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Karina 2019
IL vento spazza la caffetteria ogni volta che la vecchia porta di legno si apre cigolando. Fa insolitamente freddo per essere settembre e sono piuttosto sicura che sia una specie di punizione dell’universo per aver accettato di incontrarlo, proprio oggi tra l’altro. Cosa mi è saltato in mente?
Non ho quasi avuto il tempo di nascondere le borse sotto gli occhi con un po’ di trucco. E il vestito che mi sono messa: quand’è stata l’ultima volta che ha visto la lavatrice? Per l’ennesima volta, cosa mi è saltato in mente?
In questo momento sto pensando che ho mal di testa e non so se ho qualcosa in borsa. Sto anche ragionando sul fatto che è stato furbo scegliere il tavolo più vicino alla porta così posso andarmene di corsa se necessario. Questo posto nel centro di Edgewood? Neutrale e per nulla romantico. Un’altra buona scelta. Sono venuta soltanto qualche volta, ma è la mia caffetteria preferita di Atlanta. I posti a sedere sono abbastanza limitati – una decina di tavoli – quindi suppongo che vogliano favorire un veloce ricambio della clientela. Ci sono un paio di elementi degni di Instagram, come la parete di piante grasse e le impeccabili piastrelle bianche e nere alle spalle del bancone del bar, ma nel complesso è un ambiente molto austero. Grigio rigoroso dappertutto e calcestruzzo. Frullatori rumorosi che miscelano il cavolo riccio con qualsiasi frutto vada di moda al momento.
C’è una sola porta cigolante: da lì si esce e si entra. Guardo il telefono e mi asciugo le mani sull’abito nero.
Mi abbraccerà? Mi darà la mano?
Non riesco a immaginare un gesto così formale. Non da parte sua. Maledizione. Mi sto agitando di nuovo e lui non è nemmeno qui. Per la quarta volta oggi, sento il panico salirmi dallo stomaco e mi rendo conto che ogni volta che immagino il nostro incontro, lo vedo con gli occhi della prima volta. Non ho idea di quale versione di lui mi si presenterà davanti. Non lo vedo dall’inverno scorso e non so più chi sia. Ma in realtà, l’ho mai saputo?
Forse ho conosciuto solo una delle sue declinazioni, la sagoma vuota e splendente dell’uomo che sto aspettando.
Immagino che avrei potuto evitarlo per il resto della mia vita, ma non rivederlo più mi sembra peggio che stare seduta qui. Questo almeno posso ammetterlo. Sono qui a scaldarmi le mani con una tazza di caffè e ad attendere che entri da quella vecchia porta rumorosa dopo che ho giurato a lui, a me stessa e a chiunque mi abbia ascoltato negli ultimi mesi che non avrei mai…
Non arriverà prima di altri cinque minuti, ma se è ancora l’uomo che ricordo, entrerà impettito, in ritardo, con quella sua aria cupa sul volto.
Quando la porta si spalanca, è una donna a entrare. I suoi capelli biondi sembrano un nido appiccicato sulla minuscola testa. Tiene il cellulare contro la guancia rossa.
«Non mi frega un accidente, Howie. Fallo», dice brusca, scostando il telefono dall’orecchio con una sfilza di imprecazioni.
Odio Atlanta. Le persone qui sono tutte come lei: suscettibili e perennemente di corsa. Non è sempre stato così. O forse sì, ma io no. Le cose cambiano. Una volta amavo questa città, soprattutto il centro. La scelta di posti in cui mangiare è strepitosa e per un buongustaio proveniente da una piccola città… be’, basta questa come ragione per venire a viverci. Ad Atlanta c’è sempre qualcosa da fare e tutto resta aperto più a lungo che a Fort Benning. Però a quel tempo la sua attrattiva maggiore era il fatto di non avere nulla a che fare con la vita militare. Niente mimetiche ovunque guardassi. Niente uomini e donne in uniforme da combattimento in coda davanti ai cinema, alle stazioni di servizio, da Dunkin Donuts. La gente parlava usando parole vere, non solo acronimi. E c’erano un sacco di tagli di capelli non militari da ammirare.
Amavo Atlanta, ma lui ha cambiato tutto.
Noi abbiamo cambiato tutto.
Noi.
Non mi spingerò oltre nell’ammettere le mie colpe riguardo a ciò che è successo.