16
ERO in ritardo. Non come quando c’era un tamponamento con conseguente ingorgo o mio padre mi chiamava all’ultimo minuto chiedendomi di prendere dei popcorn per strada. Avevo uno di quei ritardi spaventosi che sarebbero stati coronati dai drammatici sospiri di papà e da una predica sul fatto che Estelle aveva dovuto tenere acceso il forno per scaldare il cibo, che ora il pollo era secco e che non pensavo mai agli altri ma solo a me stessa. Avrei dovuto essere là entro dieci minuti ed ero ancora ferma in macchina nel mio vialetto d’accesso. Come ho detto, in ritardo.
Non sapevo cosa stessi facendo, là seduta in silenzio a guardare fuori dal parabrezza. L’unica cosa che sapevo era che odiavo il martedì e che avevo paura di accendere l’auto. Detestavo qualsiasi obbligo sul quale non avessi il controllo. Non amavo sentirmi dire cosa fare e dove andare, eppure permettevo a mio padre di opprimermi. Lo aveva sempre fatto con me, per tutta la vita… e io non facevo nulla per farlo smettere.
Ho guardato di nuovo il telefono: una chiamata persa da un numero sconosciuto. Quando ho tentato di richiamare, mi sono sentita dire che era una telefonata a carico del destinatario. Ma esistevano ancora?
Sono andata su Instagram, in realtà senza motivo, e ho passato in rassegna le foto delle ragazze che avevo conosciuto alle superiori e che ora erano via, al college o arruolate. Non molti dei miei compagni erano andati al college. Per soldi o per altre ragioni, non era comunque usuale come nei film. Ho smesso di guardarle quando ho visto la fotografia di una costa con un’acqua di un azzurro intenso e la sabbia bianca. Faceva da sfondo a un paio di sdraio sotto gli ombrelloni e nell’angolo dell’immagine c’erano due mani che brindavano con quella che ho immaginato fosse piña colada. La didascalia diceva: «Oddio, se pensate che questo panorama sia splendido, aspettate le foto che posteremo stasera!!! Il cielo qui è trooooppo bello!», ed era seguita da una valanga di emoticon con gli occhi a cuore. La proprietaria dell’account, Josie Spooner, era una vera narcisista sociale che postava qualcosa tutte le volte che usciva di casa. La sua tazza di caffè quotidiano con qualche commento su come fosse «pronta a prendere a calci in culo il lunedì!» o «Bleah, la gente fa schifo. È così cattiva. Non mi va di parlarne!» riempivano spesso la mia pagina. Non so perché non la cancellassi. Non le parlavo da quando ce ne eravamo andati dalla Carolina del Nord. Ma se cancellassi tutti quelli che mi irritano sui social network, non avrei neanche un amico.
Stavo alzando gli occhi al cielo quando ho colto qualcosa nel mio campo visivo. Era Kael, con addosso la sua mimetica marrone, che attraversava a grandi passi il prato e raggiungeva il marciapiede.
Ho abbassato il finestrino e l’ho chiamato.
«Ehi!»
Si è avvicinato alla macchina chinandosi leggermente per vedermi.
«Dove vai?» ho chiesto prima di rendermi conto di quanto sembrassi impicciona.
«Alla base.» Di nuovo quella voce sommessa.
«Adesso? A piedi?» Come se fossero affari miei, accidenti.
Ha scrollato le spalle. «Sì. La mia macchina è là.» Si è guardato l’uniforme. «E anche i miei vestiti.»
«Ma è così lontana.»
Ha scrollato di nuovo le spalle.
Davvero avrebbe fatto cinque chilometri a piedi?
Ho guardato il piccolo orologio digitale sul cruscotto: le sette. In questo momento avrei dovuto bussare alla porta di papà, invece ero seduta in macchina, nel mio vialetto, a chiedermi se offrirgli o no un passaggio. In fondo andavamo tutti e due nello stesso posto…
Be’, forse. Fort Benning non era grande come, diciamo, Fort Hood, ma lo era comunque abbastanza.
Kael si è raddrizzato e la parte superiore del suo corpo è scomparsa mentre si allontanava. L’ho chiamato di nuovo, quasi d’istinto.
«Vuoi un passaggio? Io passo dal cancello ovest, dov’è la tua compagnia?»
Si è chinato di nuovo. «Vicino a Patton, stesso cancello.»
«Proprio vicino a me… voglio dire, alla casa di mio padre. Sali.»
Ho notato il modo in cui torceva le dita. Mi ha ricordato quanto si agitava Austin quando dovevamo andare da nostra madre. Si sedeva dietro con me e si tormentava la pelle attorno le unghie fino a farla sanguinare.
Ho ripetuto l’offerta. Sarebbe stata l’ultima volta.
Kael ha annuito senza dire una parola, si è avvicinato alla portiera del passeggero; a dire il vero, ha puntato al sedile posteriore.
«Non è un taxi», ho osservato scherzando, almeno in parte.
Si è seduto vicino a me. Era tutto diverso. Di solito la mia unica passeggera era la minuta Elodie, invece lì accanto a me c’era quell’uomo grande e grosso che arrivava a toccare il cruscotto con le ginocchia e profumava del mio bagnoschiuma al cocco.
«Puoi spostare il sedile», ho detto.
Ho inserito la retromarcia e il cambio si è bloccato per un istante. Lo faceva da qualche tempo. La mia affidabile Lumina del 1990 era la mia unica certezza da quando l’avevo comprata per cinquecento dollari: quasi tutti in pezzi da uno, frutto delle mance raccolte alla pizzeria La Rosa, dove avevo lavorato dopo la scuola e nei fine settimana.
Ero l’unica del mio gruppo di amici ad avere un lavoro alle superiori. Loro protestavano cercando di distogliermi dal lavoro perché andassi alle feste, al lago, a fumare erba nel parcheggio delle elementari dove ci trovavamo. Sì, delle elementari. Eravamo un po’ delinquenti, ma almeno io lo facevo con i soldi miei.
«Uffa», ho protestato armeggiando con il cambio.
Kael è rimasto in silenzio sul sedile, ma giuro di aver visto la sua mano sollevarsi come se volesse aiutarmi in caso non ce l’avessi fatta. Invece ce l’ho fatta. Le gomme hanno scricchiolato sulla ghiaia del vialetto e un attimo dopo eravamo per strada.
Non ho mandato un messaggio a papà dicendo che ero in ritardo. Perché farlo quando sapevo che mi avrebbe fatto la predica per sms e poi di nuovo di persona, per assicurarsi che capissi bene? Era quel tipo d’uomo.
Evviva il martedì.