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ERO in ritardo.
Non come quando c’era un tamponamento con conseguente ingorgo o mio
padre mi chiamava all’ultimo minuto chiedendomi di prendere dei
popcorn per strada. Avevo uno di quei ritardi spaventosi che
sarebbero stati coronati dai drammatici sospiri di papà e da una
predica sul fatto che Estelle aveva dovuto tenere acceso il forno
per scaldare il cibo, che ora il pollo era secco e che non pensavo
mai agli altri ma solo a me stessa. Avrei dovuto essere là entro
dieci minuti ed ero ancora ferma in macchina nel mio vialetto
d’accesso. Come ho detto, in ritardo.
Non sapevo cosa stessi
facendo, là seduta in silenzio a guardare fuori dal parabrezza.
L’unica cosa che sapevo era che odiavo il martedì e che avevo paura
di accendere l’auto. Detestavo qualsiasi obbligo sul quale non
avessi il controllo. Non amavo sentirmi dire cosa fare e dove
andare, eppure permettevo a mio padre di opprimermi. Lo aveva
sempre fatto con me, per tutta la vita… e io non facevo nulla per
farlo smettere.
Ho guardato di nuovo il
telefono: una chiamata persa da un numero sconosciuto. Quando ho
tentato di richiamare, mi sono sentita dire che era una telefonata
a carico del destinatario. Ma esistevano ancora?
Sono andata su
Instagram, in realtà senza motivo, e ho passato in rassegna le foto
delle ragazze che avevo conosciuto alle superiori e che ora erano
via, al college o arruolate. Non molti dei miei compagni erano
andati al college. Per soldi o per altre ragioni, non era comunque
usuale come nei film. Ho smesso di guardarle quando ho visto la
fotografia di una costa con un’acqua di un azzurro intenso e la
sabbia bianca. Faceva da sfondo a un paio di sdraio sotto gli
ombrelloni e nell’angolo dell’immagine c’erano due mani che
brindavano con quella che ho immaginato fosse piña colada. La
didascalia diceva: «Oddio, se pensate che questo panorama sia
splendido, aspettate le foto che posteremo stasera!!! Il cielo qui
è trooooppo bello!», ed era seguita da una valanga di emoticon con
gli occhi a cuore. La proprietaria dell’account, Josie Spooner, era
una vera narcisista sociale che postava qualcosa tutte le volte che
usciva di casa. La sua tazza di caffè quotidiano con qualche
commento su come fosse «pronta a prendere a calci in culo il
lunedì!» o «Bleah, la gente fa schifo. È così cattiva. Non mi va di
parlarne!» riempivano spesso la mia pagina. Non so perché non la
cancellassi. Non le parlavo da quando ce ne eravamo andati dalla
Carolina del Nord. Ma se cancellassi tutti quelli che mi irritano
sui social network, non avrei neanche un amico.
Stavo alzando gli occhi
al cielo quando ho colto qualcosa nel mio campo visivo. Era Kael,
con addosso la sua mimetica marrone, che attraversava a grandi
passi il prato e raggiungeva il marciapiede.
Ho abbassato il
finestrino e l’ho chiamato.
«Ehi!»
Si è avvicinato alla
macchina chinandosi leggermente per vedermi.
«Dove vai?» ho chiesto
prima di rendermi conto di quanto sembrassi
impicciona.
«Alla base.» Di nuovo
quella voce sommessa.
«Adesso? A piedi?» Come
se fossero affari miei, accidenti.
Ha scrollato le spalle.
«Sì. La mia macchina è là.» Si è guardato l’uniforme. «E anche i
miei vestiti.»
«Ma è così
lontana.»
Ha scrollato di nuovo le
spalle.
Davvero avrebbe fatto
cinque chilometri a piedi?
Ho guardato il piccolo
orologio digitale sul cruscotto: le sette. In questo momento avrei
dovuto bussare alla porta di papà, invece ero seduta in macchina,
nel mio vialetto, a chiedermi se offrirgli o no un passaggio. In
fondo andavamo tutti e due nello stesso posto…
Be’, forse. Fort Benning
non era grande come, diciamo, Fort Hood, ma lo era comunque
abbastanza.
Kael si è raddrizzato e
la parte superiore del suo corpo è scomparsa mentre si allontanava.
L’ho chiamato di nuovo, quasi d’istinto.
«Vuoi un passaggio? Io
passo dal cancello ovest, dov’è la tua compagnia?»
Si è chinato di nuovo.
«Vicino a Patton, stesso cancello.»
«Proprio vicino a me…
voglio dire, alla casa di mio padre. Sali.»
Ho notato il modo in cui
torceva le dita. Mi ha ricordato quanto si agitava Austin quando
dovevamo andare da nostra madre. Si sedeva dietro con me e si
tormentava la pelle attorno le unghie fino a farla
sanguinare.
Ho ripetuto l’offerta.
Sarebbe stata l’ultima volta.
Kael ha annuito senza
dire una parola, si è avvicinato alla portiera del passeggero; a
dire il vero, ha puntato al sedile posteriore.
«Non è un taxi», ho
osservato scherzando, almeno in parte.
Si è seduto vicino a me.
Era tutto diverso. Di solito la mia unica passeggera era la minuta
Elodie, invece lì accanto a me c’era quell’uomo grande e grosso che
arrivava a toccare il cruscotto con le ginocchia e profumava del
mio bagnoschiuma al cocco.
«Puoi spostare il
sedile», ho detto.
Ho inserito la
retromarcia e il cambio si è bloccato per un istante. Lo faceva da
qualche tempo. La mia affidabile Lumina del 1990 era la mia unica
certezza da quando l’avevo comprata per cinquecento dollari: quasi
tutti in pezzi da uno, frutto delle mance raccolte alla
pizzeria La Rosa, dove avevo lavorato dopo la scuola e nei fine
settimana.
Ero l’unica del mio
gruppo di amici ad avere un lavoro alle superiori. Loro
protestavano cercando di distogliermi dal lavoro perché andassi
alle feste, al lago, a fumare erba nel parcheggio delle elementari
dove ci trovavamo. Sì, delle elementari. Eravamo un po’
delinquenti, ma almeno io lo facevo con i soldi miei.
«Uffa», ho protestato
armeggiando con il cambio.
Kael è rimasto in
silenzio sul sedile, ma giuro di aver visto la sua mano sollevarsi
come se volesse aiutarmi in caso non ce l’avessi fatta. Invece ce
l’ho fatta. Le gomme hanno scricchiolato sulla ghiaia del vialetto
e un attimo dopo eravamo per strada.
Non ho mandato un
messaggio a papà dicendo che ero in ritardo. Perché farlo quando
sapevo che mi avrebbe fatto la predica per sms e poi di nuovo di
persona, per assicurarsi che capissi bene? Era quel tipo
d’uomo.
Evviva il
martedì.