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KAEL era fermo
sul retro del centro benessere quando ho finito di lavorare il
giorno seguente, la carrozzeria del suo gigantesco Bronco tutta
gocciolante d’acqua. Indossava una maglietta con le maniche lunghe
e il nome della compagnia stampato davanti e jeans con l’orlo
sfilacciato, come se li avesse portati per anni. Mi venne voglia di
toccare quel denim morbido, consumato, di sentire la trama della
stoffa sotto i polpastrelli.
«Che fai qui? Come
sapevi quando avrei finito?» Ero sorpresa di vederlo, lì ad
aspettarmi, con l’auto appena lavata e un paio di scarpe nuove ai
piedi. Eccitata, ma sorpresa.
«Me lo ha detto un
uccellino», ha risposto togliendosi gli occhiali da sole e
aprendomi la portiera del passeggero.
«E per caso
quell’uccellino aveva un’adorabile accento francese?»
Ha scrollato le spalle.
«È confidenziale», ha risposto impassibile. Ho notato un vago
scintillio nei suoi occhi. Com’era possibile che mi fosse mancato
quando era rimasto sul portico con me fin quasi a mezzanotte e ora
era di nuovo là?
«Che fai qui?» ho
ripetuto. Non sarei salita in macchina senza farlo sudare un
po’.
«Sono venuto nella
speranza che accettassi di uscire con me.»
«Uscire con te? Pensavo
che avessimo detto che non ci sarebbero stati appuntamenti, che ci
saremmo frequentati soltanto, per vedere un po’ come
andava.»
Si è infilato le mani in
tasca ed è rimasto là, accanto alla portiera aperta.
«Allora non c’è bisogno
di considerarlo un appuntamento. Ma stasera ti andrebbe di
frequentarmi, dato che non lavorerai fino a domani a
mezzogiorno?»
Ho detto di sì senza
nemmeno fingere di doverci pensare sopra. Non aveva senso. Sapevamo
tutti e due che sarei andata ovunque mi avesse chiesto di andare.
Mi ha tenuta per il gomito mentre salivo e ha chiuso la portiera
dietro di me. Aprirmi la portiera era stato un gesto così cortese.
Era un signore, e non doveva nemmeno sforzarsi di esserlo. Non
vedevo l’ora di conoscere la donna che aveva cresciuto lui e la sua
sorella prodigio.
«Ho organizzato
qualcosa. Ho messo insieme un po’ di musica.» Si è interrotto,
imbarazzato. «E vorrei portarti a mangiare nel mio posto preferito
in città.»
Ero più eccitata ogni
minuto che passava.
«Ho trovato tipo cinque
band di cui penso tu non abbia mai sentito parlare. Una si chiama
Chevelle. Avevo conosciuto un ragazzo all’addestramento di base che
urlava le parole delle loro canzoni continuamente. Erano della sua
città natale e, quando ci siamo diplomati, conoscevo quasi tutte le
loro canzoni a memoria. Non so se adesso ti piaceranno, ma se li
avessi ascoltati prima di innamorarti di Shawn Mendes, sarebbe
stato tutto diverso.»
Adoravo il modo in cui
la lingua di Kael si avvolgeva sulle parole perché fossero molto
più d’effetto, molto più piacevoli da ascoltare quando le
pronunciava.
Era spensierato e serio,
familiare e distante. Whisky pungente e vino morbido. Amavo il modo
in cui contraddiceva tutto di sé. Era un uomo affascinante e non
vedevo l’ora di conoscerlo meglio.
«Lascia stare Shawn», ho
detto sorridendo.
«Ho visto quel poster in
camera tua a casa di tuo padre. Allora non ci ho pensato, ma adesso
me lo ricordo.»
Kael ha imboccato
l’autostrada mentre la luce del giorno svaniva in
cielo.
«È il John Mayer della
nostra generazione», ho affermato.
Kael ha sbuffato. «John
Mayer è il John Mayer della nostra generazione.»
Alcuni minuti dopo era
in silenzio. Ero contenta mentre ascoltavamo la musica e
percorrevamo una lunga strada tortuosa che non avevo mai fatto.
Avrei sempre ricordato il modo in cui il sole e la luna danzavano
in cielo quella sera e la sensazione di calma che il suo silenzio
aveva iniziato a infondermi.
Ascoltavo la sua voce
quando mi faceva domande a caso come durante il nostro primo
«appuntamento» sul portico. Sarebbe rimasto per sempre il migliore
primo non-appuntamento della mia vita.
«Quanti fratelli avresti
voluto avere?»
«Qual è il tuo
personaggio preferito di Friends?»
«Quante volte hai
visto Il Re Leone?»
Cominciavo a sentirmi
troppo a mio agio con lui, là sul sedile del passeggero del suo
Bronco. Eppure percepivo vagamente il caos che stava per scoppiare.
Stava andando tutto troppo bene. Iniziavo a essere troppo coinvolta
da quell’uomo.
Il nome di mio fratello
è apparso sullo schermo del cellulare e ho pensato di ignorarlo, ma
alla fine ho deciso di no. All’altro capo ho sentito rimbombare una
musica e delle parole biascicate, incomprensibili.
«Kareeee, vieni a
prendermi. Ti prego, Katie. ’Fanculo Katie. ’Fanculo Katie e il suo
ex ragazzo e il suo telefono del cavolo…» Austin farfugliava.
«Kare, ti prego vieni a prendermi.»
Il caos. Era
scoppiato.
Non potevo dire di no.
Ho chiesto a Kael di accompagnarmi all’indirizzo che Austin mi
aveva dato e siamo andati dritti lì. Quando siamo arrivati, due
ragazzi si stavano rotolando in mezzo alla strada, dei loro corpi
vidi solo una maglietta rossa e una nera.
«Lascialo!» Ho
riconosciuto la voce di Katie prima di vederla.
«Dai, Nielson, fagli il
culo!» ha esclamato qualcuno. Prima che mi rendessi conto che era
Austin quello con la maglietta rossa, si sono sentiti ancora un
paio di incoraggiamenti velenosi. Sembrava che avesse bloccato la
testa dell’altro e non avesse intenzione di mollarlo a
breve.
«Basta!» ha gridato di
nuovo Katie. Sono corsa dove si trovava, aveva la faccia rigata di
lacrime e mascara.
«Cos’è successo?» ho
chiesto afferrandola per le spalle. Kael stava urlando il nome di
Austin, cercando di fermare la rissa.
«Il mio ex e Austin…» È
scoppiata in un pianto isterico e non è riuscita a dirmi più di
quanto potessi vedere con i miei occhi.
Alcune sirene sono
risuonate nell’aria mentre Austin lasciava andare la testa del
ragazzo con la maglietta nera per sferrargli un pugno nelle
costole. Sembravano due bambini che giocavano a wrestling nella
loro stanza, invece erano adulti e la polizia stava
arrivando.
Ho urlato il nome di
Austin e Kael ha cercato di tirarlo per la maglietta per
allontanarlo dall’altro. Se fosse stato arrestato di nuovo, sarebbe
stato spacciato. La sirena si era interrotta e le voci si erano
fatte più forti. Fuori c’erano solo cinque persone, ma quando
strillavano tutte insieme era il caos totale.
Tutto stava accadendo
così in fretta.
I poliziotti militari si
sono precipitati fuori dall’auto puntando dritti verso Kael. Ho
urlato correndo da lui proprio mentre Austin cadeva a terra
scagliandomi contro il ragazzo con cui stava lottando, il cui
gomito o il cui pugno mi stava arrivando in faccia. Ho sollevato le
mani per proteggermi e ho sentito Kael gridare. Non era solo un
grido, ma un gemito gutturale di dolore. Aveva un non so che di
animale tanto era intenso e mi ha attraversato il corpo. Mi sono
girata verso di lui senza più pensare a proteggermi. L’unica cosa
che ho pensato quando ho visto il poliziotto sollevare il
manganello, era che Kael era a terra, la gamba destra nella
traiettoria dei militari.
Un altro strillo è
echeggiato nell’aria. Forse era Katie. Forse ero io. Non lo avrei
mai saputo. Quello che sapevo era che Austin, strisciando in mezzo
alla confusione, aveva trovato il Bronco. In qualche modo era
riuscito a sollevare le sue chiappe sbronze e a stendersi
all’interno.
Io e Kael siamo stati
interrogati dai poliziotti militari.
«Dove stavate
andando?»
«Siete sicuri di non
aver bevuto alla festa?»
«Fammi vedere un
documento, soldato.»
Li ho guardati a lungo
in cagnesco dopo che Kael ha smesso di tremare sul blocco del
parcheggio. Anche l’altro ragazzo coinvolto nella rissa si era
allontanato, e quella che avevano chiesto di controllare era
l’identità di Kael.
Quando gli ho detto che
non era giusto che venisse trattato così quando non aveva fatto a
pugni con nessuno, mi ha risposto di non contestare l’autorità, che
non era una buona idea. Dai il potere a un uomo e rovinerà il
mondo, ripeteva sempre mia madre.
Si rivelava aver ragione
ogni giorno di più.
Un’ora dopo siamo
tornati alla macchina. Austin si è svegliato. Eravamo quasi a casa
di mio padre. Mio fratello era completamente fuori di sé, chiedeva
di Katie, di nostra mamma, un sandwich al burro di
arachidi.
«Penso che non sia solo
ubriaco», mi ha detto Kael dopo averlo aiutato a entrare in casa e
a salire le scale. Lo aveva praticamente messo a letto, eppure
pochi minuti dopo che ce n’eravamo andati, papà aveva avuto la
faccia tosta di mandarmi un messaggio per chiedermi se Kael stesse
guidando dopo aver bevuto. Mi sono domandata perché mio padre fosse
in piedi a tarda ora in un giorno feriale e poi non ho risposto. La
mia sopportazione aveva un limite.
«Che significa?» ho
guardato Kael con durezza. Non era il momento di lanciare accuse
senza senso, tipo che mio fratello si fosse drogato. Non riusciva
quasi a trovare i soldi per tagliarsi i capelli, figuriamoci per
comprare droga e coltivare allo stesso tempo la sua passione per
alcol e cucina messicana.
«Niente, stavo solo
pensando a voce alta», mi ha detto Kael.
«Be’ non farlo.» Ero
sulle difensive e Austin era il mio gemello. Non era drogato, aveva
solo bevuto molto più di quanto avrebbe dovuto.
«Penso che sia meglio
che nessuno dei due parli», ho aggiunto solo per provocarlo, il che
era assolutamente ingiusto, soprattutto vista la discussione con la
polizia. Non riuscivo ancora a credere al comportamento nei suoi
confronti. Era come se avessero qualcosa di personale contro di
lui. Il poliziotto militare per poco non aveva abbassato il
manganello sulla sua gamba ferita. Era stata una scena terribile e
il ricordo era cento volte peggiore.
«Mi dispiace, davvero»,
gli ho detto prendendogli la mano per calmarmi. Le sue dita, calde
e familiari, si sono intrecciate alle mie e mi sono sentita di
nuovo con i piedi per terra.
«Mi dispiace per tutto
questo. Hai difeso Austin e sei stato attaccato da quei poliziotti
militari del cavolo. L’idea che debba fare da balia a mio fratello
fa schifo, mi dispiace per tutte le complicazioni che di recente ti
sto creando nella vita.»
Kael ha sospirato
nell’auto silenziosa e ha avvicinato le mie dita alle sue labbra.
«Vali ogni complicazione che ti porti dietro.» Si è chinato per
baciarmi. «Spero che ti sentirai sempre così nei miei confronti»,
ha esclamato prendendomi il viso tra le sue mani
grandi.
«Sempre,
eh?»
«Be’, forse non sempre.
Non volevo spaventarti.»
«Quasi
sempre?»
Ha sorriso e mi ha
attirata a sé. Anche nell’occhio del ciclone riusciva a farmi
sentire saldamente ancorata a terra. Era tutta questione di
percezione, e la mia, forse, aveva bisogno di un paio di dosi di
realtà. Ma invece di cercare il suolo, stavo fluttuando in cielo
con la stella più luminosa di tutte. La voce di mia madre
echeggiava nella mia testa quando ho baciato di nuovo Kael:
le stelle più luminose bruciano più in
fretta, perciò dobbiamo amarle finché possiamo. Me lo aveva detto soltanto una volta, ma tanti anni
dopo lo ricordavo ancora. Immagino che ora che se n’era andata, non
potessi permettermi di dimenticare tutte le sue perle di saggezza e
i modi di dire che aveva collezionato negli anni.
«Andiamo a casa?» ho
proposto a Kael, sapendo che avrebbe capito che mi riferivo alla
mia.
Siamo tornati a casa nel
silenzio più sereno. Le parole della mamma sono svanite dalla mia
mente non appena ci siamo immessi sull’autostrada.