Dimmi una cosa imbarazzante
Dicono che di mattina le idee sono più chiare. Ma vabbè, ne dicono tante di cazzate, una più, una meno. Come quella cosa che il sonno porta consiglio, che basta dormirci su e la mattina dopo i tuoi pensieri sono meno complicati. Già, ma se uno ha dei pensieri così complicati che non chiude occhio?
Cammino per lo stradone e ogni tanto mi gira la testa. Potrebbe essere il sonno ma anche il caldo, misti all’umido e all’odore di marmitte che c’è. E a ogni passo non so se sto per svenire o addormentarmi sul marciapiede. Fortuna che passano tutti questi tir, mi fanno dei lisci clamorosi al braccio e lo spostamento d’aria mi tiene in piedi.
Dove vado non lo so. Di sicuro non a scuola.
Stamani non posso, già avevo la testa abbastanza incasinata con la storia di Tiziana dell’Informagiovani, e ora si sono aggiunti pure i temi del Campioncino.
Sono rimasto a leggerli tutta la notte. Cioè, ci ho messo una mezz’oretta, poi però li ho riletti un po’ di volte e li sfogliavo e li rimettevo in ordine. La prima cosa che mi ha colpito è la calligrafia. Identica alla mia. Non quella di adesso, ma è proprio uguale a quando scrivevo con la destra. E anche il modo di esprimersi, ecco, identico spiccicato, impressionante.
E pure le situazioni personali sono le stesse. Questa cosa di essere solo, quelle merde a scuola e in sala giochi che ti prendono per il culo. E i problemi col sesso, e non avere nessuno per chiedere un consiglio.
Boh. Sarà una combinazione. O in qualche modo il bimbo malefico mi ha copiato. O forse è solo che ognuno nel mondo si sente così speciale e unico e incomprensibile, ma invece alla fine siamo tutti uguali e passiamo gli stessi casini e abbiamo bisogno delle stesse cose.
E la professoressa di italiano, anche lei è la stessa che avevo io alle medie. Professoressa Tecla Isola Pudda, quella nana maledetta. Noi la chiamavamo la Puddana oppure Testa di Presepe, perché aveva i capelli che sembravano una palla di muschio sulla testa. Già quando ce l’avevo io, la Puddana aveva seimila anni e passava tutta la lezione stretta al termosifone perché aveva freddo. Anche il registro lo compilava su quel termosifone, e quando ti chiamava per interrogarti facevi una sudata assurda. E poi la professoressa Tecla Pudda ci odiava tutti: diceva che eravamo degli sfacciati e degli insensibili, forse perché a lei gli era morto un figlio di sedici anni e noi eravamo sfacciati e insensibili a essere ancora vivi.
E se il Campioncino per essere promosso deve prendere 6 con la Pudda, gli prenoto subito un biglietto per il Molise. In aereo o in treno o a calci nel culo, la scelta è sua.
E in un certo senso una scelta l’ho fatta anch’io. Senza volerlo forse. Perché esco da questi pensieri, alzo la testa e mi accorgo di dove sono arrivato a forza di camminare.
Davanti all’Informagiovani.
E siccome non ho gatti da sperdere, mi sa che c’è solo un motivo per questa cosa. Che faccio, entro? Busso? È un ufficio, si bussa prima di entrare in un ufficio?
Domande sceme e con poco senso, anche perché sono già entrato. E di nuovo questo buio da tomba etrusca, con Tiziana laggiù alla scrivania. Ha in mano un libro e legge. Cioè, leggeva. Ora ha solo il libro in mano, e mi fissa. E io fisso lei.
«Ciao Tiziana.»
«Sì... oh, sì, sì, ciao», e si alza di scatto.
Mi prendo i capelli e li raccolgo dietro. Cerco di sorridere, anche se tutti i muscoli della faccia tirano dalla parte opposta. Ma il capo sono io, poche storie, si fa come comanda il sottoscritto. E un po’ alla volta il sorriso arriva.
«Ciao» ridico.
«Ciao... senti Fiorenzo, hai fatto bene a venire. Dovevo venire io. Ti chiedo scusa.»
«Di che.»
«Di tutto, scusami.»
«Ma di che.»
«Di tutto. Di... insomma, tutto. Spero di non averti offeso. Io ti giuro, non lo so cosa mi... non è da me, non è una cosa da me. E lo so che questa qui è la tipica frase che dicono le zoccole ogni volta che fanno una cosa da zoccole, ma ti giuro che io non sono così. E se ti sei sentito offeso, io ti capisco e ti chiedo scusa.»
«Macché offeso. Cioè, io non mi sento offeso zero.»
«Ah, ecco, meno male», e Tiziana sorride, più o meno. Sorrido anch’io. E ora? Silenzio.
Restare così, dritto in piedi in mezzo al nulla, mi sembra la cosa più assurda del mondo. L’altra volta ci siamo slinguati e strusciati, possibile che adesso è già tutto passato e lei mi chiede scusa e buonanotte? E certo, che mi credevo? Sono un imbecille, cosa sono venuto a fare, che idiota, mi faccio pena da solo. E intanto tengo ancora il braccio destro nella tasca dei pantaloni, ce lo affondo finché non mi fa male. Ma devo dire subito qualcosa perché questo silenzio mi ammazza.
«Sai, ho letto i temi di Mirko» dico.
«I temi? Ah sì, certo, sì. E come sono, belli?»
«Non so. Non proprio. Sono strani.»
«Ah sì?»
«Sì.»
«...»
«... E il blog, poi? Sei andata avanti con...»
«Oh no, il blog l’ho cancellato. Era una scemenza.»
«Ah. Ok. Sì, in effetti ce ne sono così tanti in giro.»
«Già.»
«E fanno quasi tutti schifo.»
«Eh sì.»
«Cioè, no, non dicevo il tuo. Non l’ho mica visto. Anzi, scusa, dopo lo guardo.»
«L’ho cancellato.»
«Ah già, me l’hai detto.»
«Eh sì.»
E anche questo filo di conversazione si esaurisce. Altro silenzio.
Allora mi viene in mente questa cosa, un trucchetto che usava la mamma quando c’era un momento di imbarazzo. Una volta è entrata in camera mia senza bussare, ma tanto non l’avrei sentita perché il volume dello stereo era agghiacciante, c’era un disco dei Megadeth e io fingevo di essere davanti a un milione di persone in un festival gigantesco, stavo in piedi sul letto e facevo finta di avere un microfono, muovevo la bocca con la canzone, incitavo il pubblico e scuotevo la testa, e lei mi ha beccato così. L’ho vista e sono schizzato giù dal letto, ho messo il volume al minimo e sono rimasto lì tutto sudato a guardarla. E la mamma era in imbarazzo più di me. Poi di colpo ha detto: «Allora, ognuno dei due dice una cosa imbarazzantissima, ok?».
«Eh?»
«Una cosa imbarazzante che ti è capitata. Tu ne dici una a me, io ne dico una a te.»
«No, dài mamma, ti prego, vai via.»
«Su, dài, non rompere. Vai con la cosa imbarazzante.»
«Ma no, non ho voglia zero, non rompere te.»
«Dilla e basta!»
«Ok, va bene, poi però te ne vai. Ho paura delle vespe. Contenta?»
«E capirai che imbarazzo.»
«Be’, pensa davanti agli altri, arriva una vespa e io devo scappare.»
«Sì, vabbè, un po’ sì.»
«Ecco, bene. E ora mamma puoi andare via per piacere?»
«E la mia cosa imbarazzante non la vuoi sapere?»
«No, non voglio.»
«Allora, la mia è che ieri sera mi sono fatta la pipì addosso.»
«...»
«Alla cena della squadra col babbo. La Teresa ha cominciato a raccontarmi una cosa che è successa a una sua amica e ci siamo messe a ridere perché faceva troppo ridere, e alla fine io le dicevo Basta, smettila che me la faccio addosso, smettila che le ma faccio addosso, lei non ha smesso e io me la sono fatta addosso.»
«Ma lì al ristorante? E dopo?»
«E dopo sono rimasta un po’ così e speravo che non si vedeva e non sapevo che fare. Poi però ho sentito la sedia che era bagnata e allora mi sono fatta dare il maglione dal babbo, quel rompipalle, che diceva Ma cosa ci fai se non te lo metti nemmeno, mi spieghi cosa ci fai. Me lo sono legato in vita e ho detto che andavo in bagno, ma invece sono corsa qui a casa.»
«Ecco perché sei tornata prima.»
«Già, per forza, mi ero fatta la pipì addosso.»
La cosa era parecchio imbarazzante, in effetti. E devo ammettere che l’imbarazzo di un secondo prima, per quel finto concerto in camera mia, un po’ era passato.
E allora adesso, con tutto questo imbarazzo tra me e Tiziana, il trucchetto della mamma potrebbe funzionare. E poi non ho niente di meglio.
«Tiziana, dimmi una cosa imbarazzante.»
«Eh?»
«Dimmi una cosa tua imbarazzante. Poi te ne dico una mia.»
«Ma perché, cosa...»
«Dài, su. Adesso siamo imbarazzati, no?»
«Be’, sì, abbastanza.»
«Ecco, allora dimmi una cosa tua imbarazzante e poi te ne dico una io, vedrai che va meglio.»
«Ma non mi sembra il...»
«Dài, su, veloce.»
«Ma ora, così, non mi viene neanche in mente.»
«E che palle, dài, una cosa imbarazzante che hai fatto.»
«E non vale quella che sappiamo tutti e due, vero?»
«No che non vale, quella la so già. Dài.»
«Vabbè. E allora ne dico un’altra. Ho sputato.»
«Eh?»
«Stamani. Venivo in ufficio e mi è entrato qualcosa in bocca mentre sbadigliavo. Non so se era polvere o un insetto. Però mi è andato in gola e mi veniva da tossire. E a un certo punto ho sputato in terra. Ma proprio uno di quegli sputi schifosi da vecchio, sai, che scatarri e poi sputi per terra. E non c’era nessuno in strada, ma proprio in quel momento con la mia solita sfiga è spuntato un signore che mi ha visto in pieno. Ho alzato gli occhi e per un attimo ci siamo guardati, mi sono sentita morire.»
Tiziana sorride, poi si mette una mano davanti al viso. È un bellissimo viso.
Lei sorride e io rido proprio, e allungo un po’ la risata perché il silenzio di prima non lo voglio sentire più.
«Oh, che ridi? Io ti dico una cosa drammatica e te ridi.»
«Vabbè, capirai che dramma.»
«Scherzi? Tutta precisa, vestita per il lavoro con la cartellina sotto il braccio e la borsetta e gli occhialini, poi una bella scaracchiata da muratore in mezzo al marciapiede. Che figura.»
Rido ancora. Stavolta anche lei.
«Ho detto basta ridere, è un dramma, capito? È una tragedia. E te?»
«E io cosa.»
«E la tua cosa imbarazzante?»
Piano piano smetto di ridere, respiro.
«Ah già» dico, e finalmente tiro fuori il braccio dalla tasca dei jeans. Glielo faccio vedere. «Ecco Tiziana, a me mi manca una mano.»