La pioggia nel pineto

 

Sono le due. Anzi, le due e tre minuti, e il Campioncino è in ritardo. È vero che per ora può sempre essere una questione di orologi diversi, il suo magari segna le due e questo qua in negozio tre minuti in più, ma io sono qui e mi baso su quel che vedo, e io in questa storia delle lezioni sono il maestro e il capo, quindi la mia ora è quella ufficiale. Il Campioncino mi sta dando un altro motivo per essere spietato.

Devo ammettere che sono agitato, un po’. Anzi, senza un po’, sono agitato e basta. Sono cinque mesi che sento parlare di questo rompicazzo arrivato dal Molise: tutti lo salutano e lo ringraziano e lo abbracciano e io sono l’unico che non ci ha parlato mai. Il babbo praticamente non ha altri argomenti, ma anche i clienti qua in negozio, i giornali, la gente per la strada. Tutti a parlare del Campioncino e della grande opportunità per il nostro paese.

Perché a Muglione non sono nati personaggi importanti, non ci sono vissuti e nemmeno passati per sbaglio. Non abbiamo terme o marginette miracolose, nessun tesoro storico e nessuna risorsa che non abbiamo saputo sfruttare. A Muglione non c’è nulla, a parte i fossi, lo stradone e i campi piatti coltivati a stecchi. E noi, ecco, e noi. E allora il Campioncino è un regalo del cielo dopo tanti anni di bocconi amari e umiliazioni davanti agli altri paesi della piana.

Perignano la città del mobile, Casciana con le terme, Palaia che da sottoterra gli schizzano fuori reperti archeologici a tutto spiano. E Peccioli, Peccioli è la nemica numero uno. Una volta era un buco peggio di noi, poi hanno tirato su quell’inceneritore supermoderno e è diventata Hollywood. Teatri, festival, vip, niente tasse, niente bollette. E Muglione è rimasta a guardare.

Ecco perché la storia del supercampione di ciclismo li fa sognare un sacco, questi idioti. Adesso il nome di Muglione si può leggere sulle pagine sportive locali, e più il Campioncino cresce e più crescerà la fama del paese. Bisogna tenercelo stretto, costruire una società sportiva adeguata ogni volta che cambia categoria, su su fino al professionismo, al Giro, al Tour de France, al Mondiale.

Muglione campione del mondo!, ho sentito una volta il signor Bindi che lo diceva mentre alzava la serranda della macelleria. E il brutto è che non parlava a nessuno, era lì tutto solo che tirava su la serranda. Muglione campione del mon...

Ma eccolo qui, il futuro campione del mondo.

È davanti all’ingresso. C’è scritto CHIUSO e allora non apre, si accosta le mani agli occhi e guarda dentro. Gli faccio segno di entrare ma non sa come fare.

«Basta che spingi la porta!»

La studia, guarda di nuovo dentro, niente.

«Spingi!»

Finalmente allunga una mano e la porta si apre. Il campanello fa dlin e lo spaventa. Poi entra. La porta si richiude e siamo soli, io e lui. Silenzio.

Dico: «Cinque minuti di ritardo. Non male come inizio». Preparo il braccio destro per la stretta di mano, e non riesco a frenare un ghigno satanico. Perché la stretta di mano è il momento più imbarazzante del mondo, quando uno dei due la mano non ce l’ha. L’altro ti sorride tranquillo e stende il braccio, non sente la stretta e allora abbassa gli occhi per vedere che succede, e scopre che tu non hai una mano da stringere. Non sa che fare, cosa può fare? Ormai la sua mano è lì tesa e pronta, ritirarla non si può, sarebbe troppo imbarazzante: l’unica cosa è restare con la mano tesa nel nulla e sperare di morire il prima possibile.

Insomma, un impiccio serio, ma per evitare il tutto basta allungare subito la mano sinistra come faccio io, e prendere al volo la destra di chi ti presentano. Lui lì per lì non capisce, ma la stringe uguale e tutto è risolto.

Stavolta però, col Campioncino, non voglio risolvere nulla. Anzi. Già me lo vedo che fa un passo in avanti e allunga il braccio e poi resta così, mortificato davanti a me.

«Piacere» dico, e mi sporgo da dietro il bancone. «Piacere.»

E lui nulla, viene un po’ avanti ma tiene le braccia dietro la schiena.

«Piacere, mi chiamo Fiorenzo», e muovo il braccio, però tenendolo ancora nascosto. Più di così non so che fare. Il problema è che lui non fa nulla, accenna un mezzo inchino con gli occhi bassi e resta così. Figlio di puttana.

«Dài, siediti», mi rimetto a sedere dietro al banco. C’è uno sgabello là nell’angolo, davanti alle sacche portacanna. Lui dopo un po’ lo vede, ci va e si siede.

«Ma non lì, portalo qua! Dài, veloce, che non ho tempo da perdere.»

Sposta lo sgabello strusciandolo per terra, lo scricchiolio mi fa male ai denti.

«Allora, so che a scuola vai male in tutte le materie, giusto?»

Lui fa di sì tutto attento, non apre bocca.

«Oh, ma sei muto? Ti ho chiesto se è giusto.»

«Sì Signore» dice. Mi ha chiamato Signore. Con una voce da uccellino caduto per terra dal nido, e intorno gatti e cani e falciatrici.

«Io però matematica e scienze non te le spiego, ok? Mi fanno schifo.»

«Con quelle non ho problemi Signore.»

«In che senso.»

«I professori sono tifosi, lascio i compiti in bianco e mi danno 6 lo stesso.»

«Ah. Ok. Ben per te bimbo. Ben per te.»

Ma che schifo. Paese di merda. Un professore manda a puttane la sua serietà perché uno va veloce in bicicletta. Come i vigili, che da quando è arrivato questo Campioncino maledetto il babbo non ha più preso una multa. Prima era tutto un eccesso di velocità un passaggio col rosso una sosta in zona chiusa al traffico. Ora gli basta dire che andava a prendere una cosa per Mirko e la strada non ha più leggi.

«E il prof di italiano invece?»

«È una donna Signore. E lei no.»

«Non gli garba il ciclismo?»

«Dice che lo sport è l’oppio dei popoli.»

Il Campioncino mentre parla intreccia le dita e respira male, e non gli riesce di stare sullo sgabello. L’ho sempre evitato come la lebbra e così da vicino non l’avevo visto mai. Ha la pelle bianca con certe macchie rosse pallide, questa testa enorme piena di riccioli scuri che sembrano moquette da buttare via, gli occhi piccoli e il naso lungo a punta e una bocca minuscola piazzata un po’ troppo a destra sul muso. Insomma, al di là del fatto che lo odio e sto parlando del mio nemico numero uno... madonna che schifezza.

Continuo a fissarlo e lui butta gli occhi al pavimento. Si aggiusta un’altra volta col culo sul sedile, ha un sacchetto di plastica che gli pende dal braccio e gli sta segando la carne. Mi sento scomodo per lui.

«Ma che c’hai lì dentro?»

«Dove.»

«Nel sacchetto.»

«Ah. Il libro.»

«E penna e quaderno non ce l’hai?»

«Sì, libro e penna e quaderno.»

«E allora tirali fuori, che aspetti? Veloce!»

Gli ci vuole un minuto per togliersi il sacchetto dal braccio, poi gli cade la penna, cerca di raccoglierla e quasi cade dallo sgabello. È proprio un demonio: a vederlo così, uno ci cascherebbe al volo. Ma io no, io lo so che è tutta una recita, fatta benissimo ma falsa. Questo è lo stesso bastardo che mi ha fregato il babbo e mi ha mandato via di casa, lo stesso bastardo che ha riportato alla luce il bicchiere di Gatto Silvestro e me l’ha sbattuto in faccia in uno dei giorni più neri della mia vita. A me non mi freghi, merda secca, tutti gli altri magari sì, ma a me non mi freghi.

«Allora bimbo, qual è il tuo punto debole.»

«...»

«Dài, dov’è che vai peggio, poesia, grammatica, ricerche...»

«I temi.»

«Ahia, i temi sono importanti. Io in quelli sono bravissimo, però ti posso spiegare poco. È tutta questione di talento, o ci nasci o nulla. E lezione?»

«Come scusi?»

«Lezione, per domani, per i prossimi giorni, ne hai?»

«Sì, La pioggia nel pineto

«Oh, ecco. Sveglia però, ti devo chiedere tutto io? Allora per oggi facciamo quello. La pioggia nel pineto. D’Annunzio» dico. «Bella stronzata.»

E gli occhi del Campioncino schizzano sui miei, poi tutto intorno. È spaventato. Come se D’Annunzio fosse qui in negozio, magari a scegliere una pastura per i pesci gatto, e potesse sentirci.

«Be’, che c’è? Dài, vai alla pagina, la trovi o no? Facciamo di corsa che è veramente una poesia schifosa. Perché vi fanno studiare questa merda non lo so.»

Che cazzata La pioggia nel pineto. Il mio piano era insegnare al Campioncino una serie di cose assurde e offensive, così lui le ridiceva a scuola e la prof si incazzava e addio terza media. Ma visto l’argomento non mi devo inventare nulla. Basta che dico quello che penso.

«Allora, intanto, che ne sai di questa poesia. Sai già qualcosa o è buio totale?» Il Campioncino per la prima volta storce la bocca tipo sorriso.

«Che c’è da ridere.»

«Nulla, scusi.»

«E allora che ridi.»

«Mi ha fatto ridere lei.»

«Ridi di me?»

«No, quella cosa, buio totale. È bella come frase.»

«Si dice espressione. È bella come espressione» dico, e in testa mi ripeto non farti fregare, non farti fregare... «Ma insomma, cosa sai della

Pioggia nel pineto

«Che è una poesia.»

«Grazie al cazzo, e poi? Di che parla.»

«Di un signore in un bosco, con una signora.»

«E che succede?»

«Piove.»

«Sì, piove. E la pioggia fa una specie di musica nel bosco, chiaro?»

«Sì, un po’.»

«Un po’? Cos’è che non è chiaro.»

«Dico, ma se piove che ci vanno a fare nel bosco?»

«A parte che non è un bosco, è una pineta. E poi magari c’erano andati prima che veniva il brutto tempo. D’Annunzio era uno che girava un sacco nei boschi, tutto nudo.»

«Nudo?»

«Sì, anche lei era nuda, che ti credi.»

«Ma... e se li vedevano?»

«Capirai, D’Annunzio era un porco, faceva le orge. Lo sai cosa sono le orge?»

«Non tanto bene.»

«Sono tanta gente che fa sesso tutta insieme.»

Lo scemo non dice nulla, resta serio con gli occhi sbarrati, così spalancati che posso vedergli il cervello. E il suo cervello ora è intasato di gente tutta avvinghiata che suda e si agita e chissà cos’altro. Parlare di sesso con qualcuno che ne sa meno di me è una cosa che mi capita poche volte, mi fa sentire bene.

«Ma questa cosa delle orge gliela posso dire alla professoressa?»

«Scherzi? Gliela devi dire.»

«Perché io un po’ mi vergogno.»

«E di che ti vergogni, è la verità! E poi la devi dire per forza, cioè, la storia della Pioggia nel pineto è quella, sono lui e lei che vanno nella pineta per fare del sesso, però comincia a piovere e lei vuole ritornare a casa, e lui allora comincia tutta una tirata sulla musica della pioggia e gli animaletti felici e che lei è come una ninfa sacra, così spera che lei gliela dà lo stesso.»

«Una ninfa?»

«Sì, le ninfe erano delle dee che stavano nei boschi. Ma non sai un cazzo! E lui non glielo dice a caso che è una ninfa, cioè, è un po’ come dire che è ninfomane, capito?»

«Non tanto.»

«Fa niente, l’importante è che queste cose le dici alla prof. Non ti serve altro.»

Il Campioncino fa di sì con la testa, poi prende la penna e si segna NINFOMANE sul foglio bianco. Lo rilegge, dall’espressione sembra che non l’abbia nemmeno scritto lui.

«La professoressa queste cose non ce le ha dette mai.»

«Ma cosa vuoi che ne sappia! I professori delle medie sono delle merde, volevano insegnare al liceo e non ce l’hanno fatta. E quelli del liceo uguale perché volevano insegnare all’università. È tutta una catena di sfigati, e su chi si sfogano secondo te?»

Il Campioncino mi guarda, poi alza un dito dal libro e si indica il petto da sé.

«Bravo, hai capito. Ma se te all’interrogazione dici queste cose qui, fai vedere che hai approfondito da solo e prendi un voto alto, capito? E poi se non ci credi prova a leggere un pezzo a caso, ecco, dove ti pare.»

«Leggo?»

«Sì.»

«Qui?»

«È uguale.»

«Qui va bene?»

«Sì, cazzo, leggi!»

«Piove su i mirti divini, su le ginestre fulgenti di fiori... accolti, su i ginepri folti di... coccole? Coccole aulenti, piove su i nostri volti silvani, piove su le nostre mani ignude... su i nostri vestit... vestimenti leggieri, su i freschi pensieri che l’anima sch...»

«Ecco, basta così. L’hai capita?»

«Un po’.»

«Un po’ quanto.»

«Mi sa nulla Signore.»

«Ecco, infatti. Secondo te è uno che dice cose normali? No, questo è uno che prova a intortare una donna, capito?»

«Sì. Però...»

«Però cosa.»

«No, nulla, scusi.»

«No, dimmi, sono curioso.»

«Cioè, qui dice che hanno dei vestimenti.»

«E allora?»

«Ma non erano nudi?»

«E vabbè, vestimenti leggeri, tipo un velo, un pareo. Se vedi una donna nuda per la strada, però con un velo addosso, non ti sembra nuda lo stesso?»

«Sì.»

«E non ti giri a guardarla?»

«Forse sì.»

«Ecco, vedi? E allora prima di dire le cose pensaci.»

«Sì...»

«Ecco, esatto,

E nessuno dice altro. Lui disegna una freccia accanto ai versi che ha letto, ci scrive INTORTARE, poi mi guarda. E io non so più cosa dire. Solo silenzio e fuori una macchina che passa ogni tanto. L’ho fatto venire alle due perché alle tre e mezzo si apre. Sono le due e un quarto e per me siamo a posto così.

«Via, direi che per oggi può bastare, no?»

Lui mi guarda, non dice nulla, ma quel muso non è un sì. In effetti è arrivato adesso, però io non so cos’altro dire. E poi quello che mi interessava l’ho fatto, se lo interrogano è spacciato. Per me basta così.

«Ecco, allora puoi andare, ci vediamo.» Incrocio le braccia, lo fisso serio. Lui chiude il libro, ci mette sopra il quaderno. «Però Signore...»

«Però cosa.»

«Cioè, io... il mio problema sono i temi Signore.»

«E allora?»

«Ho un tema da consegnare per domani l’altro.»

«E lo vuoi fare ora? Oh, non esageriamo. Oggi s’è fatto poesia, il tema si rifà.»

«Ma io l’ho già fatto.»

«E allora che cazzo vuoi.»

«Magari se lo legge mi può correggere qualche...»

«Ora non ho tempo. Sai cosa, lasciamelo qui, lo leggo quando mi va, ok?»

Il pollo prende due fogli da dentro il libro di italiano e me li dà. «Grazie» dice pure.

E mi saluta con una smorfia storta del labbro, si gira, gli ci vuole un po’ per capire dov’è l’uscita, anche se sta proprio lì davanti. E devo dire che come attore è bravo da morire, perché a guardarlo così ti viene proprio da pensare che questo bimbo è il coglione più coglione del pianeta.

Invece di andarsene si volta ancora. «Signore...»

«Che altro vuoi.»

«Io... io qui avrei tutti i temi di quest’anno.»

«Ah, e che ci fai.»

«Per lei, per farglieli leggere.»

«E cosa li leggo a fare?»

«Cioè, se mi vuole aiutare, ecco, così forse è più facile.»

«Facile un cazzo, io mica posso passare le giornate a leggere i tuoi pensierini, io c’ho un sacco da fare. Come ti vengono certe idee?»

«Non so, io... veramente, io pensavo che lei mi poteva aiutare.»

«Ascolta, una cosa è una lezione ogni tanto, ma che poi mi devo leggere tutte le tue cazzate, quello te lo scordi.»

«...»

«Bene, e allora adesso vai, camminare, pedalare.»

Il Campioncino fa di sì e la faccia gli diventa tutta triste, molto più di prima. Sembra pure più piccolo, quasi gobbo, e già di base non è che sia proprio uno splendore. E forse un pochino, ma un pochino appena, mi dispiace.

«Via, lasciali lì su quel pianale.»

«Che cosa Signore?»

«I temi, no? E cosa ci vuoi lasciare, i coglioni? Dài, lasciali lì e levati dal cazzo.»

Stavolta si muove veloce, li prende e li mette lì. Cioè, veloce, diciamo normale, umano, ma ormai mi stavo abituando alla sua lentezza. È un pacco di fogli alto così, tutti sparsi e spiegazzati.

Apre la porta, sta per uscire.

«Senti un po’» gli dico. «Ma il bicchiere di Gatto Silvestro?»

Siccome a me questa merda non mi frega. Glielo chiedo così, a bruciapelo, e sto attentissimo alla sua reazione: ogni piccolo movimento del viso può aiutarmi a capire cosa sa di quella storia. Perché a me non mi frega.

Ma il bastardo non muove proprio niente. «Come, scusi?»

«Te in camera usi un bicchiere.»

«Sì.»

«Un bicchiere di Gatto Silvestro.»

«Mi pare di sì.»

«Ecco, e come mai.»

«Come mai cosa Signore.»

«Come mai lo usi.»

«Non lo so, ho sete a volte.»

«Grazie al cazzo, ma come mai usi quel bicchiere lì.»

«L’ho preso in cucina.»

«Già, ma stava nel mobile, proprio in fondo, e ci sono mille bicchieri lì dentro, come mai proprio quello?»

«Perché...»

«Sì?»

«Perché mi piace Gatto Silvestro, Signore.»

E mi guarda con un muso che sembra finto. Senza la minima espressione. Come il disegno di una faccia venuto male. Anch’io provo a stare così, resettato del tutto, immobile. Una gara di nulla.

«In ogni caso, bimbo, non mi freghi. Capito?»

«...»

«Capito?»

«Io non... cioè, non ho capito in che sens...»

«Hai capito? Dimmi solo che hai capito.»

«Ma io non ho c...»

«Dimmi solo che hai capito e vaffanculo.»

Mi guarda, guarda i mulinelli cromati sull’espositore, torna a me. «Ho capito.»

«Ecco, bene, e ora fuori dalle palle.»