Come bengalini alla fiera
Per un po’ sono rimasto a fissare il soffitto scuro, in compagnia dei vermi che ormai sono diventati miei amici. O forse non proprio amici, diciamo di quelle conoscenze che anche se non ti fanno impazzire ti tocca averle sempre intorno, e quindi in un certo senso posso dire che i vermi sono diventati miei parenti.
Li ascolto che si dimenano e strusciano uno sull’altro nelle loro scatole, tutti nel tentativo di spostarsi dal fondo alla superficie lassù. Quelli che ci arrivano scoprono che più su di così non si va e smettono di insistere, altri gli montano addosso e in un attimo si ritrovano sotto, dove si scordano che lassù non c’era niente e allora tornano a combattere per arrivare in cima.
Me li immagino tutti scalmanati qui intorno nel buio, e insieme a loro nella testa mi girano le parole di Tiziana, tanti pensieri legati alle sue parole e altri che non c’entrano nulla e sono sempre più corti e assurdi, sempre più simili ai sogni lungo il fiume che mi prende il cervello e lo porta via con sé fino al sonno.
Il riposino pomeridiano è una cosa da vecchi che in teoria mi fa una tristezza infinita, ma oggi un’ora di sonno dopo mangiato mi sembra qualcosa di simile a un’idea. Anche perché ultimamente dormo una media di tre ore a notte, e certe cazzate che ho fatto potrei quasi considerarle colpa del sonno. Eh sì, non è che sono scemo, è solo che non dormo. Sì, certo, come no.
Alle tre però, prima di aprire il negozio, devo fare un salto al distributore della farmacia, così compro due scatole di preservativi. Se voglio infilarmeli rapido e preciso quando arriva il momento giusto, ci vuole un bel po’ di allenamento a casa da solo. La prossima volta Tiziana deve trovarmi pronto e bravo e professionale, la mia mano deve essere più veloce e l’amico qui fra le gambe deve esserlo un po’ meno.
Sempre che capiti, una prossima volta. Perché da quello che mi ha detto in ufficio non sono mica sicuro. Anzi, potrebbe anche essere che mi ha scaricato ma è stata così delicata che non me ne sono accorto. Come mia nonna Ines, che faceva le punture e la chiamava tutto il paese perché era impossibile accorgersi di quando ti infilava l’ago nella chiappa. Però se Tiziana davvero non mi vuole più rivedere io ci soffrirò un sacco, e allora forse non somiglia troppo a mia nonna.
Che è un bene, per molti aspetti.
«Io... ore... me...», sono i primi suoni che sento, i pezzetti più duri che mi si piantano in testa e piano piano riescono a farci entrare le parole intere.
«Signore, scusi, dorme?», e una mano che mi batte sul braccio.
Apro gli occhi e non c’è nessuno, poi vedo qualcosa ai piedi della branda.
«Ma che cazzo vuoi.»
«Dorme, Signore?»
«Ora no, idiota, ma prima sì.»
«Mi dispiace moltissimo, però le devo dire una cosa incredibile.»
«Non me la puoi dire dopo?»
«Ma è superincredibile.»
«Che palle», e cerco di tornare nel mondo a forza di sbadigli. Il Campioncino alza la testa piena di riccioli e mi fissa tutto emozionato. Ha delle macchie di fango addosso, rigagnoli di sudore secco sul collo.
«Signore, io oggi ho capito una cosa.»
«Ah, cazzo che notiziona, avvertiamo i giornali.»
«Sì, magari dopo però. Prima la volevo dire a lei», si tira su col busto. «Ecco, praticamente stamattina sono andato a scuola, si ricorda?»
«Vagamente.»
«Ecco, io non ci volevo andare, e infatti facevo bene a non andarci, perché tutti erano lì nel cortile e mi aspettavano per prendermi in giro. Sembrava una festa Signore, con tutta la scuola lì fuori che mi aspettava, e quando sono arrivato hanno cominciato a urlare e a farmi dei gesti brutti, col dito e col braccio e anche con...»
«Sì ok, ma stringi.»
«Sì, mi scusi Signore, anche a me non piace quando uno divaga. Per esempio con le barzellette, che magari una barzelletta sarebbe divertente ma quello che la racconta la allunga troppo e alla fine non fa ridere perché non arriva mai la...»
«Stringi, cazzo.»
«Sì, scusi. Ecco, i miei compagni mi prendevano in giro, mi urlavano che sono una schiappa e che ho fatto schifo e che alla prima corsa seria ho fatto ridere i polli, e anche frasi tipo Stavolta non avete trovato le medicine giuste, eh?»
«Bastardi. E te?»
«E io ho tenuto la testa bassa per non guardare nessuno e sono entrato.»
«Ma sei entrato lo stesso?»
«Sì Signore, ma poi dopo sono scappato.»
«Oh, hai fatto bene.»
«Vero Signore? Penso anch’io, e sono andato in cima al San Cataldo.»
«Cazzo, te quando scappi fai sul serio, eh.»
«Sì, sì, ma non è che volevo andare lì, io andavo e basta.» Il Campioncino mi fissa con quegli occhi spersi, riesco a vederli, piccoli e scuri nella penombra. «E mentre andavo sentivo tutte quelle urla sempre nella testa, e però insieme anche un brivido fortissimo che mi prendeva tutto il corpo e mi caricava, mi è venuto da stringere i pugni e anche i denti e le gambe mi stavano per scoppiare. E lì ho capito una cosa incredibile Signore, e cioè che a me perdere non mi piace mica. Signore, a me mi piace vincere!», e ha proprio la faccia di uno che ha fatto una scoperta sconvolgente.
«Grazie al cazzo, a tutti piace vincere.»
«Ah, lei lo sapeva già? Io no, glielo giuro. Però come giustificazione ho il fatto che fino a ieri io non avevo mai perso, quindi non potevo saperne tanto. Lei invece ha perso tante volte e...»
«Oh, schiappa, vaffanculo.»
«Sì, mi scusi Signore, non lo dicevo per cattiveria, pensavo fosse una cosa positiva.»
«In che modo poteva essere positiva.»
«In nessun modo, scusi, ho sbagliato. Mi perdoni ma non ragiono tanto bene oggi, sono ancora molto scosso dalla mia scoperta, sa.»
E mi guarda con quegli occhi che non puoi più mandarlo affanculo. Occhi da uccellino in vendita alle fiere, che tutta la folla lo circonda e i petardi e i bimbi con lo zucchero filato che urlano e piangono e fanno casino e i vecchi che appiccicano il muso alla gabbia e starnutiscono, e l’uccellino è lì tra le sbarre che saltella da una stecca all’altra senza via di fuga e ti guarda con quei due puntini neri sopra il becco che dicono Ti prego, comprami, mettimi in un sacchetto e portami a casa tua. Forse non duro fino a domani, forse muoio lungo la strada, ma ti prego portami via di qui.
«E vabbè» dico. «Hai capito che non ti piace perdere, e allora?»
«E allora da oggi basta. Da oggi non perdo più. Cioè, forse qualche volta può capitare, però non voglio, e se perderò non sarò contento. Non vedo l’ora che c’è la prossima gara, Signore. Voglio capire cosa si prova a vincere.»
«Mi prendi per il culo? Hai già vinto un milione di volte.»
«No Signore, mi scusi ma no. Finora io non ho vinto mai, non mi chieda in che senso ma è così.»
Stavo per chiederglielo, mi blocco. Però non so cos’altro dire. È assurdo come ha cambiato idea nel giro di mezza giornata, ma ancora più assurdo è che fino a ieri mi sarei inventato di tutto per sabotarlo (anzi, un po’ l’ho pure fatto), invece adesso che mi dice questa cosa che vuole vincere non mi fa né caldo né freddo. Anzi, è inutile raccontarmi delle cazzate, lo ascolto e sono contento. Forse per il babbo, che sennò diventa un alcolizzato e muore di stenti nel punto più fetente del fosso. Forse per la gloria di Muglione che rischiava di perdere anche questo treno verso la popolarità. Forse non lo so perché sono contento, e non me lo voglio chiedere più di tanto.
«E... Signore, visto che è sveglio, le posso anche chiedere una cosa?»
«Spara, ma veloce.»
«Come mai odiate i vecchi?»
Resto zitto, lo studio, ha sempre quell’espressione scema. «Che?»
«Ieri notte parlavate di una banda antivecchi, lei e i suoi amici, e...»
«Ma no, ti ho detto che hai capito male, si diceva tanto per dire.»
«Ma c’era anche quel pupazzo grossissimo nella macchina, cosa ci avete fatto?»
«Ma che te ne frega.»
«Non lo so, ma mi frega un sacco.»
«Che palle. Comunque era un giocattolo per il nipote di Giuliano, gliel’ha comprato per il compleanno.»
Il Campioncino fa di sì, resta un attimo in silenzio, abbassa gli occhi e parla più basso. «Signore, non voglio farla arrabbiare ma dicevate di metterlo al cimitero.»
«...»
«Mi scusi, non volevo sentire, ma il suo amico Giuliano ha la voce molto forte.»
«Vabbè, ok, l’abbiamo messo al cimitero. Vicino al cimitero. C’è un coso... una specie di cassonetto che ci puoi mettere i vestiti per i poveri... e i giocattoli anche... anzi no, non c’è nulla, l’abbiamo messo al cimitero perché ci andava di metterlo lì, ok? Sei contento così?»
Mirko aggiusta i pezzi del suo letto e ci si sdraia sopra. «No Signore, non sono molto contento.»
«Ah no? E che cazzo vuoi allora, cosa c’è che non va?»
«Nulla. Però, vede, anch’io le ho detto che non c’è motivo se uso il bicchiere di Gatto Silvestro, e mi sa che tutti e due abbiamo detto una bugia», poi si gira dall’altra parte. Il bastardo.
«Lo sapevo! Lo sapevo, cazzo!» Ora sono io che mi tiro su di scatto e mi siedo sulla branda. «Te sai tutto del bicchiere, te sai tutto! Dimmi cosa sai, merda!»
«Mi scusi Signore, ma preferirei di no.»
«Dimmi cosa sai o ti spacco la testa, stronzo!»
«No Signore, per piacere, no.»
«E allora dimmi cosa sai.»
«Facciamo così. Io le dico come mai uso il bicchiere di Gatto Silvestro e lei mi dice del pupazzo e della banda contro i vecchi.»
Lo guardo, vedo solo la schiena secca e dritta lì per terra, finisce con quella testa piena di riccioli che sembra una palla di sporco raccattata sotto a un letto.
«Ok, d’accordo. Però comincia te che io non mi fido.»
«Va bene, comincio io Signore, perché io mi fido», si gira dalla mia parte, un secondo e sta già seduto. Adesso siamo faccia a faccia, adesso basta stronzate.
«Ecco Signore, io le dico questa cosa ma non vorrei farla arrabbiare...»
«Dipende da cosa mi dici, vai avanti.»
«Dico subito che voglio bene al suo babbo. Cioè, non quanto ne voglio a lei, ma insomma gli voglio bene. A lei però di più Signore.»
«Ok, ho capito, ora però dimmi del bicchiere e basta cazzate.»
«Sì, giusto. E insomma: c’è questa cosa che fa il suo babbo, non la fa apposta, però tante volte quando mangiamo mi fa un po’ effetto. Io non sono schizzinoso, a casa mia siamo quattro fratelli e due sono più grandi di me e le giuro che a tavola fanno di tutto. Però col signor Roberto mi dà molto fastidio che quando mangiamo lui parla e mi spiega quello che devo fare nelle corse, o come ci alleniamo il giorno dopo, però ha la bocca piena e si vede tutta la roba masticata dentro. E anche quando beve è lo stesso, butta giù l’acqua e parla, poi posa il bicchiere e lì dentro nell’acqua ci restano dei pezzi di mangiare che galleggiano, io li vedo e mi viene da rimettere.»
Per tutto il racconto ho fatto di sì con la testa. Non capisco che c’entra questa cosa del babbo con il bicchiere di Gatto Silvestro, ma vediamo dove va a finire.
«Ecco, allora delle volte mi dà fastidio anche bere in un bicchiere lavato, perché penso che magari l’ha usato il signor Roberto e c’erano dentro quei pezzi di mangiare che galleggiavano. Poi un giorno ho guardato nella credenza e ho visto quel bicchiere di Gatto Silvestro laggiù in fondo. Ero sicuro che il signor Roberto non l’aveva mai usato, allora l’ho preso e ho deciso di usare solo quello, e quando la sera vado in camera me lo porto dietro per sicurezza. Ecco perché sta in camera mia, Signore.»
Che poi in realtà è camera mia, ma stavolta non lo dico. Perché non sono sicuro che la storia sia finita, anche se mi sa di sì.
«Cioè, tutto qui? È per questo che lo usi?»
«Sì Signore, perché?»
«Dici davvero o è un’altra cazzata?»
«Oh no, giuro, guardi, giuro», si mette gli indici a croce sulla bocca e li bacia. Una cosa che facevo anch’io quando ero piccolo. Adesso con un indice solo mi torna male.
«E non me lo potevi dire subito?»
«Io... avevo paura che si offendeva se dicevo che il suo babbo beve in quel modo.»
«Ma che cazzo me ne frega del babbo, lo vuoi capire che a me di lui non me ne frega un cazzo?»
«Sì, scusi Signore, me l’ha già detto. È solo che a me non mi sembra, ecco, allora non so come comportarmi.»
«Non ti sembra cosa, che non me ne frega un cazzo?»
«Sì, ecco, a me non sembra.»
«Ma che cazzo ne vuoi sapere te? Sei un bimbo, arrivi dal culo del mondo e vuoi sapere le mie cose meglio di me? Guarda che io me ne frego del babbo, io...»
«Ci credo Signore, ci credo. Le ripeto, a me non mi sembra, ma se lo dice lei è sicuramente vero. Quindi mi scusi. E mi scusi anche se la interrompo, ma sono molto curioso di sentire la storia dei vecchi e di quel pupazzo gigante. Mi scusi.»
«Io non scuso un cazzo! Te stai cominciando a fare troppo il furbo per i miei gusti. E non ti racconto niente.» Mirko abbassa la testa, mi guarda da sotto i riccioli e gli torna quello sguardo da uccello alla fiera.
«Peccato Signore, mi dispiace perché davvero mi interessava molto» dice.
E adesso capisco quale uccello precisamente mi ricorda: il bengalino. Il più piccolo di tutti, che li tengono stipati in una gabbia minuscola e sono così tanti che a ogni fiera qualcuno ci resta secco. Ce n’è sempre due o tre fermi sulla stecca più bassa, con la testina strinta nel petto e una specie di tremore addosso. Chissà dove li buttano quando muoiono. Forse li danno in pasto a qualche altro animale. Comunque in questo momento ne ho uno qua davanti, e magari è semplicemente un attore incredibile e un figlio di puttana da record, ma lo guardo e non riesco a incazzarmi, anzi succede questa cosa assurda che dal nulla la lingua mi si scioglie e le parole fanno a gara per uscire.
Così gli snocciolo tutta la storia del pupazzo al cimitero e pure del riccio e della finta banda antipensionati, e quando arrivo in fondo all’argomento non mi fermo, sono in discesa e mi guardo intorno e continuo a raccontare cose che c’entrano meno e poi altre che non c’entrano proprio niente e che non dico mai a nessuno.
Ci sono parole che ti restano dentro, piantate fonde nella pancia, e stanno lì una vita senza uscire mai. Ma sono legate fra loro con una specie di corda, e se per caso una si stacca e viene fuori dalla bocca, le altre le vanno dietro a cascata.