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SONO rimasta un
po’ sorpresa di trovare la porta d’ingresso chiusa. Ho cercato le
chiavi e sono entrata prendendo la posta. La piccola cassetta delle
lettere stava cadendo a pezzi. Un’altra cosa da aggiustare. Mentre
scorrevo la posta, sono incappata nella brochure di un’agente
immobiliare in cui figuravano fantastiche e costosissime case di
Atlanta. Ho guardato la sorridente agente, la brochure diceva che
il suo nome era Sandra Dee. Il prezzo di una casa a Buckhead con
una scintillante piscina era di due milioni di dollari. Eh sì,
Sandra, la desidero da morire.
Ma finché non avessi
vinto alla lotteria o fosse decollato il mio progetto di aprire una
catena di spa di lusso ma dal prezzo conveniente, la mia casetta
con la buca delle lettere penzolante sarebbe andata benissimo.
Quando sono entrata, la casa era immersa nel silenzio. Ho scorso di
nuovo la posta, non c’era niente di interessante, soprattutto
bollette e volantini, e visto che l’intera casa odorava del burro
dei popcorn di Elodie facendomi venire fame, ho preso qualche
brezel dalla dispensa.
La casa sembrava diversa
così silenziosa. Era strano non sentire il nome di Olivia Pope ogni
pochi minuti. Ero completamente sola. Nessuna traccia di Elodie.
Nessuna traccia di Kael. Non ci eravamo messi d’accordo per un
orario, ma presumo che avessi immaginato di trovarlo a casa al mio
rientro.
Dove sarebbe potuto
andare altrimenti?
Ho scaldato nel
microonde gli ultimi avanzi di Mali. Ho lavato una valanga di
piatti. Mi sono seduta al tavolo della cucina. Ho preso il libro
che stavo leggendo cercando di riprendere dal punto in cui ero
arrivata. Continuavo a pensare a Kael, a chiedermi come sarebbe
stato quando fossimo andati a fare la spesa. Sarebbe stato più
loquace o sarebbe stata un’uscita muta?
Adoravo tormentarmi
rimuginando, mi dicevo che forse avevo frainteso l’intera
situazione e che Kael aveva pensato che gli avrei dato un passaggio
perché potesse fare la spesa. Poi mi sono convinta di essermi
autoinvitata a fare la spesa con lui, e che probabilmente mi
giudicava stramba o invadente. O entrambe le cose. Dieci minuti
dopo ero tornata alla realtà. Era escluso che Kael stesse pensando
alla nostra conversazione, ovunque fosse. Stavo senza dubbio
reagendo in modo esagerato.
Pensavo in modo
esagerato. Reagivo in modo esagerato. Non erano esattamente talenti
da mettere nel curriculum. Ho posato il libro senza aver letto una
parola, ho preso il telefono e sono entrata in Facebook digitando
Kael Martin nel riquadro di ricerca. Non c’erano aggiornamenti sul
suo profilo. E ancora non riuscivo a decidermi a chiedergli
l’amicizia.
Sono uscita dalla sua
pagina ed entrata nella mia casella di posta, come se aspettassi
una mail importante o qualcosa di simile. Senza accorgermene ho
preso a camminare su e giù per la stanza, a girare in cerchio, ad
agitarmi. Mi sono bloccata di colpo quando mi sono vista allo
specchio. Con i miei capelli scuri tirati indietro e gli occhi da
pazza, sembravo mia madre. Sembravo spaventosamente mia
madre.
Mi sono stesa sul letto
e ho ripreso il libro, ma ho subito sentito di dover cambiare
orizzonte, perciò sono andata in soggiorno e mi sono buttata sul
divano. Ho controllato l’ora sul telefono. Erano quasi le sette. Ho
ripreso dal punto in cui ero arrivata, dalla pagina con l’angolo
ripiegato – non ero mai stata un tipo da segnalibri – e ho lasciato
che il brutale racconto di Hemingway mi riportasse alla Prima
guerra mondiale. Non era però lo svago che avevo sperato. Più mi
veniva sonno, più la faccia di Kael appariva al posto di quella dei
personaggi. Era un sergente istruttore. Un soldato ferito.
L’autista di un’ambulanza. E mi guardava come se riconoscesse i
miei occhi.
Mi sono svegliata sul
divano, il sole splendeva forte sul mio viso. Mi sono guardata
attorno per raccogliere le idee.
Kael non era
tornato.