ma non ora. Non finché è attento.
«Dove stiamo andando?», chiedo.
Usa il coltello per indicare un’apertura tra due grossi alberi. «C’è un sentiero lì in mezzo. Continua a camminare finché non te lo dico».
«E se non lo facessi?».
Sto tastando il terreno, cercando di non far tremare la mia voce.
Lui alza le spalle e serra il manico del coltello senza perdere il controllo. «Allora non farlo».
C’è una luce malvagia nei suoi occhi, ed è chiaro che non gli interessi quale sia la mia scelta. Potrei affrontarlo ora, badile contro pugnale – e non mi illudo di avere molte possibilità –, oppure prendere tempo per pensare a un’altra soluzione.
Volto la testa in direzione del sentiero, ma giunge un fruscio dall’altra parte del parcheggio. Max dirige il fascio di luce verso il rumore, ma lo spazio è troppo ampio e il buio troppo fitto. Per un secondo, credo che possa essere il mio momento. Potrei persino sollevare un po’ la pala – ma Max mi precede ancora. È indietreggiato fino a essere al di fuori della mia portata, e continua a voltarsi tra me e la probabile fonte del rumore.
«Un daino», esclama. «Ci sono bestie di ogni genere in questi boschi – ora cammina».
Mi colpisce la schiena con la torcia e non si ode altro rumore se non i miei piedi che strusciano sul selciato e poi tra gli alberi. Max illumina la strada davanti a me. Quando provo a gettare uno sguardo alle mie spalle, mi intima di girarmi – si tiene a debita distanza. Non posso usare la vanga. Per adesso, devo continuare.
Oltrepassiamo un cartello con scritto RIVERSWAY COUNTRY PARK – Max lo illumina con la torcia –, un posto che non ho mai sentito nominare, ma è uno scenario adatto a questo genere di eventi. A parte le famiglie in visita nel weekend, i parchi di campagna sono stati creati per appartarsi in macchina e per l’inusuale evenienza di dover sotterrare un cadavere.
Sul sentiero sono disposte piccole lastre di pietra alternate per aiutare il cammino in presenza di fango – adesso non servono, data la siccità delle ultime settimane. Tengo gli occhi aperti: potrei imbattermi in un oggetto che potrebbe rivelarsi utile, anche se Max si tiene sempre a qualche passo di distanza da me.
Gli alberi ci avvolgono, inghiottendo velocemente il bagliore lunare, e l’unica luce è quella del fascio tremolante della torcia. Riesco a sentirlo camminare dietro di me, mantenendo il mio ritmo. Non sembra avvicinarsi mai, ma la sua presenza è costante.
Dopo qualche minuto raggiungiamo un bivio. Non ci sono cartelli, ma Max urla: «Destra!» e faccio come mi viene detto. La pala comincia a sembrare più pesante tra le mie mani: mi chiedo se riuscirei a voltarmi, scagliarla contro Max e fuggire correndo. Lo precedo di un po’ e potrei guadagnare una manciata di secondi di vantaggio. Il problema più ovvio è che non ho idea di dove siamo. Se seguo il sentiero, il vantaggio è suo; se non lo faccio, rischio di perdermi nella foresta. Rami e tronchi che si estendono su entrambi i lati del percorso. Alla luce del giorno, non sarebbe difficile inciampare; di notte, sarei fortunata se rimanessi in piedi per più di due minuti.
«Perché lo stai facendo?».
Provo a mostrarmi vulnerabile: sono una ragazza di diciannove anni, debole e indifesa.
«Sta’ zitta».
«Pensi che la mamma desidererebbe una cosa del genere?»
«Taci e continua a camminare».
«Non dirò niente a nessuno se mi lascerai andare. Faremo finta che non sia mai successo niente».
Una pausa. Per una frazione di secondo penso che stia prendendo in considerazione quell’eventualità.
«Devo veramente farlo qui, o vuoi stare zitta?», dice poi, sfinito.
Smetto di parlare. La foresta è incredibilmente rumorosa. Sento i fruscii degli animali notturni che si muovono in cerca di cibo. Max ha citato un daino e, chissà, magari accadrà un miracolo e ne apparirà un altro dal nulla, facendolo spaventare e permettendomi di scappare.
Snap!
Mi immobilizzo, poi mi giro verso il suono proveniente dalle mie spalle. Anche Max l’ha sentito. Sta guardando dietro di sé, ma si volta velocemente verso di me, mantenendo i due passi di distanza. Sembrava il rumore di un ramoscello che si spezza.
Nel momento in cui penso di scattare in avanti con la pala, Max si gira ancora, puntandomi la torcia negli occhi. Serro le palpebre, sussultando e vacillando, prima di sentire le sue mani che mi spingono avanti.
«Vai», intima. «È solo un cerbiatto».
«Non ci vedo».
«Non mi interessa. Cammina».
Mi spinge nuovamente e non ho altra scelta: continuo a barcollare lungo il sentiero. In pochi secondi i miei occhi si riabituano all’oscurità, però mi sento più disorientata di prima.
La mia mente mi inganna, lo so, ma cerco di convincermi che quel rumore non fosse solo un cerbiatto. Era un segnale d’aiuto – un salvatore che si trovava in mezzo al nulla e che ora ci segue a distanza. Il fruscio persiste, poi risuona un altro schiocco, stavolta proviene da un luogo davanti a noi.
Stringo la vanga in una mano e mi sciolgo i capelli con l’altra, infilandomi l’elastico intorno al polso.
«Cosa stai facendo?», domanda Max.
«Niente. Mi prudeva. Sto camminando».
«Va’ avanti, allora».
Raggiungiamo una panchina con due cestini dei rifiuti accanto. C’è una placca di metallo sul retro della schienale e la torcia di Max risplende luminosa contro di essa.
«Destra», esclama Max.
Mi fermo ma non mi giro. «Destra, dove?»
«Tra gli alberi».
Dirige la luce nella direzione che intende ma, anche così, sembra sinistramente buio.
«Muoviti», intima.
Ubbidisco. Mi rendo conto che siamo in mezzo al nulla. Se Max fosse preoccupato di essere visto, non userebbe la torcia. Non so dove sia il Riversway Country Park, non ho neanche idea di quali siano i paesi e le città più vicini. Il cielo è abbastanza aperto da riuscire a vedere le stelle ma le costellazioni sono un mistero per me. Sono troppo abituata a usare il mio telefono come navigatore.
Il mio telefono.
È difficile tenere la vanga solo con una mano e la faccio quasi cadere, però noto che lo smartphone non è più nella mia tasca. Max deve avermelo requisito. Non è una sorpresa, credo. Sono sul punto di avere un attacco di panico.
«Hai perso qualcosa?».
Max è proprio come suo fratello quando si autocompiace.
C’è un altro schiocco dietro di noi, ma stavolta non ci giriamo. È solo un rumore in mezzo a migliaia di altri. Daini, scoiattoli, ratti e quei gatti giganti, tipo leopardi, che le persone vedono sempre ma di cui non riescono mai a scattare una foto.
Max tiene la luce puntata sul sentiero davanti a me – scappare senza una sorgente luminosa sarebbe una pazzia. Troppo buio, troppi ostacoli.
Ho perso la cognizione del tempo, non solo da quando ero nel vicolo, ma da quando la macchina si è fermata. Potrei aver camminato per cinque minuti o mezz’ora. Niente mi sorprenderebbe.
Proseguiamo ancora un po’, più lentamente, ora che calpestiamo il ruvido tappeto di piante ed erbacce. All’improvviso, Max urla: «Stop!» e mi fermo. La luce oscilla a destra e a sinistra. Dovremmo essere in una specie di radura. Il muschio è più fitto e tutta l’area è ricoperta da trifoglio.
«Non ti muovere».
La torcia si allontana per poi fermarsi, presumibilmente, dietro di me, finché non riappare al mio fianco.
«Cosa stai cercando?», domando.
«Taci».
La luce percorre un altro arco orizzontale e si blocca su una roccia sporgente alla mia sinistra. Il terreno degrada in una conca poco profonda e il muschio è leggermente meno fitto che nell’area circostante.
«Lì», ordina Max.
Provo a girarmi: lui è ancora più lontano di quanto pensassi, almeno cinque o sei passi. Riesco a scorgere soltanto la sua silhouette.
«Cosa?», domando.
«Ci sono delle ossa sepolte lì».
Mi volto per concentrarmi sulla sporgenza, chiedendomi se darà altre spiegazioni. Ossa.
«È questo il motivo per cui mi hai dato la vanga?». Provo a mostrarmi sicura, ma la mia voce esita. Non riesco a evitarlo.
«Sei intelligente, allora», commenta.
«Perché vuoi che disseppellisca delle ossa?».
Fa una pausa; la luce traballa un po’ mentre inspira. «Non devi scavare. Davvero. Sono solo venuto qui di persona per controllare».
«Controllare cosa?».
Altro silenzio. Più lungo stavolta. «So che non sei Olivia Adams».
Riesco a percepire il suo sguardo su di me attraverso l’oscurità – poi diventa ovvio. Ha sempre saputo tutto. Abbiamo portato avanti il nostro gioco, ma ci sono solo due persone al mondo che possono sapere con sicurezza che non sono Olivia.
Io… e il suo assassino.