Come vorrei essere una rana

 

«Grazie Signore, sono tanto contento, ci speravo tantissimo che restavamo a pescare, mi ha fatto un grande regalo.» Io non l’ho fatto per lui, ma dico: «Prego».

«Secondo lei adesso abbocca un pesce? E sarà grande? Ci sono dei pesci grandi in questo fiume Signore?»

«Non è un fiume, è un fosso.»

«Ci sono dei pesci grandi in questo fosso?»

«Mah, abbastanza.»

«Qual è il più grande che ha mai preso lei nella storia della sua vita Signore?»

«Una carpa, sarà stata dodici chili.»

«Dodici chili!»

«Forse anche tredici, non l’ho pesata, non avevo portato la bilancia.»

«Non la poteva pesare a casa?»

«No, l’ho rilasciata subito.»

«Rilasciata?»

«Sì, l’ho slamata e l’ho rimessa in acqua.»

Il bimbo non dice altro. Con lui il silenzio è una roba rara, allora mi volto a controllare se sta bene e lo vedo che mi fissa in un modo che a me così non mi ha guardato mai nessuno.

Sono occhi da ammiratore, da uno che è venuto al concerto e si è fatto migliaia di chilometri per esserci e adesso è in prima fila a guardare in faccia il suo idolo. E non posso dire che mi dispiace. Vorrei conoscerla anch’io una persona da guardare così. Uno più grande che posso chiedergli un sacco di cose e bermi le sue parole in questa maniera qui. Però non ce l’ho, non ce l’ho avuto mai. E il Campioncino invece sì, a quanto pare. Anche se nel suo caso questo tipo sono io. Incredibile.

Smetto di guardarlo e torno a controllare il galleggiante, ma mi rendo conto che non ha senso: non c’è l’esca, cosa vuoi che abbocchi? Recupero il filo, Mirko si alza e arriva veloce accanto a me. «Ha preso qualcosa, Signore? Ha preso qualcosa?»

Scuoto la testa e mi poso l’amo in mano. Come pensavo, nessuna esca, solo l’amo scintillante e bagnato.

«Non ci dovrebbe essere un verme all’amo, Signore?»

«Sì. O mais, o polenta. Qualcosa, insomma.»

«E come mai non c’è?»

«Mah, si vede che qualche pesce l’ha mangiato senza farsi beccare. Sono furbi.»

«Ma allora i pesci ci sono! Rimettiamo subito l’esca Signore, prendiamoli!»

Già, è una parola. Mi guardo intorno, in questa terra fangosa qualche lombrico magari lo trovo. Scommetto che qua vicino alla discarica crescono grossi e succosi. Però non piove da un pezzo e la terra è secca e dura e mi ci vorrebbe una pala per andare nel profondo. Allora strappo un pezzo di erbaccia e lo appallottolo con due dita, diventa una specie di poltiglia e la appiccico all’amo come una pallina verde. Rilancio in acqua delicato per non farla staccare, il galleggiante resta un attimo sdraiato e poi si drizza a fare il suo dovere.

«L’erba, Signore? Ci ha messo l’erba?»

«Sì. Ci sono un sacco di pesci che mangiano l’erba. La tinca, l’amur...»

«Amur?»

«È una specie di carpa, ma sembra anche un cavedano. E diventa molto grosso.» Un amur qua non l’ho mai visto, ma chi lo sa, la gente ci butta di tutto nei fossi.

Adesso c’è pure il gambero killer, che è un affare scuro e tremendo e viene dalla Louisiana. E com’è arrivato dalla Louisiana fino ai fossi di Muglione? Semplice, li aveva importati zitto zitto uno che aveva un ristorante verso Viareggio, li teneva in una grossa vasca interrata e li serviva al ristorante spacciandoli per astice. Poi non so come, credo per una piena o per il fatto che quelle belve camminano tranquille pure sulla terraferma, i gamberi killer sono finiti nel lago di Massaciuccoli, e siccome sono tremendi e devastano tutte le specie locali, da lì si sono allargati quanto gli pareva. E così anche a Muglione può capitare di ritrovarsi un gambero killer attaccato alla caviglia.

«Signore, le posso chiedere una cosa?»

«Eh.»

«Però è una cosa privata, non vorrei farla arrabbiare.»

«E allora non me la chiedere.»

«Ma io la vorrei tanto sapere.»

«Sì, ma in questo momento non ho voglia di arrabbiarmi, quindi non me la chiedere.»

«Ok» dice. Guarda il galleggiante e sta zitto. Passa un minuto, due minuti, tre...

«Va bene, hai vinto, fammi questa domanda.»

«Ma Signore, non vorrei che...»

«Fammela e basta, senza storie.»

«Va bene, sì. Le volevo chiedere... è in questo punto qui che ha perso la mano?» Dice così, giuro, e resta a fissarmi.

Come lo sa che l’ho persa sul fosso? L’ha chiesto al babbo, l’ha sentito dire, sa leggermi nel pensiero? In effetti il punto non era questo ma non siamo mica lontani. Laggiù c’è un curvone e il fosso si incontra con un altro ramo, a un chilometro e mezzo da qui, non di più. Mai abbassare la guardia con il Campioncino, mai.

«E te come cazzo lo sai.»

«Non lo so Signore, glielo chiedo.»

«Ma come cazzo lo sai.»

«Non so niente, giuro, è successo qui?»

«No, in un altro posto, un posto da un’altra parte che non c’entra nulla, contento?»

«No. Cioè, né no né sì. Era una curiosità», e continua a studiare il galleggiante. Ma a me non mi frega, il bimbo malefico. O meglio, mi frega tutte le volte, ma dopo ogni volta io dico A me non mi frega e provo a non farmi fregare più.

«Senti un po’, ma te le mie cose come cazzo le sai?»

«Non le so Signore, chiedevo solamente.»

«Non fare il furbo. Chi te l’ha detto, il babbo? E poi mi spieghi cosa te ne importa a te?»

«Niente Signore. Cioè, mi importa di lei, quindi mi importa anche delle sue cose.»

Ecco, sono queste le uscite che usa per fregarmi, e il brutto è che ci riesce. Ma io non posso essere sempre così fesso, oggi la mia dose di scemenza l’ho già bruciata tutta con Tiziana, adesso devo tenere duro.

«Bimbo, io a te ti ho capito, non mi freghi. Fai finta di non sapere nulla ma sai anche troppo. Anche la storia del bicchiere di Gatto Silvestro, io lo so che la sai...»

E questa è la cosa che mi brucia di più. Se questo ragazzino malefico è in grado di conoscere tutte le sfighe della mia vita, ecco, quella mi fa proprio andare ai matti.

Senza di quella sarei una persona migliore, credo, o almeno uno che riesce a fare una visita alla tomba di sua madre una volta ogni tanto, come non ho fatto mai in questi sedici mesi. Mai, perché ho il terrore di andare lì e abbassare la testa e sentire qualcosa, un sospiro, la voce lontana della mamma che dice Cosa hai fatto, Fiorenzo, potevo essere ancora viva, figlio mio, potevo essere ancora viva...

Mi prende un brivido che mi sposta la maglietta sulla schiena. Mi scuoto ma non passa. Provo a incazzarmi col bimbo per scaricarlo addosso a lui.

«Non fare il furbo, coglione, te sai tutto anche di Gatto Silvestro!»

«Ma cosa posso sapere, Signore? Giuro che no, giuro che no.»

«Sai tutto, e non giurare che sennò vai all’inferno.»

Il bimbo mi guarda, è serio, ma con quell’aria da bengalino sperso che ti lascia senza forze.

«Signore, allora facciamo così, me la potrebbe raccontare?»

«Che cosa?»

«La storia di Gatto Silvestro.»

«Eh? Ma che cazzo vuoi da me, sono cose mie.»

«Sì, ma se tanto la so già, ecco, che problema c’è se me la racconta un’altra volta?»

Bastardo. Dice così e poi torna a studiare il galleggiante, che se ne sta lì fermo e inutile quanto noi. Cosa vuoi che abbocchi con un po’ d’erba appiccicata all’amo?

Lo guardo anch’io, e penso al fondo del fosso e alla melma e all’acciaio luccicante dell’amo in tutto quello scuro.

E quasi senza pensarci, incredibilmente comincio a snocciolare la storia del bicchiere maledetto. Che non l’ho mai raccontata a nessuno, me la tengo dentro da un sacco di tempo e coi mesi gonfia e gonfia e ho paura che se non la tiro fuori mi scoppia nel cuore e muoio.

E poi Mirko la sa già benissimo, cosa cambia se gliela ridico?

«Era l’anno scorso, e... oh, Campioncino, questa storia parla anche di seghe, non ti scandalizzi mica, no? Te le fai le seghe, spero.» Il bimbo non risponde, fissa il galleggiante e fa una faccia strana.

«Oh, te le fai o no?»

«...»

«Dài, te le fai, giusto?»

«Qualcosina», e gli parte una serie di tic assurdi alla bocca e agli occhi.

«Oh, ecco, che c’è di male? Ce le facciamo tutti. Io ora me ne faccio meno perché ho una donna, una gran fica che ci vado a letto, però io sono un’eccezione.»

O meglio, ero un’eccezione, ma sono tornato veloce alle regole della sfiga. Rivedo Tiziana nuda sotto di me e la faccia che faceva in quei momenti. Era splendida, ma già ci ripenso come a un ricordo lontano, e ho paura che dal ricordo passerà presto al sogno, a qualcosa di immaginario e impossibile. È successo davvero? Mi ricordo le sensazioni, gli odori, ma tutto è confuso e distorto. Ora l’unica cosa vera è il dolore.

«Insomma» dico, «era l’altra primavera, e non dormivo. Andavo a letto, mi facevo la sega della buonanotte e poi però restavo sveglio. Lo sai cos’è la sega della buonanotte, no?»

Mirko non toglie lo sguardo dal galleggiante, continua con quei tic assurdi e non risponde. Ma sono sicuro che sa di cosa parlo. La sega della buonanotte è un classico, è come un ponte magico che ti porta dal mondo reale a quello dei sogni. È un posto dove le tue amiche capiscono che non vogliono essere solo amiche, e la supplente nuova desidera parlarti in privato nella sala professori, o magari vai a trovare un amico ma sbagli porta e apri quella di sua sorella più grande, che è lì mezza nuda e le chiedi scusa e lei dice Figurati, mi annoio tanto, mi aiuti a slacciare il reggiseno? E insomma vai avanti con queste fantasie finché non arrivi al dunque, poi quando il dunque è passato ti ritrovi svuotato e leggero in un paese di sogno e dormire è la cosa più naturale del mondo.

«E però io dopo la sega della buonanotte non dormivo mica. E lo sai perché? Perché a quel punto dovevo uscire dal letto e andare a lavarmi, per forza mi risvegliavo. Fuori dalle coperte magari c’era freddo, l’acqua era gelida e la luce del bagno era fortissima, e quando tornavo a letto ero più sveglio che mai. E allora per risolvere ho provato con un fazzoletto di carta, ma è scomodissimo. Che poi io con una mano sola dovevo stare attento a centrarlo e a non sporcare le lenzuola e insomma diventava una specie di lavoro. E te Campione, te ci hai mai provato con un fazzoletto?»

Mirko non risponde, non mi guarda, non respira.

«Oh, allora, lo usi il fazzoletto o no?»

«Signore, scusi, ma questa storia alla fine c’entra col bicchiere di Gatto Silvestro?»

«Non fare il furbo, lo sai benissimo che c’entra. C’entra eccome. Infatti subito dopo il fazzoletto ho avuto questa idea geniale del bicchiere» lo dico e respiro forte. «Cioè, almeno mi sembrava geniale, ma sai com’è finita e quindi possiamo dire che non era geniale per niente.»

Resto zitto un momento. Penso alla mamma, al modo che aveva di sorridere quando le raccontavo qualcosa e poi a un certo punto mi fermavo perché magari mi vergognavo, oppure volevo allungare l’attesa di una notizia. Anche per cose belle, come quando tornavo da scuola e le dicevo che il prof mi aveva interrogato e lei mi chiedeva quanto avevo preso e io non rispondevo subito, ma la mamma già caricava un sorriso bello pieno perché sapeva che come minimo era un 7, e urlava E ora che fai, ti incanti? Eddài, dimmelo, non fare mica il tirchio.

Mi manca la mamma, cazzo se mi manca. E ora che mi manca anche Tiziana non è che la mamma mi manca meno. Anzi, forse di più. Una mancanza non sostituisce l’altra, c’è spazio per tutte qua dentro, non c’è limite alla tristezza.

E se penso che forse la mamma poteva essere ancora viva, senza quel bicchiere di Gatto Silvestro... poteva? No, sì, boh, giuro che non lo so.

«Signore, ma allora se ho capito bene il bicchiere di Gatto Silvestro lo usava per...»

«Sì, hai capito bene, bravo, 10 e lode. L’ho provato al posto del fazzoletto e funzionava da dio. Un lavoro pulito e perfetto. Solo che dopo, ecco, se dovevo alzarmi e andare in bagno a svuotarlo il problema non cambiava. E allora sai che ho fatto? Ma sì che lo sai, te sai tutto, dimmelo te cosa ho fatto.»

«Ma io non...»

«Dài, sennò non vado avanti.»

«Ha lasciato il bicchiere così e si è addormentato?»

«Esatto. Vedi che lo sai. L’ho posato sotto il letto, ho pensato che lo svuotavo la mattina dopo e ho dormito alla grande.»

Mi blocco. Vedo un cerchio d’acqua leggero che si allarga intorno al galleggiante. È il segno di una tocca, ma potrebbe essere qualsiasi cosa, anche un girino scemo che ha sbattuto nel sughero mentre nuotava. Oppure è la mia impressione, sono nervoso e non so cosa vedo. Questa cosa del bicchiere non l’ho mai raccontata a nessuno, questa cosa tremenda che ci penso tutti i giorni ma la so soltanto io. Io e la mamma.

«La mattina dopo però me lo sono scordato, sono andato a scuola e ho lasciato il bicchiere sotto il letto. Sono tornato dopo pranzo e in casa non mi rispondeva nessuno. Era mercoledì e il babbo era fuori con la squadra, salgo le scale e non sento nessun rumore, arrivo in camera mia e trovo la mamma stesa per terra. Con un braccio allungato, così, e accanto c’era la scopa che ci stava spazzando e vicino alla mano c’era il bicchiere di Gatto Silvestro tutto rovesciato.»

«Cioè, Signore, scusi», per la prima volta Mirko leva gli occhi dal galleggiante e mi guarda. «Ma la sua mamma è morta così?»

«No, scemo, era svenuta. Si è ripresa subito. Ha detto che aveva avuto un momento di stanchezza, è andata in bagno e si è sciacquata il viso. Io intanto sono sceso giù e ho lavato il bicchiere. E non ne abbiamo parlato più.»

«Ah, ecco, pensavo che era morta così.»

«No, era svenuta, te l’ho detto.» Guardo ancora nell’acqua, altri due cerchi intorno al galleggiante. «La mamma è morta in banca. Il giorno dopo.» Silenzio. Solo le rane. Le rane e il mio cuore.

L’ho detto. Non pensavo che l’avrei mai detto a nessuno e invece l’ho appena raccontato a un bimbo scemo e bruttissimo. Forse lo dovevo dire a Tiziana, lei avrebbe capito come mai questa storia mi ammazza di colpa. Invece il bimbo mi fissa immobile, e dagli occhi che fa è chiaro che non ha capito un cazzo.

«Signore, le chiedo scusa. Io avevo capito che la storia del bicchiere c’entrava con la cosa che sua mamma è morta. Scusi, deve essere il film dell’orrore dell’altra sera che mi ha messo delle idee strane.»

«Non dare la colpa al film, sei te che sei scemo» dico, e vorrei chiuderla così. Solo che non ci riesco, proprio non ci riesco, vado avanti. «Be’, però, ecco, un po’ c’entra, no? Cioè, potrebbe. Non pensi?»

«No Signore, secondo me no, ma mi fido di lei.»

«Ma sì che c’entra, scemo. Cioè, la mamma è morta in banca, la signora che era in fila dopo di lei l’ha vista che andava giù e amen. E qualche giorno dopo il dottore mi ha fatto questo discorso che il corpo umano è così, a volte c’è come un clic che scatta e buonanotte, senza segnali di avvertimento, non ci puoi fare nulla. E io gli ho chiesto se con qualche segnale invece si poteva fare qualcosa. E lui mi ha detto boh, sì, magari sì, e allora gli ho chiesto se uno svenimento poteva essere considerato un segnale, e lui mi ha detto che sì, certo che sì... hai capito coglione, hai capito adesso? Il segnale c’era stato, il giorno prima la mamma era svenuta davanti a me, cazzo, e io che ho fatto? Sono andato in cucina e ho sciacquato il bicchiere e ho fatto finta che non era successo niente.» Mi blocco un attimo, provo a respirare ma non ci riesco, però posso urlare:

«Hai capito coglione? Ho fatto finta che non era successo niente!».

La mia voce rimbomba tra i poggi del fosso, e per un po’ restano zitte anche le rane. Poi ripartono più contente di prima.

Dio come vorrei essere una rana anch’io. Tanto non ci perderei niente: sul fosso ci vivo lo stesso e faccio la stessa vita senza senso. Solo che loro non hanno pensieri e vanno avanti tranquille, stanno attente a gamberi killer e topi di fogna e possono dormire in pace, non sognano la loro mamma in piedi che le guarda fissa e bianca come un cadavere e coi capelli appiccicati alla fronte e un bicchiere di Gatto Silvestro in mano.

Ma perché non l’ho spaccato il bicchiere maledetto, perché non l’ho disintegrato quel giorno stesso, perché l’ho nascosto in fondo a un mobile dove questo bimbo rompicoglioni l’ha ripescato al volo?

E perché adesso questo bimbo mi guarda e gli scappa da ridere?

«Oh, figlio di puttana, che cazzo ridi?»

Scuote la testa, gli occhi spalancati, la bocca strinta.

«Cosa cazzo c’è da ridere, stronzo. Io ti butto nel fosso, sai?»

«No Signore, scusi, non rido.»

«E invece sì. Ridi.»

«No, glielo giuro sulla mia famiglia.»

«Capirai che sforzo, alla tua famiglia non gliene frega un cazzo di te!»

«Sì, ma a me mi frega di loro, quindi il giuramento vale. Ammetto che mi veniva da ridere, ma non ho riso.»

«Ma cosa cazzo ti viene da ridere in un momento così? Ti ho detto che mia mamma è morta, che forse è un po’ colpa mia, e te ridi?»

«Sì Signore, mi scusi, ma io all’inizio mi ero immaginato delle cose serie. Cioè, pensavo che la sua mamma si era piegata a prendere il bicchiere e aveva picchiato la testa e era morta così. Oppure che l’aveva scambiato per un po’ di latte e l’aveva bevuto e era morta avvelenata. O che lei era tornato a casa e l’aveva uccisa perché aveva scoperto la sua tecnica del bicchiere...»

«Che cosa? Ma te sei pazzo, te stai male bimbo, cosa cazzo ti gira nella testa? Ti rendi conto delle cazzate che dici?» Il bimbo mi guarda strano. Non è più un bengalino sperso. È serio, mi fissa dritto negli occhi, mi fa quasi paura.

«Sì Signore» dice, e pure la voce è diversa. Non trema più. Ci diamo il cambio e adesso tremo io. «Facciamo così, Signore, io mi rendo conto delle cazzate che dico, se però lei si rende conto delle cazzate che dice lei.»

«Io? Io non dico cazzate.»

«Va bene. Allora però io rido.»

«No, te non...»

«Sì, io rido Signore. Sono stufo che non posso fare mai nulla. Non posso correre, non posso pedalare, non posso nemmeno camminare bene con questa gamba qua. E lei invece può fare quello che le pare, può anche dire che sua mamma è morta per colpa sua, perché ha trovato un bicchiere che lei ci si faceva le seghe. Ecco, se non posso nemmeno ridere di questa cazzata qui allora me lo dica lei cosa posso fare...»

Niente, non può fare niente questo bimbo malefico. Anche se in un certo senso sta facendo un sacco di cose. Per esempio mi fa sentire scemo, molto scemo, più scemo di quanto mi sono mai sentito in vita mia. E sì che ultimamente ho avuto occasione di essere scemo a livelli clamorosi.

Ma adesso è diverso. Adesso sono quasi contento di sentirmi così. E allora penso che Mirko potrebbe anche ridere, ridere fortissimo e puntarmi il dito addosso mentre si spancia dalle risate. E piangere a forza di ridere, come a volte faceva la mamma quando sentiva una cosa proprio assurda. Come forse farebbe ora se potessi raccontarle questa storia.

Mi sento scemo, coglione, confuso, e forse appena un po’ leggero. Più leggero, ecco, un po’. Guardo Mirko, vorrei quasi dirgli grazie, anche se non lo farei mai. Mai.

Ma di colpo la sua faccia è cambiata un’altra volta. Non gli viene più da ridere, storce la bocca e comincia a tossire e a sputare per terra.

«Ma che cazzo fai.»

«Scusi Signore, lo so che non si dovrebbe, ma che schifo!», e sputa ancora.

«Schifo cosa?»

«Cavolo, ma io in quel bicchiere ci ho bevuto un sacco di volte, bleah

E allora adesso sono io che rido. È incredibile ma rido. «E ti lamenti? Devi essere orgoglioso che puoi bere dove vengo io! Lo devi dire in giro, è un onore che...»

Ma di colpo scattiamo tutti e due con le teste al fosso, e non c’è più posto per le parole. Il galleggiante è sparito sott’acqua così forte che fa un suono tipo sassata. Ho appena il tempo di vederlo che schizza via come una freccia, le rane scappano verso il poggio di qua e di là tentando di salvarsi.

Impugno la canna, stringo la frizione e do il colpo secco della ferrata: è come agganciare un treno in corsa. Una forza assurda, un peso tremendo, la canna si piega a ricciolo e mi porta via.

«Vieni qui, aiutami!»

Anche Mirko si aggrappa alla canna e tiriamo insieme. Tengo la cima in alto, apro la frizione del mulinello per lasciare un po’ di filo e non strappare. Ma le precauzioni da pesce grosso non hanno senso con questa cosa che c’è all’amo, è come mettersi il casco nel giorno dell’apocalisse. Questo qua è un treno, è un camion, non esistono tecniche se non stringere i denti e tirare.

«Cosa devo fare Signore, cosa devo fare!»

«Tira, Mirko, tira più che puoi!»

L’acqua si apre in due laggiù, ma non vediamo niente. Solo un’ombra gigantesca e due onde che sbattono sui poggi, il fosso che frigge, la schiuma e un vortice tremendo che gira e tira, gira e tira.

E scrac, la canna si spezza a metà come uno stuzzicadenti, si spezza il filo e forse anche qualche osso dentro di noi, mentre cadiamo di schiena sulla terra secca.

Restiamo tutti e due senza fiato, un pezzo di canna stretto in mano. Ci guardiamo un attimo, guardiamo l’acqua laggiù, ci guardiamo ancora. Stavolta nemmeno le rane hanno il coraggio di ricominciare.