La favola di Vladimiro
Ospedali e cimiteri sono posti che più piccoli sono e meglio è: vuol dire che in quel paese la gente tende a non farsi tanto male e a non morire troppo spesso. Il pronto soccorso di Pisa invece è più grande di un palazzetto dello sport.
C’è un ingresso tutto trasparente che si apre da solo quando arrivi, un muro di distributori per caffè bibite e panini e una porta blu laggiù in fondo che si apre solo dall’altra parte e serve per andare negli ambulatori. Chi sta male sparisce in barella dietro quella porta, chi sta in ansia rimane in questo stanzone gigantesco a girare in tondo e scuotere la testa.
Adesso è notte e oltre a me ci sono solo cinque cinesi addormentati in un angolo, una signora sui sessanta che telefona in continuazione ma non parla mai e un tipo con le occhiaie che forse è qui solo per prendere il caffè alla macchinetta. Ma un pronto soccorso così spazioso è un brutto segno per una città.
Quando ero piccolo ogni sera il babbo mi raccontava una favola prima di dormire, è una cosa strana e se ci ripenso mi sembra impossibile, il babbo che si mette lì accanto al letto e mi racconta, eppure giuro che andava proprio così. Le persone cambiano, le persone sono meglio o peggio a seconda dei periodi, e in quel periodo il babbo si metteva vicino a me e mi raccontava questa favola a puntate dove c’era uno che si chiamava Vladimiro e andava in giro per tutto il mondo su un’asina che a volte non aveva un nome e a volte si chiamava Panizza. Ogni sera si fermava in un posto e assisteva a un’ingiustizia o a una sciagura e Vladimiro in qualche modo riusciva sempre a risolvere tutto. Poi quando il paese lo applaudiva e gli chiedeva di restare lì come un eroe, lui si guardava intorno e vedeva il cimitero e chiedeva Scusate ma quello che cos’è? Loro gli rispondevano che era il cimitero del paese, allora lui scuoteva la testa e salutava e faceva ripartire l’asina verso un altro posto più in là nel mondo. Perché Vladimiro cercava il paese dove non si muore mai.
E adesso che sono le tre di notte e sto seduto in questa sala d’aspetto gigantesca dentro un ospedale che sembra una piccola città, mi torna in mente quella storia e penso che se fossi Vladimiro ringrazierei tutti e me ne andrei all’istante.
Solo che non sono Vladimiro, e non ho nemmeno un’asina. Sono Fiorenzo e sono venuto a Pisa con lo scooter, e non me ne vado finché non so come sta Mirko.
L’ha portato qua Divo, il vecchio che una volta aggiustava i televisori. Dice che faceva una passeggiata vicino al cimitero, verso mezzanotte, e gli è sbucata fuori dal nulla una persona vestita di nero, lui aveva un bastone da passeggio e per la paura gli ha dato una bastonata, ma poi ha visto che era Mirko.
Una storia che fa acqua da tutte le parti, ma chissenefrega. Lo so da me com’è andata in realtà, forse lo so pure meglio di Divo e degli altri Guardiani che aspettano là fuori, nascosti in fondo al parcheggio sulla Fiat Panda di Mazinga. L’unica cosa che non so è cosa cazzo aveva in testa Mirko. Si è messo la mia cappa con l’ascia disegnata sopra, ha scritto ANZIANI DOVETE MORIRE su un pezzo di cartone e poi via a piedi fino al cimitero. Perché c’è andato, cosa pensava di fare? Forse quando mi lasciano andare da lui me lo spiegherà, ma non ci credo mica tanto.
Mi alzo, mi stiro, faccio due passi in tondo. Seduto non sto bene, non sto bene in piedi, sono nervoso e teso e mi sembra di affogare. E ho un sacco di buoni motivi.
In questo ospedale ci sono venuto un po’ di volte per le cure e le analisi e le solite cose, ma è soprattutto il posto dove ho scoperto che mi restava una mano sola, e poi che la mamma era morta. E quindi è normale se qua dentro mi sento come i cristiani quando li portavano al Colosseo.
Forse è meglio uscire, sì, aspetto lì fuori nel parcheggio all’aria aperta. Magari faccio due chiacchiere coi Guardiani e il tempo passa più veloce. Mi giro verso l’uscita ma vedo una mano là fuori nel buio che sventola e mi saluta. Cerco di capire chi è, stringo gli occhi, prima metto a fuoco e poi vado a fuoco: è Tiziana.
Mi pianto qui in mezzo alla sala d’aspetto e dalla testa mi partono vari missili di pensiero, ognuno sparato in una direzione diversa e lontanissima che non riesco a seguire. Posso solo stare qui e chiedermi come ha fatto a sapere di Mirko, anche se in effetti sono io che le ho mandato un messaggio.
Arriva a passo svelto giù per la discesa, ha un vestito leggero verde e i fianchi ondeggiano un sacco. È una cosa bellissima da vedere, anche in una situazione come questa, anche in un posto come questo. Anzi, il contrasto con la bruttezza intorno la esalta a livelli che sono pericolosi, almeno per me.
Ma prima che si apra la porta a vetri, si apre quella blu dall’altra parte della sala, con uno schiocco tremendo. Spunta un tizio in camice che urla:
«Fratello di Mirko Colonna, fratello di Mirko Colonna». Mi guarda e mi indica, lo guardo un attimo, sì sono io. Mi dice che posso entrare, ma da solo e anche di corsa. È maleducato e mi fa incazzare, ma quando gli passo accanto lo ringrazio lo stesso. Negli ospedali non esiste mica questa cosa che le persone hanno una dignità e ci tengono a difenderla. Negli ospedali o ti pieghi o muori. O tutte e due le cose insieme.
«Signore, mi scusi tanto, mi scusi», la voce di Mirko ha le batterie scariche e alla fine di ogni frase si smorza in un soffio. «Mi scusi tanto tanto tanto.»
«Ma che cazzo ti è venuto in mente.»
«Niente Signore, è che il vostro piano mi piaceva tanto, e non lo capivo perché stanotte non volevate fare nulla. Io pensavo che era meglio insistere tutte le sere, Signore, per fare più paura a quei pensionati maledetti.»
«E pensavi male.»
«Sì, è vero. Ora l’ho capita.»
«Sì, ma ti sei dovuto rompere una gamba per capirla.»
«Eh sì, mi sa di sì Signore, mi dispiace.»
Perché è proprio così che è andata, una bastonata secca gli ha fratturato la tibia. E ora sta qui sul lettino sotto una coperta verde e grigia, e da una parte spunta la gamba con questa roba bianca avvolta intorno che tiene fermo il punto scassato. Gli hanno messo pure una cuffia di plastica sulla testa, ma non capisco perché. Forse quei capelli riccioli e stopposi erano così inguardabili che gli infermieri hanno deciso di risolverla così. Poi mi ha fatto vedere anche un segno scuro sulla spalla, la prima bastonata che l’ha buttato a terra. Dice che gli è sembrato come se un leone gli saltava addosso nella savana, e lo dice con un sacco di soddisfazione. La possibilità che il Campioncino non finga e sia veramente un idiota mi diventa sempre più credibile giorno dopo giorno.
«Adesso perdo tutto l’allenamento, questo mi dispiace. Anche oggi avevo fatto tantissimi chilometri. Sono passato dalla sede e c’erano gli altri pronti a partire, ma il signor Roberto non è venuto.»
Lo so, lo so benissimo. Appena mi hanno chiamato dal pronto soccorso ho telefonato al babbo: saranno state le due di notte e lui ha detto che stava guardando la tv, come se non sapessi che la tv l’ha schiantata contro un muro. E poi tutte quelle voci di ranocchio in sottofondo mi dicevano che in realtà, alle due di notte, il babbo stava ancora sul fosso dietro la discarica a pescare senza esca.
«Sai, oggi è andato a pesca» dico.
«Ah sì? E ha preso qualcosa?»
«Non lo so.»
«Speriamo di sì, mi piacerebbe tanto anche a me andare a pesca... e insomma alla sede non è venuto e gli altri ragazzi sono tornati a casa. Io invece ho fatto centocinquanta chilometri.»
«Ma sei scemo, sono troppi, ti fanno male.»
«Lo so Signore, solo che mi sono detto Quando sono stanco rientro. Poi ho visto che passavano le ore e non ero stanco per niente e allora ho detto a centocinquanta mi fermo. Solo che ora perdo tutto l’allenamento, mi dispiace molto.»
Faccio di sì. Vorrei dirgli che non lo perde ma sarebbe una scemenza. Sarebbe molto più vero dirgli che non deve preoccuparsi dell’allenamento perché dopo una frattura del genere è probabile che non correrà mai più, ma anche questa me la tengo per me. Le cose vere non vanno mica dette per forza. Certe volte la verità fa schifo e si merita che la lasciamo da sola in un angolo a meditare su quello che ha fatto.
«Signore, scusi, le posso chiedere una cosa? Pensavo, ora che mi sono rotto la gamba, ecco, quando poi torno a correre è possibile che ho perso un po’ di forza?», ma me lo chiede così allegro e speranzoso che penso di aver capito male.
«Aspetta, cioè, in che senso.»
«Dico», e si drizza meglio sul letto. È tutto elettrizzato, io proprio non lo capisco questo ragazzino. Ha una gamba rotta e siamo all’ospedale perché l’hanno preso a mazzate davanti a un cimitero, ma sembra che stiamo a festeggiare il suo compleanno. «Secondo lei è possibile che quando torno in bici poi magari vado un po’ meno veloce?»
«Ma... boh, come faccio a saperlo. Purtroppo ci sta, è una possibilità. Vediamo un po’.»
«Speriamo, Signore, speriamo tanto.»
«Ma speriamo cosa, che sei meno forte di prima?»
«Sì, ci ho pensato e secondo me è possibile. Cioè, secondo me è una cosa che mi rallenta questa qua, è una cosa che mi fa diventare più debole», fa un sorriso che non gli bastano i denti e si allarga sulle gengive.
«Ma non avevi detto che ora ti piaceva vincere?»
«Sì, sì, Signore, è vero. E infatti io spero che sono diventato più debole, ma mica così tanto come le persone normali.»
Tento di capire le parole del Campioncino, ma so già in partenza che non è possibile. Poi la porta si apre dietro di me, mi volto e c’è Tiziana che si affaccia con un sorriso. E allora resto così a guardarla, senza più nulla in testa.