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«VUOI restare qui
per un po’?» Ho guardato Austin e per un istante ho visto mia madre
in lui, era qualcosa attorno agli occhi, qualcosa nella forma della
bocca. Eravamo sempre stati un mix dei nostri genitori, ed era una
cosa che mi faceva inorridire.
«No», ha sospirato. «Non
lo so. Devo risolvere i miei casini. Non posso farlo dal tuo
divano.»
«Costa meno di
Barcellona», ho detto, scherzando.
«Pensavo di andare a
vivere con Martin.» Le sue parole sono state un colpo. Un colpo
basso.
«Martin?»
Lo avrei costretto a
dire il suo nome.
«Kael.»
«Da quando siete così
amici?» Non riuscivo nemmeno a nascondere il risentimento nella
voce.
«Non lo so, da una
settimana più o meno.» Ha riso. Non riuscivo a respirare. «È stato
spesso da Mendoza.»
«Sul
serio?»
Non potevo
crederci.
«Senti, so che è
successo qualcosa tra voi e so che è finita. Ed è tutto quello che
so. Tu mi hai detto che non era niente di serio, che il casino con
papà era un equivoco, giusto?» Mi ha guardato dritto negli occhi,
sfidandomi a essere onesta.
Era una sfida che non
avrei accettato.
«Quindi a meno che non
ci sia altro, cose di cui tu voglia mettermi al corrente, non vedo
alcun problema nello stare da lui. È l’unico, a parte Mendoza, che
se ne stia tranquillo, che non si porti a casa una ragazza ogni
notte. Che non si cacci nei guai.»
Mi veniva da vomitare.
Ero sollevata e devastata. Era una pessima
combinazione.
«Non sto dicendo che non
puoi essere suo amico.» Ho sospirato frustrata. «È solo che…» Non
riuscivo a pensare a una valida ragione per dirgli di non stare con
Kael a meno di non raccontargli tutto, e quello non era
assolutamente possibile. Li avrebbe odiati tutti, forse anche
Mendoza.
Bastava già che li
odiassi io.
«Se non vuoi, dillo e
basta. Solo sappi che non posso più stare da papà, Kare. Non posso
farlo.»
Ho annuito. Capivo il
bisogno di allontanarsi da nostro padre. Sarebbe dovuto stare a
casa di Kael. O di Martin. Mi piaceva pensare a lui come Martin, il
soldato che faceva quello che gli veniva detto, che si era offerto
di aiutare mio fratello quando ne aveva bisogno. Non come l’uomo di
cui mi ero innamorata, profondamente e stupidamente.
Non lo vedevo da un po’,
tranne quando avevo dato un’occhiata a Instagram e avevo rivisto le
file di foto di noi due.
Mi aveva cambiato tanto
in un periodo di tempo così breve. Le didascalie sembravano così
argute. «Atlanta si rifiuta di vederci ora», scrissi sotto una foto
di noi due in macchina, una copia di Cinquanta sfumature di grigio sul cruscotto. Lo stavo rileggendo in vista dell’uscita
del film, ed era ancora più eccitante da quando avevo un uomo che a
letto amava comandare appena chiudevo il libro. La gomma dell’auto
si era bucata mentre stavamo partendo, e il viaggio non si era più
fatto.
Mi sono letteralmente
scrollata di dosso quel pensiero, ho scosso la testa per far sì che
non mi invadesse la mente. Le mani mi tremavano. Pensavo ormai di
averlo superato.
«Papà mi sta chiamando
di nuovo», ha detto Austin cambiando discorso.
«Hai intenzione di
rispondere?»
«No.»
Una macchina è passata,
un bambino sul sedile posteriore ci ha salutato con la mano. Austin
ha ricambiato addirittura con un sorriso.
«Mi sono pure trovato un
lavoro», mi ha detto più o meno un minuto dopo. Il sole stava
calando e il cielo cambiava colore sopra di noi.
«Davvero?» Mi sono
rianimata. «È una notizia fantastica», ho esclamato. Ero sincera.
Non lavorava da quando si era fatto licenziare dal drive-in.
«Dove?»
Ha esitato. «Con
Martin.»
«Ovviamente.» Ho
lasciato cadere la testa tra le ginocchia.
«Vuole rivendere quella
villetta bifamiliare, sai? Quella in cui vive. Paga me, Lawson e
tutti gli altri per avere una mano. Io farò più ore di tutti perché
gli altri devono lavorare durante la settimana. Si tratta solo di
togliere la moquette e cavolate del genere.»
Dovevo essere felice per
mio fratello, anche se stava legando la sua vita proprio alla
persona di cui cercavo di liberarmi.
«Voi due siete molto
simili, sai?» ha osservato con un sorriso. Era la prima volta che
sembrava anche solo vagamente felice da quando mi ero
avvicinata.
Ho scosso la testa. «Non
è affatto vero.»
«Come vuoi,
Karina.»
«Come sta Katie?» ho
chiesto spostando di nuovo l’attenzione su di lui. Sapevo che erano
tornati insieme, l’avevo visto su Facebook. Ho supposto che per il
momento il suo ex fidanzato fosse uscito di scena.
«Bene. È giusta per me.
Mi tiene in riga. E si sveglia presto per andare a scuola, quindi
io esco di meno, sai?» Sembrava così fiero di sé che ho lasciato lo
fosse. Eravamo due esseri umani completamente diversi, anche se
avevamo condiviso lo stesso grembo.
«Ottimo. Sono contenta
per te», gli ho detto. Mi sono stesa sul portico appoggiando la
testa vicino alla sua. Eravamo quasi tornati bambini.
«Grazie. Non lo porterò
qui se non vuoi, ma mi sta davvero dando una mano.»
Ho fissato il cielo
supplicando le stelle di venire fuori. Volevo sapere di poter
contare su di loro. Volevo essere certa di qualcosa.
«È tutto a posto.
Comunque mi vedo con qualcuno.» Quelle parole mi erano uscite
fuori, subdole come la bugia che avevo detto.
«Sul
serio?»
«Sì. Non mi va di
parlarne», ho aggiunto, sapendo che avrebbe evitato qualsiasi
complicazione se ne avesse avuto l’opportunità.
«Okay», ha risposto.
«Allora non ti arrabbierai se tra poco passerà a prendermi.» Ha
pronunciato quelle parole in fretta, come se potesse cambiarne il
significato.
«Austin.» Ho detto il
suo nome gemendo. «D’accordo. Vado dentro. Devi proprio comprarti
una macchina.»
«Lo farò ora che ho un
lavoro.» Mi ha sorriso raggiante, alleviando un po’ il mio
dolore.
«Sono orgogliosa di te,
davvero. E vedi, dopotutto non c’è stato bisogno che ti
arruolassi», ho scherzato. Sapevo che non lo avrebbe fatto benché
nostro padre tentasse di costringerlo.
Ho sentito il rombo del
furgone di Kael prima di vederlo. Il mio corpo ha reagito con la
stessa velocità fulminea della mia mente, e mi sono sforzata
attivamente per entrare in casa prima che imboccasse la mia
strada.
Ho ordinato ai miei
piedi di muoversi immediatamente.
Invece Kael è sceso dal
furgone e si è avvicinato al giardino prima che mi fossi spostata
di un centimetro. Aveva gli occhi semichiusi. Portava un cappellino
da baseball. Ho visto un lampo di confusione comparirgli sul volto
quando ha notato che non stavo fuggendo.
Avrei voluto che sapesse
che non ci riuscivo. Volevo muovermi. Volevo disperatamente
muovermi, scappare dentro, nascondermi sotto le coperte e fingere
che non fosse mai successo niente.
«Karina.» La voce di
Kael era un castigo ammantato di seta.
Non riuscivo a vincere
il groppo che avevo in gola. La lingua mi sembrava così
pesante.
Lui sembrava lo stesso e
la cosa mi ha stupita. Come poteva essere passata soltanto una
settimana da quando lo avevo toccato? Non mi pareva possibile. Il
mio corpo era un traditore, si abbandonava ai ricordi del suo
calore mentre lui se ne stava là in piedi in giardino, lontano da
me.
Mio fratello si è alzato
nascondendo per un istante Kael. Era proprio quello che mi serviva
per reagire.
«Ci vediamo», ho detto
ad Austin con tutta la noncuranza che sono riuscita a usare e senza
guardare Kael. Mi meritavo un Oscar. Ho afferrato la maniglia della
zanzariera e non mi sono voltata a guardare. Una volta dentro,
quando ho sentito lo scatto della serratura, mi sono premuta contro
la porta. Era un tentativo di stabilizzarmi, di reggermi in piedi.
Non ha funzionato. Ho pianto così violentemente da scivolare per
terra. E là sono rimasta finché Elodie è tornata dal lavoro e mi ha
spinta ad alzarmi con l’incentivo delle immagini della sua
ecografia. Il suo piccolo avocado ora era lungo come una banana.
Era così felice che ho pianto di nuovo anche io.